Una delle obbiezioni che più di frequente viene avanzata alladecrescita è che provocherebbe una diminuzione dell’occupazione. Amaggior ragione in questo periodo in cui le economie dei paesiindustrializzati stanno attraversando una crisi da cui non sanno comeuscire.
Questa obbiezione non regge alla prova dei fatti, mentreinvece può essere vero il contrario, che cioè la decrescita, secorrettamente intesa e guidata, consenta, probabilmente è l’unicomodo per consentire, un aumento dell’occupazione e un superamentodella crisi con l’apertura non solo di un nuovo ciclo economico, madi una fase storica più avanzata di quella che abbiamo vissuto dallafine della seconda guerra mondiale.
Prima di entrare nel merito è utile chiarire che cos’è ladecrescita perché molti associano a questa parola un’idea negativadi regresso, diminuzione del benessere, ristrettezze economiche.
Questa interpretazione si fonda sulla convinzione che l’indicatoredella crescita, il prodotto interno lordo, misuri la quantità deibeni che vengono prodotti e dei servizi che vengono forniti da unsistema economico e produttivo nel corso di un anno. Se così fosse,l’incremento del prodotto interno lordo misurerebbe l’aumento delbenessere, la decrescita la sua diminuzione.
In realtà il prodottointerno lordo è un indicatore monetario e, come tale, può misuraresolo il valore economico degli oggetti e dei servizi che vengonoscambiati con denaro. Ovvero, delle merci. Ma non tutte le merci, nontutti gli oggetti e i servizi che si scambiano con denaro, sono beni:rispondono cioè a un bisogno e fanno aumentare il benessere. Persgombrare il campo da trite e ritrite considerazioni psicologichesulla potenziale illimitatezza della propensione al consumo, i bisognia cui si fa riferimento non sono soggettivi, ma oggettivi. Un edificiomal costruito, che consuma 20 metri cubi di gas al metro quadratoall’anno per il riscaldamento, fa crescere il prodotto interno lordopiù di un edificio ben costruito che ne consuma 5, ma 15 metri cubisu 20, i tre quarti del gas utilizzato, sono una merce che, tral’altro, si paga sempre più cara, non sono però un bene perchénon servono a scaldare l’edificio. Non rispondono a nessun bisogno,non hanno nessuna utilità, provocano anzi un danno perchécontribuiscono ad aggravare inutilmente l’effetto serra. Ladecrescita non è una diminuzione del prodotto interno lordo toutcourt, ma una riduzione guidata della produzione e del consumo dimerci che non sono beni, ossia degli sprechi. Per ridurre laproduzione di merci che non sono beni occorrono tecnologie piùavanzate di quelle attualmente in uso. Da ciò deriva la necessità dicreare occupazione in attività professionalmente più evolute eoggettivamente utili, perché non solo riducono il consumo di risorseche stanno diventando sempre più rare, si pensi in particolare allefonti fossili, ma anche gli effetti negativi sugli ambienti cheinevitabilmente ne derivano sia in fase di prelievo, sia in fase diutilizzazione. Di conseguenza, la decrescita non ha niente a chevedere con la recessione. Tra la decrescita e la recessione c’è unrapporto analogo a quello tra chi mangia meno di quanto vorrebbeperché ha deciso di fare una dieta per stare meglio e chi ècostretto a farlo perché non ha abbastanza da mangiare. Queste precisazioni consentono di argomentare tre tesi cheapparentemente sembrano paradossali, ma in realtà forniscono glistrumenti per impostare una politica economica e industriale in gradodi creare occupazione e riavviare il ciclo economico. La prima è chela crescita da almeno trent’anni non crea occupazione. La seconda èche le politiche economiche tradizionali, finalizzate a superare lacrisi e a rilanciare la crescita sostenendo la domanda attraverso laspesa pubblica e la riduzione delle tasse, stanno dimostrando di nonessere più in grado di farlo. La terza è che la decrescita guidatadella produzione di merci che non sono beni è l’unico modo dicreare occupazione in questa fase nei paesi industrializzati.
