Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

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mercoledì 13 aprile 2011

San Precario: «E' l'ora dell’esplosione»


“9 aprile”: «Non c’è più tempo per l’attesa». San Precario: «E' ora dell’esplosione»

di Daniele Nalbone (Liberazione.it del 11 aprile 2011)


Analisi della precarietà come elemento scatenante la “questione generazionale”. Bilancio dei rispettivi percorsi. Mediatizzazione delle lotte come inizio di un percorso rivendicativo. Su questi tre punti, a meno di ventiquattro ore dalla grande manifestazione precaria del 9 aprile, abbiamo chiamato a confrontarsi, in una tavola rotonda tenutasi in redazione, Ilaria, responsabile delle campagna Cgil “Giovani non disposti a tutto””, Salvo, archeologo freelance firmatario dell’appello “Il nostro tempo è adesso” Cristian e Valerio dei Punti San precario Leonardo di Generazione P.

Partiamo dal primo punto. Precarietà. Ilaria (Giovani non più disposti a tutto)

- La precarietà è un mondo al cui interno c’è tutto: lavoro nero e precarietà di vita; questione lavorativa e questione generazionale. Crisi economica e crisi abitativa. Se partiamo dal dato che con la crisi economica il tasso di disoccupazione giovanile è in continuo aumento fino ad arrivare al 29% di dicembre 2010 (dati Istat), comprendiamo come è la generazione 18-34 anni a pagare i costi della crisi. Sono i giovani le vittime designate di un sistema che, da un lato, espelle dal mercato del lavoro e, dall’altro, ne permette l’ingresso solo con contratti precari, oggi il 70% dei contratti di lavoro stipulati. Nel tempo, quindi, abbiamo mutato il linguaggio: prima parlavamo di precarietà lavorativa, oggi ci troviamo ad affrontare un fenomeno diffuso: la “condizione precaria”.

Una condizione dovuta al fatto che c’è un’intera generazione che dovrebbe vivere con 500-800-1000 euro al mese. Una generazione “a progetto”, “a collaborazione” ma che in realtà lavora come un qualsiasi lavoratore subordinato, solo che del lavoratore subordinato non ha diritti.

In questo scenario, il vero problema per alzare la testa, come generazione, è che il lavoratore precario è solo, non organizzabile, spesso in conflitto con altri precari. È così che la condizione precaria, che doveva essere sinonimo di flessibile e soprattutto “a tempo determinato” è diventata una condizione di sfruttamento a tempo indeterminato.

Christian (San Precario)

– La condizione precaria, oggi, è una condizione strutturale che non riguarda solo l’aspetto lavorativo. È condizione esistenziale per la quale dobbiamo dire grazie a quanti, dal Pacchetto Treu in avanti, hanno visto nella generazione “precaria” una generazione su cui fare profitti. Siamo la generazione delle 42 modalità diverse di assunzione. Siamo la generazione che vive in una crisi economica che, giorno dopo giorno, sta fomentando la precarizzazione. Siamo la generazione che, quando conquista un contratto a tempo determinato, ottiene 620 euro mensili di media con cui dover pagare un affitto che, a Roma, buca la soglia dei 500 euro.

Ovviamente per una stanza singola. I dati sono chiari: il 75% delle assunzioni dell’ultimo semestre nella Provincia di Roma è stato effettuato con contratti di lavoro atipico. Questo dimostra che la precarietà contrattuale, nel mercato del lavoro, è egemone. Questo dato, poi, non ci parla di tutto ciò che non è registrabile dai centri per l’impiego o dall’Istat. Mi riferisco alla giunga degli “inattivi” e a quanti, datori di lavoro, fanno del lavoro nero la prima forma contrattuale per chi entra nel mondo del lavoro. Ebbene, in questa giungla tutta italiana ci sono decine di migliaia di persone che non hanno alcuno strumento di protezione sociale, nessun welfare. Passiamo da un lavoro nero a uno precario senza ammortizzatori sociali. Con la Grecia, siamo l’unico paese che non prevede forme di welfare per i precari.

Leonardo (Generazione P)

– Siamo una generazione atipica, che vive di lavori atipici. Ristoranti, pub, bar hanno poi trovato nella “chiamata” la modalità di lavoro ordinaria. Per non parlare dei vaucher nel mercato dei servizi. Eppure la Regione Lazio, da quando si è insediata la Giunta Polverini, non ha trovato un euro per finanziare la legge quadro che, nella scorsa legislatura, ha previsto l’erogazione della prima annualità del cosiddetto reddito minimo garantito a 7mila persone ma, al contempo, ha trovato un milione di euro per i vaucher, lavoro accessorio.

