Fonte:
micciacorta. di
Pierluigi Sullo - il manifesto 14 Aprile 2011
Caro Alberto, il tuo articolo di ieri sul manifesto (Alberto Asor Rosa, «Non c’è più tempo») non mi ha solo fatto scorrere brividi lungo la schiena:di più, mi ha indotto a sperare che la consapevolezza di come la nostra democrazia sia ridotta in rovine si allarghi, si approfondisca, insomma spinga ad agire. Già qualche anno fa Paul Ginsborg pubblicò un piccolo libro ben affilato, «La fine della democrazia», che restò nella classifiche dei più venduti per settimane.Noi stessi, nel nostro piccolo, abbiamo creato una rete, un sito, che si chiamano «Democrazia chilometro zero» sia perché pensiamo che la democrazia ai tempi della globalizzazione debba necessariamente ricrearsi nelle comunità locali (e questo tu lo sai benissimo), sia perché quello «zero» allude appunto al fatto che, come la Germania del film di Rossellini, dobbiamo ricominciare da zero. Suggerisco quindi al manifesto di fare quel che i giornali fanno nelle grandi e più terribili occasioni - una guerra, il primo Berlusconi al governo nel ’94, gli eventi di Genova nel 2001: ovvero, grande spazio al tema della democrazia in fase terminale.
Ma fin qui, dici tu in sostanza, siamo all’accademia. Che la malattia sia mortale è un fatto conclamato. E che gli antidoti fin qui sperimentati non funzionano è altrettanto sicuro. Non funziona la denuncia degli atti delinquenziali, della corruzione, ovvero il cemento della «banda» al potere. Il Fatto Quotidiano è un grande successo editoriale, e questo si deve principalmente all’insopportabilità dell’impunità, dell’uso privato delle istituzioni, delle leggi «ad personam».
Ma da questo lato, a quanto pare, non si sfonda: l’indignazione e la denuncia, da sole, non bastano. Però non funzionano nemmeno i movimenti della società cui in molti abbiamo affidato speranze di cambiamento «dal basso». È quel che ha scritto, di fianco al tuo articolo, sul manifesto, Ugo Mattei: i movimenti appaiono e scompaiono sugli schermi dei media, e nella società, quasi senza lasciare traccia. Solo negli ultimi anni abbiamo avuto i girotondi,il «popolo viola», i movimenti dei precari, la resistenza della Fiom e le sue alleanze con altri settori sociali, il grande movimento di studenti e ricercatori, la mobilitazione della cultura, l’enorme diffusione di movimenti locali (e globali) come quello dell’acqua, contro le grandi opere, quello antinucleare… L’elenco potrebbe continuare. Ma, come dice appunto Mattei, di un elenco si tratta. La domanda che le rivoluzioni tunisina o egiziana (lasciamo stare la controversa questione libica) ci hanno consegnato è: dove, perché, quando si produce la reazione chimica grazie alla quale rivendicazioni, sofferenze sociali, aspirazioni al cambiamento le più differenti precipitano in un unico momento e luogo, le piazze delle città, e spingono fino a ottenere di far precipitare il potere? Non lo sappiamo per quei paesi, tanto meno lo sappiamo per l’Italia. Perciò la tua conclusione è così brusca, caro Alberto, e oserei dire amara: un cambio non può che venire «dall’alto» (da Napolitano?). Francamente, non credo sia possibile. E nemmeno auspicabile: non esistono «dittature democratiche».
Resta però che dobbiamo ringraziarti per la provocazione: chissà che non usciamo finalmente dall’illusione tipicamente italiana per cui, alla fine, ci arrangiamo.