Che cioè il superamento della crisi economica si può realizzare solosviluppando le tecnologie che consentono di attenuare la crisiambientale aumentando l’efficienza con cui si usano le risorse,riducendone il consumo e, di conseguenza, gli impatti ambientali chegenerano. L’affermazione che la crescita economica sia indispensabile per farcrescere l’occupazione viene ripetuta come un mantra benché, adifferenza del mantra, non abbia lo scopo di liberare la mente dallarealtà illusoria, ma di avvilupparla in una illusione irreale, privadi riscontri empirici e di fondamenti teorici. Dal 1960 al 1998 inItalia il prodotto interno lordo a prezzi costanti si è più chetriplicato, passando da 423.828 a 1.416.055 miliardi di lire (valori aprezzi 1990), la popolazione è cresciuta da 48.967.000 a 57.040.000abitanti, con un incremento del 16,5 per cento, ma il numero deglioccupati è rimasto costantemente intorno ai 20 milioni (erano20.330.000 nel 1960 e 20.435.000 nel 1998).
Una crescita cosìrilevante non solo non ha fatto crescere l’occupazione in valoriassoluti, ma l’ha fatta diminuire in percentuale, dal 41,5 al 35,8per cento della popolazione. Si è limitata a ridistribuirla tra i tresettori produttivi, spostandola dapprima dall’agricolturaall’industria e ai servizi, poi, a partire dagli anni settanta delsecolo scorso, anche dall’industria ai servizi. Se dalla constatazione dei dati si passa alla ricerca delle cause,non è difficile capire che in un sistema economico fondato sullacrescita della produzione di merci indipendentemente da valutazioniqualitative della loro utilità, il mercato impone che le aziendeaccrescano la loro competitività (secondo mantra rovesciato)investendo in tecnologie labour saving per aumentare la produttività(terzo mantra della serie), che tradotto in italiano significa:produrre sempre di più con sempre meno addetti. Cosa che a livelloaziendale può risultare vantaggiosa, ma a livello macroeconomicocomporta simultaneamente una diminuzione della domanda e una crescitadell’offerta. Un problema non di poco conto che, se non ci sinasconde dietro il risibile alibi di imputare un carattereprevalentemente finanziario alla crisi o alle cause che l’hannogenerata, è la causa reale della crisi economica, produttiva eoccupazionale che stiamo vivendo.La sua gravità è accentuata dal fatto che s’intreccia con unacrisi energetica e ambientale altrettanto grave e molto vicina alpunto di non ritorno, ammesso che non sia già stato superato. Da studi recentissimi (2010) del Pentagono e del Ministero della difesatedesco risulta che il picco di Hubert della produzione petroliferasia stato raggiunto. Secondo le valutazioni dell’IPCC, se siriuscirà a ridurre le emissioni di CO2 del 20 per cento entro il2020, cosa tecnicamente possibile se ci fosse la dovuta sensibilitàda parte della politica e dell’opinione pubblica, ma non c’è, inquesto secolo la temperatura media della terra aumenterà di 2 °C, iltriplo del secolo scorso. Se, come è più probabile, non siriuscirà, la temperatura media della terra aumenterà più di 2 °C esi autoalimenterà progressivamente, sfuggendo a ogni possibilità dicontrollo umano. Per far fronte alla recessione, i governi hanno adottato letradizionali misure di politica economica a sostegno della domanda:riduzione della pressione fiscale; deroghe alle norme urbanistiche perincentivare la ripresa dell’attività edilizia; incentiviall’acquisto di beni durevoli: automobili, mobili, elettrodomestici;copertura dei debiti delle banche con denaro pubblico (700 miliardi didollari negli Stati Uniti); grandiosi piani di opere pubbliche.L’ultimo, in ordine di tempo, approvato dal presidente Obama,ammonta a cinquanta miliardi di dollari per strade e ferrovie (laRepubblica, 7 settembre 2010, pag. 21). Queste misure non solo nonsono state in grado di rilanciare il ciclo economico e ridurre ladisoccupazione, ma hanno fatto crescere i debiti pubblici al limitedell’insolvenza. Per scongiurare questo pericolo i governi hannobruscamente capovolto la politica economica, adottando drastichemisure di contenimento della spesa statale che tolgono ossigeno allaripresa economica e alla prospettiva di ridurre la disoccupazione. Resta difficile capire come si sia potuto credere e far credere cheincentivando la domanda di prodotti che hanno saturato da tempo ilmercato si potesse far ripartire la crescita economica. In Italianegli anni sessanta del secolo scorso le automobili circolanti erano1.800.000. Nel 2008 sono state 35 milioni. Se nei decenni passati ilsettore aveva grandi possibilità di espansione, oggi non ne ha più.Ha riacquistato un po’ di slancio con gli incentivi allarottamazione, ma appena sono finiti la domanda di nuoveimmatricolazioni è crollata quasi del 30 per cento da un meseall’altro. A livello mondiale l’eccesso della produzioneautomobilistica è circa un terzo del totale: 34 milioni diautovetture all’anno su 94 milioni. La scelta di puntare sulrilancio della produzione automobilistica non solo si è dimostratafallimentare dal punto di vista economico, ma è anche irresponsabiledal punto di vista energetico e ambientale perché l’autotrasporto(autovetture e camion) assorbe in Italia circa un terzo di tutte leimportazioni di fonti fossili. Contribuisce per un terzo alleemissioni di CO2, che sono la causa principale dell’innalzamentodella temperatura terrestre. Negli anni sessanta del secolo scorso anche il settoredell’edilizia presentava grandi possibilità di espansione, siaperché era necessario completare l’opera della ricostruzionepost-bellica, sia perché erano in corso movimenti migratori dicarattere biblico dalle campagne alle città, dal sud al nord, dalnord-est al nord-ovest.