(Anche) per questo, come Generazione P, abbiamo deciso di prenderci, dal basso, un pezzo del welfare che questo stato ci sta negando. Stanchi di spendere oltre il 50% del nostro “stipendio”, circa 800 euro al mese in media, per affittare in nero una stanza abbiamo deciso, a ottobre, di occupare un palazzo vuoto da anni nel quartiere del Pigneto di Roma. Molti di noi sono laureati o studiano. Tutti “lavoriamo” tra bar, pub, uffici che ci chiamano per stage nei momenti di maggiore afflusso di lavoro. Così passiamo le nostre serate aspettando che i tre pub con cui siamo in contatti ci chiamino. Il tutto, senza sapere quanto guadagnerai a fine mese, o addirittura se sarai pagato. Senza le nostre famiglie alle spalle, vero welfare di questo paese, non potremmo vivere la nostra vita. Questo è il vero dato di fatto.

Un elemento che sta dando vita a un fenomeno assurdo: il paradosso dell’ulteriore indebitamento sulla fascia generazionale precedente.

SALVO (archeologo – promotore appello Il nostro tempo è adesso)

– Lavoro in un cantiere dove, tra escavatoristi, operai a terra, archeologi, siamo tutti lavoratori precari, se non in nero. Io, personalmente, sono un archeologo a partita iva, senza contratto. Incarno uno spaccato, sono una fotografia della precarietà di questo paese. Un precario “titolato”, che lavora, ma che non merita diritti. In questo scenario, quello che sta avvenendo è che, spesso, come generazione ci hanno condannato a provare una forte invidia nei confronti di chi può godere di un rapporto lavorativo di subordinazione. Perché? Perché ai subordinati, al lavoro dipendente, guarda il sindacato.

Questo tipo di lavoratori ha diritti che noi non meritiamo. Ci sentiamo figli di un dio minore, e questo è dovuto soprattutto a una sinistra che ha combattuto, per anni, il fenomeno della precarietà negandolo. Interpretandolo come effetto collaterale delle trasformazioni del mercato del lavoro. Parlare solo di stabilizzazioni, di abolizione del precariato, per quanto giusto è utopia. Perché non lottare per ottenere un sistema di welfare che permetta anche ai precari un’esistenza dignitosa? Perché non far si che, mentre si lotta per le stabilizzazioni, non si propongano leggi che permettano, ad esempio, a un precario di poter contare su una busta paga mensile? In fondo, senza busta paga non sei cittadino. «Non hai busta paga? Cioè, sei libero professionista? No?

E com’è possibile?». Semplice. Sono precario, sono un corpo estraneo a qualsiasi sistema. Sono un’entità astratta, senza diritti. Ma non è stato il destino ad accanirsi su di me: sono il frutto di quindici anni di destrutturazione del mercato del lavoro. Sono il risultato di chi ha fatto profitto sulla mia pelle. Sono figlio della Legge Biagi, del Pacchetto Treu, della Legge Gelmini. Sono il frutto di questa classe dirigente, politica e sindacale. Secondo punto all’ordine della tavola rotonda: bilanci dei rispettivi percorsi.

Valerio (San Precario)

– Ascoltando gli interventi che mi hanno preceduto, sono questi i motivi per cui, come San Precario, crediamo che sia giunto il momento di passare dalla narrazione all’azione: chi ha corresponsabilità con tutto questo deve essere messo allo scoperto. L’Italia non può limitarsi a prendere coscienza di questo dramma…

Per questo il problema che dovremo sollevare è prettamente politico, dal Pacchetto Treu che in pieno governo Prodi I sancì formalmente la precarietà fino alla Legge Biagi. Eppure quel pacchetto prevedeva degli ammortizzatori sociali per i lavoratori atipici: ammortizzatori che gli stessi relatori della legge hanno pensato bene di cancellare. In un quadro in cui si continua a ragionare sulla vecchia “struttura lavoro” senza rendersi conto del fatto che i precarizzatori, i padroni, hanno deciso da tempo di fare una lotta di classe imponendoci, dall’alto, un nuovo modello: il modello Marchionne. Un modello al quale o si risponde con forme nuove di mobilitazione o si perderà definitivamente. Quindici anni fa hanno provato a convincerci che «non è precarietà, è flessibilità».

Ci hanno fatto credere nella “temporaneità” di questa forma di lavoro. Così, nelle May Day, abbiamo iniziato a narrare la reale dimensione della precarietà. Oltre dieci anni fa. Abbiamo iniziato a costruire un punto critico, un punto di vista precario. E lo abbiamo fatto con l’autonarrazione. Peccato che questo, i media, lo abbiamo recepito come racconto delle nostre sfighe. Per scardinare questo sistema che ci vuole come fenomeni mediatici da compiangere in diretta tv, dobbiamo giungere a un momento in cui non si manifesterà solo come “condizione precaria” ma si attaccheranno i luoghi dove si costruiscono i profitti. Perché, se venti anni fa, chi scioperava riusciva, per un giorno, a bloccare la produzione, a far male ai padroni, oggi che il lavoro è parcellizzato e i lavoratori invisibili, dobbiamo essere in grado di colpire gli obiettivi sensibili con la nostra rabbia. Questo salto sarebbe l’evoluzione del percorso di San Precario. Passare dalla narrazione all’esplosione. Di questo discuteremo negli Stati generali della precarietà in programma il 15-16-17 aprile a Roma.

