«Meno male che la popolazione non capisce il nostro sistema bancario e monetario, perché se lo capisse, credo che prima di domani scoppierebbe una rivoluzione». La voce dal sen fuggita è quella di uno che quel sistema lo capiva eccome: Henry Ford. Ma ben prima di lui molti “ben informati” già avevano chiaro in testa che l'interesse delle banche va di qua e quello delle nazioni, cioè dei popoli, di là. Per esempio Sherman Rothschild, di mestiere banchiere, così parlava nel 1863 alla Kliemer, Morton e Vandergould di New York: «Pochi comprenderanno questo sistema, coloro che lo comprenderanno saranno occupati nello sfruttarlo, il pubblico forse non capirà mai che il sistema è contrario ai suoi interessi». Ancora più lucido, benché agli albori del moderno sistema bancario, un altro Rothschild, Amschel Mayer, che nel 1773 così sentenziava: «Le guerre devono essere dirette in modo tale che le nazioni, coinvolte in entrambi gli schieramenti, sprofondino sempre di più nel loro debito e, quindi, sempre di più sotto il nostro potere». Il fatto che sia passato qualche secolo, che in mezzo ci sia stata la nascita delle democrazie moderne e persino il New Deal, non tragga in inganno: più o meno le regole e la mission sono rimaste le stesse; la differenza è che gli strumenti sono oggi più raffinati (basta pensare ai derivati e ai subprime) e le conseguenze sono enormemente più catastrofiche a causa del fatto che il “finanzcapitalismo” (copyright di Luciano Gallino) opera su scala globale. Altrimenti non avrebbe alcun senso ciò che sta accadendo dal 2008, cioè dallo scoppio della crisi negli Usa, ad oggi. Ciò che sta accadendo è questo: in quattro anni, per “salvare” il sistema creditizio mondiale, quello stesso responsabile del disastro economico, sono stati spesi 3.500 miliardi, quanto basterebbe a pagare tutti i debiti di Italia, Spagna, Grecia e Portogallo messi insieme. Si dice (e forse c'è anche del vero) che le banche servono alle economie: senza il credito le imprese si fermano e le famiglie arrancano. E dunque non le si può lasciar fallire, perché nel tracollo trascinerebbero con sé tutti gli altri. Il punto è: quali banche? E per quale scopo? Prendiamo l'ultimo caso, la spagnola Bankia. Si tratta di un colosso nato poco meno di un anno fa dalla fusione di varie casse di risparmio in gravi difficoltà per la bolla immobiliare, nel tentativo di risanare il sistema bancario iberico. L'operazione è salutata positivamente dagli esperti del settore: il gruppo è forte e risanato, si dice. Poiché però grandi investitori stranieri disposti ad accollarsi quote della banca non se ne trovano, parte la caccia disperata ai piccoli risparmiatori spagnoli che fanno arrivare nelle casse di Bankia poco più di tre miliardi, con il titolo valutato a 4,5-5 euro. Ma, al momento del debutto in Borsa, il 20 luglio scorso, il valore viene tagliato a 3,75 perché comincia ad emergere qualche dubbio sulla solidità di Bankia; undici mesi dopo il titolo crolla del 72% e la perdita per i raggirati risparmiatori spagnoli è di 2,2 miliardi di euro. La beffa? Ce n'è più di una. Il presidente Rodrigo Rato e il consigliere delegato Francisco Verdù Pons se ne sono andati incassando ciascuno un milione; Aurelio Izquierdo, direttore generale, ha lasciato Bankia con una buonuscita di 14 milioni; le grandi banche internazionali (da Jp Morgan a Deutsche Bank, da Unicredit a Barlays, da Bank of America-Merril Lynch a Lazard) si portano a casa quasi 146 milioni di euro per aver venduto le azioni di una banca nata fallita ai risparmiatori spagnoli (perché col cavolo che se le sono comprate loro...).