Ora non è più così. Nel quindicenniointercorrente tra i censimenti agricoli del 1990 e del 2005 sono statiedificati 3 milioni di ettari di terreno: una superficie pari al Lazioe all’Abruzzo. Contestualmente il numero degli edifici inutilizzatiè cresciuto. A Roma ci sono 245.000 abitazioni vuote su 1.715.000.Una su sette. A Milano 80.000 appartamenti su 1.640.000 e 900.000metri cubi di uffici: un volume equivalente a 30 grattacieli Pirelli.Situazioni analoghe si verificano in tutte le città di tutte ledimensioni. I terreni agricoli adiacenti alle aree urbane sonocostellati di capannoni industriali in cui non si è mai svolta laminima attività produttiva. Anche la scelta di puntaresull’edilizia come volano della ripresa economica si è rivelato unerrore strategico e contemporaneamente una dimostrazione diirresponsabilità ambientale perché i consumi energetici degliedifici sono superiori a quelli delle automobili. Assorbonoaltrettanta energia, un terzo del totale, ma solo in cinque mesi peril riscaldamento invernale. Non ci vuole una grande competenza in materia economica, basta unminimo di razionalità per capire che per affrontare con probabilitàdi successo sia gli aspetti economico-occupazionali, sia gli aspettiambientali-climatici della crisi in corso bisogna fare esattamente ilcontrario di quanto si è tentato di fare sino ad ora. Occorre indirizzare il sistema economico-produttivo a sviluppare i settori chepresentano ampi spazi di mercato e, a parità di produzione, riduconol’inquinamento e il consumo di risorse, in particolare quelleenergetiche. Poiché nei decenni passati, in conseguenza dellasovrabbondanza di fonti fossili a prezzi irrisori l’unico obbiettivoche si è perseguito è stato la crescita della produzione di mercisenza nessuna preoccupazione per le conseguenze ambientali, i settoriche oggi presentano i più ampi spazi di mercato sono quelli cheaccrescono l’efficienza nell’uso delle risorse consentendo didiminuire l’inquinamento, le emissioni di CO2 e i rifiuti. Ma secresce l’efficienza nell’uso delle risorse, diminuisceautomaticamente il loro consumo e quindi, una volta che siano statiammortizzati i costi d’investimento con i risparmi sui costi digestione, il prodotto interno lordo diminuisce.
La decrescita guidata della produzione e del consumo di merci che non sono beni, ha lepotenzialità per superare sia gli aspetti economici e occupazionali,sia gli aspetti energetici e climatici della crisi facendo fare unsalto di qualità alla storia umana. Con due vantaggi ulteriori. Le tecnologie con le caratteristicheindicate, che a rigor di logica si possono definire tecnologie delladecrescita, pagano i propri investimenti da sé, col denaro checonsentono di risparmiare sui costi di gestione. E, inoltre, ridannoun senso al lavoro perché non lo indirizzano, come fanno letecnologie della crescita, a produrre quantità sempre maggiori dimerci da buttare sempre più in fretta per produrne altre senzapreoccuparsi della loro utilità e/o dei danni che creano, ma aprodurre con un sempre minore impatto ambientale merci con unautilità specifica. A produrre merci che siano beni per chi leutilizza e non siano un male per la terra.