Ilaria (Giovani non più disposti a tutto)

- In quindici anni è cambiato non solo il mondo del lavoro ma anche quello della produzione. Si è teso a scaricare il rischio del mercato globale nella filiera produttiva, sulle spalle dei lavoratori, soprattutto precari. Lo stesso, con l’affidamento esterno dei servizi, è accaduto anche nel settore del terziario avanzato. Ecco: i percorsi che ci hanno portato al 9 aprile ci hanno mostrato come esiste un problema di legislazione. Se dopo la legge 30 una parte della sinistra ha pensato solo a cancellare il mondo precario, a cancellare la legge 30, l’attuale scenario ha dimostrato l’errore di questa scelta. Non si è pensato, ad esempio, a come la contrattazione potesse contrastare la precarietà per paura, così facendo, di legittimare la precarietà.

Dall’altra parte si è evitato scientemente di riformare il welfare su misura del mondo del lavoro intermittente. I percorsi verso il 9 aprile sono la dimostrazione che il terreno aggregante questa generazione è il welfare. È l’estensione dei diritti. Su questo il sindacato è in ritardo di quindici anni. I motivi? Tanti. Il più importante che è difficile organizzare i lavoratori precari, invisibili, deboli sul piano contrattuale. Noi ci siamo provando. Il Nidil, nella Cgil, è stato un esperimento figlio dell’era “interinale”. Una storia superata dalla dimensione della precarietà e dalla questione generazionale. Il fatto che la Cgil si sia messa a disposizione della data del 9 aprile è però un dato importante. Speriamo che questo, l’11 aprile, porti la Cgil a una riflessione approfondita perché un sindacato come la Cgil non può che assumersi delle responsabilità importanti nei confronti di questa generazione.

Cristian (San Precario)

– Dieci anni fa, con la prima May Day, il primo maggio indipendente, abbiamo iniziato a porre la questione generazionale, a parlare di precarietà. Oggi, dopo dieci anni, la precarietà è una condizione strutturale, caratterizzata dall’assenza dei diritti basilari, dalla maternità alla “semplice” cittadinanza fino alla formazione. Oggi la data del 9 aprile ci vede sicuramente soddisfatti del fatto che, finalmente, si parla di precarietà. Dieci anni fa quello che abbiamo intrapreso come San Precario era un percorso di lotta dei precari. Ora i precari si stanno dimostrando la cosiddetta “eccedenza”: sacche di lavoro, precario e nero, non rappresentate da nessuno e non rappresentabili da nessuno. Autorganizzazione allo stato puro. Maturazione definitiva dei percorsi di rivendicazione di diritti che, nel frattempo, hanno costruito propri strumenti di mobilitazione per conquistare un welfare vero, un reddito di cittadinanza che ci ponga al livello dei paesi europei, Svezia in primis.

Leonardo (Generazione P)

– Generazione P è un’esperienza giovanissima che è stata in grado di inserirsi in una situazione che sta evolvendo in maniera travolgente, in una crisi ormai consolidata. La nostra forza? Essere nati e cresciuti senza rappresentanza, senza sindacati e senza partiti. Una dimensione, questa, che caratterizza una vasta parte del mondo under 30 e che dovrebbe far riflettere le realtà politiche e sindacali del nostro paese. Oggi, per noi, è quasi “naturale” non cercare il sindacato ma agire direttamente in varie forme, prendere parola direttamente ponendo questioni concrete ma anche indicando soluzioni. Siamo la generazione “del 14 dicembre”, quella in grado di sconvolgere i piani di molti ma, al tempo stesso, capaci di sperimentare pratiche di welfare dal basso come l’occupazione di abitazioni per rispondere all’emergenza casa, fenomeno diretta conseguenza della precarietà, esempio della precarietà esistenziale che travalica la dimensione lavorativa. Siamo giunti al momento in cui ora parliamo noi. In questo scenario, la suggestione dello “sciopero precario” non è il sogno di qualcuno, è qualcosa che sta andando da solo. L’idea che si smetta di denunciare la nostra situazione ma che si inizi ad attaccare un meccanismo che sfruttandoci produce profitti è un’idea che dobbiamo concretizzare. È nel sentire comune e diffuso la necessità di questo sciopero.