«Che cos'è una rapina in banca a confronto della fondazione di una banca?», tornerebbe a domandarsi oggi Bertold Brecht. Tant'è. Per Bankia, l'Europa deve ora tirare fuori cento miliardi, che si vanno ad aggiungere ai 3.500 di cui sopra, e non un centesimo andrà ai cittadini spagnoli, nemmeno a quelli ai quali i finanzcapitalisti hanno rifilato azioni-spazzatura. Anzi, i soldi per darli alle banche li prendono proprio dalle nostre tasche. Per dire, il boccheggiante governo greco, che ha fondi per pagare gli stipendi solo fino a luglio (così si dice) ha sborsato 18 miliardi per i suoi istituti di credito; il Portogallo 6,6 miliardi; la Spagna 23 miliardi e non sono nemmeno serviti. Per poi si scoprire che le squadre di calcio spagnole hanno debiti per 5 miliardi con le banche nazionali; che le medesime banche, pur in rosso, hanno concesso il favore di dilazionare il debito addirittura al 2020; e che, dunque, saranno i contribuenti europei, attraverso gli aiuti agli istituti di credito iberici, a pagare gli stipendi milionari dei calciatori del Real Madrid o del Barcellona. Per non dire che, ancora oggi e nonostante tutto quel che sta accadendo, le prime venti banche europee hanno ancora in pancia derivati per una cifra pari a metà del Pil europeo, ovvero 5.854 miliardi: una mina pronta ad esplodere. Ovviamente senza colpevoli. Ma c'è di peggio. Il paradosso (solo per noi cittadini) è che per salvare le banche gli stati si indebitano sempre di più e sempre di più si allontana la prospettiva di risanare i conti; scopo per il quale ci vengono imposte le politiche di austerità. Il finanziamento dei due fondi di salvataggio previsti dall'Unione europea (l'European financial stability facility e l'European stabilyty mechanism) all'Italia costerà entro il 2012 ben 48 miliardi di euro (e mancano le quote da versare entro il 2014). Parliamo di due-tre punti di Pil. E pazienza se questo aggraverà il nostro debito pubblico, quello stesso che è intoccabile quando si tratta di pagare le pensioni di noi comuni mortali; di trovare i soldi per dare crescita all'economia; di risolvere il problema degli esodati ecc. Come dire: cosa non si fa per una banca. E' quella che qualcuno chiama la truffa del debito pubblico, il meccanismo attraverso il quale i soldi pubblici vengono drenati nelle casse private di banchieri, squali della finanza, magnati dell'industria ecc. A proposito della Banca d'Inghilterra (fondata nel 1694), Marx scriveva: «Fin dalla nascita le grandi banche agghindate di denominazioni nazionali non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipare loro denaro. Quindi l'accumularsi del debito non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni delle banche». In altre parole, più uno stato si indebita, più le banche (centrali ma non solo) si arricchiscono. Indovinate chi comanda a quel punto? «La Banca d'Inghilterra - descrive Marx - cominciò col prestare il suo denaro al governo all'otto per cento; contemporaneamente era autorizzata dal parlamento a battere moneta con lo stesso capitale, tornando a prestarlo un'altra volta al pubblico in forma di banconote. Non ci volle molto tempo perché questa moneta di credito fabbricata dalla Banca d'Inghilterra diventasse la moneta nella quale la Banca faceva prestiti allo Stato e pagava per conto dello Stato gli interessi del debito pubblico». Così, conclude Marx «proprio mentre riceveva, (la Banca) rimaneva creditrice perpetua della nazione fino all'ultimo centesimo che aveva dato». Provate a sostituire “Banca d'Inghilterra” con “Banca centrale europea”: notate somiglianze? Con due operazioni di finanziamento a basso costo, la Bce ha messo a disposizione del sistema bancario europeo una montagna di liquidità, di cui solo briciole sono andate a imprese e famiglie. Quei soldi sono per lo più serviti, da noi, a comprare i titoli di stato italiani. Uno dice: beh, è per salvare il paese dalla bancarotta e i risparmi di una vita. Macché. Secondo Marco Della Luna e Antonio Miclavez (autori di “Euroschiavi”, Arianna Editrice) funziona così: mettiamo che «lo Stato ha bisogno di 100 milioni di euro per finanziare il proprio deficit di bilancio»; siccome non può stampare moneta, «emette Bot o altri titoli per 100 milioni; la banca centrale li acquista pagandoli con 100 milioni emessi ad hoc a costo zero. La banca centrale è ora creditrice di 100 milioni senza aver speso alcunché. Poi la banca centrale vende ad altri (banche commerciali, fondi di investimento, risparmiatori, banche centrali straniere) questi 100 milioni di Bot e incamera il ricavato. Questi 100 milioni sono il suo guadagno di signoraggio» (si dice proprio così, ndr), mentre lo Stato deve pagare i Bot via via che scadono. E «poiché il guadagno da signoraggio solo in parte viene reimmesso nel circuito produttivo industriale nazionale, il paese dovrà indebitarsi ulteriormente per pagare i titoli del debito pubblico alla scadenza. In questo modo molti paesi occidentali hanno avuto una crescita esponenziale del debito pubblico … mentre gli Stati devono destinare quote ampie e crescenti del bilancio pubblico al pagamento di debito e interessi»; ovvero, «lo Stato dovrà raccogliere sempre più tasse per i banchieri e sempre meno spenderà per la società». Ingegnoso no? «E' assurdo dire che il nostro paese può emettere trenta milioni di dollari in titoli ma non trenta milioni in moneta. Entrambe sono promesse di pagamento; ma una ingrassa l'usuraio, l'altra invece aiuta la collettività», scriveva Thomas Edison nel 1921. Eppure gli «usurai» non sono ancora soddisfatti. Basta vedere l'esito del voto greco: alla vigilia, tutti gli occhi erano puntati su Atene, con le luci dell'Eurotower (sede della Bce) accese fino a notte fonda; sembrava (e questo hanno fatto credere ai greci) che da quel voto dipendessero le sorti dell'umanità. Invece, tutto è rimasto tale e quale: borse giù, spread su. La nuova tiritera adesso è: «Serve l'unione bancaria europea!», guarda un po'. Di nuovo la stessa domanda: indovinate a quel punto chi comanderà? Capito perché «il sistema è contrario agli interessi del pubblico»?
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