In ultima analisil’obbiettivo delle tecnologie della decrescita è sostituire inmisura sempre maggiore l’hardware delle materie prime col softwaredell’intelligenza umana guidata dall’etica e dal rispetto dellavita in tutte le forme in cui si manifesta. Riducendo il consumo di merci che non sono beni, il denaro che sirisparmia deve essere necessariamente utilizzato per pagare gliinvestimenti, e i salari, gli stipendi, le parcelle, i guadagni di chiproduce, commercializza, installa, gestisce e fa la manutenzione delletecnologie che riducono il consumo di merci che non sono beni. Letecnologie della decrescita sono in grado di ri-avviare un circolovirtuoso dell’economia, non solo nella logica interna dei ciclieconomici - più produzione, più occupazione, più domanda, piùproduzione - ma anche per le conseguenze positive sugli ambienti esulla vita degli esseri umani. È una pericolosa illusione ipotizzare che si possa uscire dallarecessione riprendendo a fare quello che si è sempre fatto.
Occorre aprire una fase nuova, esplorare una nuova frontiera. Non ci si puòlimitare a misure di politica economica e finanziaria finalizzate adaccrescere la domanda di merci in una logica esclusivamentequantitativa. Occorre adottare criteri di valutazione qualitativa. Non ci si può limitare ad abbassare il costo del denaro per rilanciareinvestimenti e consumi. Occorre decidere quali produzioni si ritieneutile incentivare e quali si ritiene opportuno ridurre. Non ci si puòlimitare a spendere grandi somme di denaro pubblico, che tra l’altronon ci sono, per finanziare grandi opere, di cui si conosce a prioril’inutilità, solo perché si ritiene che possano fare da volanoalla ripresa economica, ma occorre finanziarie opere pubbliche checonsentono di migliorare la qualità ambientale e la vita degli esseriumani. Non i treni ad alta velocità, che hanno un impatto ambientaledevastante, aumentano i consumi energetici e non risolvono il problemadegli spostamenti quotidiani sui tragitti casa - lavoro, ma una reteefficiente di treni locali per ridurre l’inquinamento ambientale elo stress da traffico automobilistico che assorbe anni di vita e minala salute di milioni di pendolari. Non festeggiamenti e manifestazioniper attirare l’arrivo di un numero di consumatori più ampio diquelli che vivono nei luoghi in cui si organizzano, perché sonofuochi di paglia che lasciano pesanti eredità di edifici destinati adegradarsi progressivamente e assorbire quote crescenti dei bilancipubblici per le spese di gestione e manutenzione. Non lo stadio delcurling come si è fatto nelle Olimpiadi invernali di Torino, maospedali efficienti e scuole che non crollino in testa agli studenti.Non piani regolatori espansivi che autorizzano a cementificareprogressivamente i terreni agricoli, ma un programma diristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente perridurne i consumi da 200 chilowattora al metro quadrato all’anno alvalore massimo di 70 vigente nella Provincia di Bolzano. Nonl’incredibile miopia di puntare sulla produzione automobilistica, mala parziale riconversione dell’industria automobilistica allaproduzione di micro-cogeneratori e tri-generatori per dimezzare iconsumi di fonti fossili ricavando il riscaldamento e ilraffrescamento come sottoprodotti della produzione decentrata dienergia elettrica, a partire dagli ospedali e dalle strutture conconsumi continuativi di elettricità e calore nel corso dell’anno.
Lo sviluppo delle tecnologie della decrescita è la strada maestraper uscire dalla recessione e accrescere l’occupazione, non come unobbiettivo in sé, ma come conseguenza di lavori che hanno un sensoperché consentono di migliorare la qualità della vita riducendol’impronta ecologica, il consumo di risorse, l’impatto ambientalee la produzione di rifiuti delle attività con cui gli esseri umaniricavano dalla natura le risorse da trasformare in beni e in merci chesono beni. Se le tecnologie finalizzate ad aumentare la produttivitàfinalizzano il fare umano a fare sempre di più, le tecnologie delladecrescita connotano il fare umano come un fare bene e lo finalizzanoalla possibilità di contemplare ciò che si è fatto. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la cosiddetta green economy,di cui tanto si parla. È indispensabile precisarlo per evitarepericolosi fraintendimenti e prevedibili fallimenti. La green economy,che ha la stessa matrice culturale del cosiddetto svilupposostenibile, è un tentativo di rilanciare la crescita economicapotenziando alcuni settori produttivi con minor impatto ambientale:sostanzialmente le energie alternative in sostituzione delle fontifossili.