La generazione precaria è stata prima raccontata criminalizzando in senso vasto quello che era giovane: i fannulloni, gli squatter, gli alcolisti della movida. Moral panic sui giovani sui quali si è incentrato un modello di “governance della precarietà”. Ora siamo nella seconda fase: quella della “pacca sulla spalla”, della “sfiga precaria”. In questo senso il ritorno al 14 dicembre, alle mobilitazioni autunnali, ha dimostrato che c’è una generazione che vuole parlare di sé stessa. Salvo (Il nostro tempo è adesso)

– Voglio intervenire sulla questione delle stazioni appaltanti pubbliche per sottolineare la complicità della pubblica amministrazione nel tema della precarietà che dovremmo, noi precari, iniziare a denunciare in maniera massiccia. Parlo di un caso a me vicino in modo da essere chiaro: il 12 aprile scade una gara in cui la stazione appaltante è l’università di Roma per la realizzazione di un parcheggio multipiano. Nel bando, il costo della giornata del collaboratore archeologo, a base d’asta, è di 50 euro. Al ribasso, diventerà probabilmente 45-40 euro.

Di queste, solo 30-35 andranno realmente al lavoratore. Il resto sarà “profitto extra” per l’impresa che vincerà la gara. Il problema è quindi anche di vigilanza soprattutto per appalti in cui vengono stanziati soldi pubblici. Per quanto riguarda invece le politiche del lavoro, il pacchetto Treu ha sancito una “flessibilità incompiuta”: flessibile nei confronti delle imprese, spietata nei confronti dei lavoratori. Flessibile solo in uscita. Uscita dei lavoratori dal mondo del lavoro, una sorta di respingimento all’esterno dei lavoratori. In questo scenario, nessuna politica di stabilizzazione prospettata dai sindacati ha funzionato. Oggi, a mio avviso, dovremo iniziare ad agire sulla legislazione e sui costi della precarietà per contrastarla: ad esempio, inserire le forme atipiche nei contratti nazionali di lavoro darebbe la possibilità di agire direttamente sulla leva dei costi per il datore di lavoro. Il lavoro precario deve costare di più rispetto al lavoro dipendente. Rendere sconveniente la precarietà a livello economico farebbe rientrare molti abusi.

Terzo e ultimo punto: la mediatizzazione della lotta. Il 9 aprile ha scelto una via mediatica per organizzare la “massa precarietà”. In questo, dieci anni fa, San Precario - definito “media sociale” - ha aperto la strada. In questo campo, però, ci sono molti rischi. Un esempio: Montezemolo, Ichino e Rossi comprendendo la dimensione “mediatica” del fenomeno precari hanno giocato d’anticipo rispetto alla manifestazione ribaltandone lo slogan, portandolo a loro favore per giustificare le loro politiche. Come si può evitare che tutto si riconduca a semplice dibattito politico? Come portare “i precari” a pesare in maniera forte nel panorama sociale ma anche produttivo?

Ilaria per “9 aprile”

– In questi dieci anni tutti abbiamo provato, in maniera diversa, a ricomporre il mondo del lavoro precario. Abbiamo tutti il problema di far capire a una generazione che vive il lavoro come condizione individuale che il suo problema è il problema di tutti. Con creatività, flash mob abbiamo provato a far passare quella narrazione collettiva per identificarsi. Abbiamo provato a utilizzare i media per far si che tutte le persone che si sentono chiamate da quell’appello possono stare in un percorso collettivo. In parte ci siamo riusciti. Ora i rischi sono quello che avverrà dopo l’apertura di questo spazio. Sono contenta che i Montezemolo parlino di questo tema: vuol dire che abbiamo inciso nell’agenda politica. Quanto, poi, la piazza del 9 aprile sarà in grado di mettere in campo soluzioni, di raggiungere obiettivi concreti, di incidere politicamente lo vedremo nelle prossime settimane.

Christian per “San Precario”

– da dieci anni stiamo esprimendo, anche mediaticamente, il “punto di vista precario”. Costruire strumenti rivendicativi per uscire dalla precarietà esistenziale.

Lanciamo una provocazione – proposta. Il 9 aprile non dovrà limitarsi a mostrare precari come testimonial. Per questo, stanchi della narrazione della sfiga, invitiamo tutte le reti in piazza sabato agli Stati generali della precarietà in programma il 15-16-17 aprile a Roma per parlare di precarietà, incrociando diverse forme di precarietà. Confrontiamoci perché abbiamo voglia di Sciopero Precario, dobbiamo bloccare il paese sulla questione della precarietà. Noi siamo la produzione, se ci fermiamo, blocchiamo il paese. Solo così possiamo uscire dai contrattini e dal lavoro nero. Solo così conquisteremo un vero welfare.

Noi non diciamo «piena occupazione per tutti». Diciamo «libertà di scelta», possibile solo con veri strumenti di welfare. Non possiamo più limitarci a portare la nostra solidarietà a sciopericchi che riguardano il mondo del lavoro dipendente.

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