È un tentativo di cambiare qualcosa affinché non cambiniente. Non tiene in considerazione il fatto che la fase storicadell’industrializzazione fondata sulla crescita economica si stachiudendo ed è necessario aprirne un’altra se si vuole evitare chela chiusura avvenga con un crollo che seppellirebbe l’umanità sottole sue macerie. La green economy e la necessità di sostituire le fonti fossili conle fonti rinnovabili è stata propugnata con forza dall’attualepresidente degli Stati Uniti, che ha trovato in Italia epigonientusiasti in alcune associazioni ambientaliste. In realtà lapolitica energetica che è scaturita dai suoi buoni propositi ha riproposto le trivellazioni petrolifere in Alaska, non ha contrastatole trivellazioni petrolifere nelle profondità sottomarine, harilanciato il nucleare, l’incenerimento dei rifiuti, il confinamentonon si sa dove della CO2. Nell’ottica della decrescita, la politicaenergetica deve in primo luogo puntare a ridurre i consumi attraversouna riduzione maniacale degli sprechi, delle inefficienze e degli usiimpropri. La percentuale su cui si può lavorare è il 70 per centodegli attuali consumi, che, grosso modo si suddividono in tre grandisettori equivalenti: il riscaldamento degli ambienti,l’autotrasporto, la produzione di energia termoelet trica. Perottenere questo risultato c’è da lavorare per i prossimi decenni inattività che ripagano i loro costi d’investimento con ladiminuzione dei costi di gestione. Solo in un quadro di riduzionedrastica dei consumi-spreco diventa possibile e interessante laprogressiva sostituzione delle fonti fossili con fonti rinnovabili,sia perché non ha senso produrre bene l’energia e continuare aconsumarla male, sia perché le fonti rinnovabili non sono in grado dioffrire lo stesso apporto quantitativo di energia e con la stessacontinuità delle fonti fossili. Sebbene nessuno a parole contestiquesta impostazione, nei fatti tutte le aspettative e tutte leproposte sono incentrate sulla sostituzione delle fonti, nell’attesamessianica della fonte miracolosa, pulita e inesauribile, in grado diliberare l’umanità da ogni limitazione, mentre la riduzione deiconsumi viene considerata con sufficienza, come un’attività diroutine, priva del fascino dell’innovazione. Forse perché è ingrado di realizzare una prospettiva concreta e interessante didecrescita, sovvertendo il paradigma culturale dominante?
Ma c’è un altro elemento che incide pesantemente nel determinareil divario tra il gran parlare di fonti rinnovabili e l’assolutainsufficienza delle realizzazioni. Un elemento insito nella concezionedella green economy come scelta strategica per far ripartire lacrescita economica, come fattore di continuità e non di cambiamentorispetto a un sistema produttivo giunto al suo capolinea storico. Ciò che sfugge ai sostenitori della green economy è che la sostituzionedelle fonti fossili con fonti rinnovabili implica una ristrutturazionecomplessiva del sistema energetico. La maggior parte dell’energianon dovrà più essere prodotta in grandi centrali, ma in una miriadedi piccoli impianti per autoconsumo collegati in rete per scambiare leeccedenze. Solo in questo modo si potranno risolvere i problemi legatialla discontinuità delle fonti rinnovabili, si potrà minimizzare illoro impatto ambientale, si potranno ridurre le perdite ditrasmissione.
Di conseguenza, la rete di distribuzione non potrà piùessere strutturata su grandi dorsali con derivazioni ad albero, madovrà essere reimpostata come una rete di reti locali sul modello diinternet. L’opera non è da poco, ma i problemi tecnici che pone nonpresentano difficoltà insormontabili. Molto più difficili darisolvere sono i problemi politici, perché ciò che mette indiscussione è il potere delle società multinazionali che gestisconoil mercato energetico. Le quali sono disponibili a investire e stannoinvestendo nelle fonti rinnovabili perché si rendono conto che èinevitabile, ma non possono accettare che l’autoproduzione riduca leloro quote di mercato. Non possono accettare che gli incentivi con cuii governi sostengono il settore vadano a una miriade di autoproduttorianziché a rimpinguare i loro bilanci.
Con l’alibi della riduzionedell’effetto serra e della creazione di occupazione nella greeneconomy, i grandi impianti a fonti rinnovabili oltre a devastare ilpaesaggio e i terreni agricoli, implementano legalmente con denaroprelevato dalle tasche dei contribuenti gli utili delle grandi aziendeenergetiche. Con la copertura di tutti i partiti e di alcuneassociazioni sedicenti ambientaliste. E con la possibilità, semprepresente quando si sostengono con denaro pubblico attività inperdita, che una parte di quel denaro sia dirottata illegalmente inaltre tasche dove non dovrebbe arrivare, come alcune operazioniintercettate dalla magistratura lasciano supporre sia accaduto ostesse per accadere. La scelta strategica di spostare l’asse della produzione energeticasu piccoli impianti di autoproduzione con scambio delle eccedenze inuna rete di reti locali sul modello di internet, si inserisce nella seconda scelta strategica di una politica economica finalizzata acreare occupazione nelle tecnologie che consentono di attenuare lacrisi ambientale: l’inversione della tendenza alla globalizzazione ela rivalutazione delle economie locali.
La tendenza allaglobalizzazione è funzionale alla crescita della produzione di mercie ha caratterizzato il modo di produzione industriale sin dagli inizi,insieme agli altri due processi paralleli delle migrazioni edell’urbanizzazione. Va da sé che se si identifica la crescita colbenessere e col progresso, si valutino positivamente questi trefenomeni, perché sono indispensabili per estendere il numero deiproduttori e dei consumatori di merci. Ma non può sfuggire la lororelazione causale con la crisi energetica, i mutamenti climatici, legravi diseguaglianze tra popoli poveri e popoli ricchi, l’impattoambientale e le degenerazioni del sistema agro-industriale, ipeggioramenti delle condizioni contrattuali dei lavoratori dipendentie la crescita della disoccupazione nei paesi industrializzati. La prima reazione agli effetti devastanti della globalizzazione si è avuta nel settore agro-alimentare con la rivalutazione dei prodotti tipici locali, delle cultivar autoctone, della stagionalità, dellecucine tradizionali, delle filiere corte, dei mercati contadini. Inquesta inversione di tendenza, che ha assunto le connotazioni diun’alternativa globale ai prodotti insapori, avvelenati edestagionalizzati dell’agricoltura chimica, trasformati in cibistandardizzati dall’industria alimentare, trasportati a distanzeanche intercontinentali, commercializzati dalla grande distribuzioneorganizzata, un ruolo decisivo è stato svolto da alcune associazionidi produttori e di acquirenti: i salvatori di semi e i coltivatoribiologici da una parte, Slow Food e i gruppi d’acquisto solidaledall’altra.
A partire dall’esperienza dei gruppi d’acquistosolidale, la rivalutazione dei modi di produzione tradizionali e lacommercializzazione diretta tra produttori e acquirenti si staestendendo al settore dell’abbigliamento con risultati sorprendenti.Aziende che lavoravano come contoterziste per grandi marchi ed eranocostrette dalla concorrenza internazionale a subire condizionicontrattuali che le obbligavano a ridurre il personale, delocalizzare in paesi con manodopera a costi inferiori, utilizzare materialiscadenti e tecniche di lavorazione inquinanti, sono riuscite aliberarsi dal giogo della globalizzazione vendendo direttamente leloro merci ai gruppi di acquisto solidale. Poiché operano adimensione locale, realizzano prodotti svincolati dalla necessità diadeguarsi alle variazioni imposte in continuazione dalla moda esaltano le intermediazioni commerciali, possono utilizzare materialiqualitativamente superiori e tecniche di lavorazione tradizionali menoinquinanti. Nonostante ciò riescono a vendere a prezzi moltoinferiori a quelli delle grandi marche e al contempo più remunerativiper loro, per cui hanno rilocalizzato e assunto nuovi occupati a equecondizioni contrattuali.
Anche nell’esperienza di queste aziende la crescitadell’occupazione è stata consentita dal rifiuto della crescitadella produttività e dal rifiuto della ricerca spasmodica di ridurrei costi di produzione per far fronte alla concorrenza internazionale,ma da scelte di carattere qualitativo che comportano la riduzione delconsumo di merci che non sono beni (e, quindi, una decrescita guidatadel pil): capi d’abbigliamento confezionati per durare nel tempo,che con un apparente ossimoro si possono definire di moda durevole;produzione per mercati locali e riduzione del consumo di fonti fossiliper il trasporto; uso di materiali e tecniche di lavorazioneecocompatibili; patto di fiducia reciproca tra produttori e acquirentibasato sulla trasparenza del prezzo; fidelizzazione della clientelamediante una commercializzazione finalizzata ad accrescere laconoscenza di come è fatto ciò che si compra; vendita diretta senzaintermediazioni commerciali. Tutto questo è testimoniato dalla storiarecente, ma ricca di futuro, delle imprese operanti nel settoredell’abbigliamento riunite nella rete X i gas. Contro i cantori a voce spiegata della globalizzazione e dei suoi presunti vantaggi, conto i rauchi coristi dei presunti vantaggi di unaglobalizzazione ben guidata alternativa a quella attuale, in molterealtà territoriali si stanno riscoprendo i vantaggi reali delleeconomie autocentrate, fondate sull’uso di risorse locali e sullaloro commercializzazione in ambito locale in relazione ai prodottifondamentali per la vita: il cibo, l’energia, la costruzione delleabitazioni. Poiché l’agricoltura chimica e la commercializzazione alivello mondiale di molti prodotti alimentari richiedono da 5 a 10calorie fossili per fornire una caloria di cibo, poiché nei paesiindustrializzati i consumi energetici dipendono al 90 per cento daicombustibili fossili, poiché molti materiali da costruzionerichiedono grandi consumi di energia fossile o derivano da processipetrolchimici, una comunità locale che si nutra prevalentemente dicibi prodotti nel territorio, che utilizzi le fonti energeticherinnovabili disponibili sul territorio – acqua, sole, vento – che usi i materiali da costruzione presenti nel territorio anche perabbattere i consumi energetici degli edifici, può attenuare gliimpatti negativi derivanti da una diminuzione dell’offerta e da un aumento dei prezzi delle fonti fossili molto meglio di una comunitàche ne dipenda totalmente.
Come è stato detto felicemente mutuando unconcetto della fisica, acquista una maggiore resilienza. Ma perridurre la dipendenza dalle fonti fossili in agricoltura,nell’energia e nelle costruzioni occorre potenziare il numero deglioccupati in questi settori. Soprattutto in agricoltura, dove èfondamentale invertire la tendenza degli ultimi decenni a ridurre ilnumero degli addetti, sostituendo il lavoro umano con l’uso di unachimica devastante. Oltre a recuperare la sovranità alimentare e,quindi, a fornire una maggiore sicurezza alle popolazioni, lo sviluppodi un’agricoltura di prossimità e meno dipendente dalla chimicaconsente di creare occupazione in un’attività utile sia per ilrisanamento ambientale dei terreni agricoli, sia per la qualità delcibo.
La decrescita, intesa come riduzione della produzione e del consumodi merci che non sono beni, non soltanto è un’opzione decisiva percreare lavoro nei paesi industrializzati, ma è l’unica che consentedi restituire al lavoro il suo senso di attività connotata qualitativamente, di fare bene per soddisfare le esigenze vitali degliesseri umani senza consumare le risorse del pianeta in misura maggioredella loro capacità di rigenerazione.
La decrescita svela la folliainsita nell’obbiettivo di creare occupazione come un valore in sé,omettendo di definire per fare che cosa. Solo una società malata,profondamente malata come quella che finalizza l’economia allacrescita del prodotto interno lordo può averlo pensato e puòcontinuare a pensarlo anche di fronte all’evidenza di non riuscirepiù a farlo. Nel tornante storico che l’umanità sta attraversandosi può creare occupazione soltanto in lavori che consentano disuperarlo attenuando i problemi e ponendo riparo ai danni creati dallacrescita della produzione e del consumo di merci. Soltanto liberandoil fare dalla camicia di forza del fare tanto e restituendogli la suaconnotazione qualitativa di fare bene.
Scarica la relazione in file PDF clicca qui >><http://perilbenecomune.org/upload/documentazione/speciali/Seminario2apr11_RelazionePallante.pdf>
Nessun commento:
Posta un commento