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«Siamo quelli di Genova, che protestavano perché il 20 per cento delle persone controllava l’80 per cento delle risorse», dice Vittorio Agnoletto, ex eurodeputato della Sinistra europea. «Oggi, dopo 10 anni, l’8,7 per cento controlla l’82 per cento delle risorse. Questo sistema non va. È necessario proporne uno alternativo, è necessario che le lotte sociali trovino una rappresentanza politica». Il primo dicembre, si è tenuta l’assemblea costituente del Quarto polo, Cambiare si può. Minimo comun denominatore: l’antiliberismo. Il battesimo di una lista unitaria per le elezioni politiche del 2013 alternativa a Monti, ma anche al centrosinistra. Quarantotto interventi in 5 ore, al teatro Vittoria di Roma, sintetizzabili nelle parole del giornalista Alessandro Gilioti: «Siamo la maggioranza che inizia a intuire che il pensiero unico bocconiano ha prodotto solo disastri. E allora perché affidare l’uscita dalla crisi a chi con la sua ideologia l’ha prodotta?».
Un teatro gremito che non è «la sommatoria di vecchie strutture e dei loro errori», dice aprendo i lavori Livio Pepino direttore di Questione Giustizia rivista di Magistratura democratica. «Serve una grande discontinuità rispetto al passato». In platea ci sono i professori di Alba (acronimo di Alleanza lavoro benicomuni ambiente, il movimento di professori e intellettuali, provenienti per lo più dal gruppo che animò i “girotondi” del 2002), il comitato no debito, i No Tav, gli operai della Fiom, i partiti come Prc e Idv. Di Pietro, però, è il grande assente della giornata, anche se ha poi rimediato con una nota stampa. E, alla vigilia del ballottaggio alle primarie del centrosinistra, era presente anche un pezzo di Sel: Monica Pasquino, esponente romana del partito di Vendola, interviene per esprimere l’adesione sua e di un pezzo di scontenti sellini. E fa outing, dopo l’insuccesso alle primarie di Vendola: «È stato un errore partecipare a queste primarie, che non erano le nostre primarie».
A rappresentare il mondo del lavoro c’è Antonio Di Luca, uno dei 145 operai Fiat di Pomigliano d’Arco, lasciati a casa perché iscritti alla Fiom Cgil. Insieme ad altri 18 colleghi lo scorso 22 ottobre è rientrato in fabbrica dopo che la Corte d’Appello di Roma ha dato loro ragione. Di Luca, uno dei possibili candidati della futura lista arancione, rivendica la vittoria della Fiom: «un sindacato vero che fa paura, e vince». E denuncia: «La Fiat si comporta come uno Stato parallelo. Quando dicevamo che l’accordo Fiat rappresenta un modello ideologico e sociale che non riguarda solo Pomigliano, ma si estende all’intera società civile e produttiva del nostro Paese, avevamo ragione».
Tra le poltrone, si scorge anche un silente Paolo Ferrero che non interviene e poi commenta: «Per costruire una lista unitaria di sinistra, autonoma dal Pd e su posizioni antiliberiste, si può ben sopportare che il segretario del Prc non intervenga a un’assemblea». Rifondazione, insomma, si sente necessaria ma ha capito di non essere “sufficiente”. A parlare, però, si iscrive Dino Greco direttore di Liberazione che avverte: «Nessuna spocchia, nemmeno quella professorale, deve essere usata in questo percorso». E annuncia il ritorno, dal 2 gennaio, del quotidiano del Prc, chiuso a inizio 2012 perché travolto dai tagli all’editoria.
Le ore passano, si succedono puntuali gli interventi da 6 minuti. E arriva il momento delle “star”: Luigi de Magistris e Antonio Ingroia. L’uno, il sindaco di Napoli, parla di «direzione ostinata e contraria» e dà la carica: «Le nostre idee sono la maggioranza del Paese e a questa maggioranza dobbiamo dare voce. La vera sfida è fare la rivoluzione governando, io ci sto se decidiamo di vincere queste elezioni. E per vincere servono buone idee come queste ma anche persone credibili». Uno scrosciante applauso accoglie Antonio Ingroia, il magistrato sulla cui ipotesi di guida del movimento e, quindi, la candidatura a premier si discute da giorni. Ma lui non si sbottona. Dei suoi sei minuti cinque li spende per riepilogare lo stato in cui versa il Paese: «L’Italia, come il Guatemala, è uno Stato a sovranità limitata perché le reti criminali condizionano la politica e l’economia», dice il magistrato. «Da questa seconda Repubblica la politica ne è uscita a pezzi. Nessun salvatore della patria potrà risolvere i problemi del Paese. Serve un’iniezione delle energie migliori della società civile, bisogna osare quello che non si è mai osato e pensare che l’impossibile possa diventare possibile». E solo nell’ultimo minuto scioglie il nodo della sua leadership: «Io sarò con voi. Dal Guatemala o dall’Italia, poi si vedrà», un modo ermetico ma chiaro di dire sì a una platea osannante.
L’atmosfera tra gli “arancioni” è ottimista, senza facili entusiasmi. C’è la consapevolezza che il lavoro da fare è ancora tanto, e che il bacino elettorale al quale rivolgersi pur essendo ampio contiene parecchi ostacoli. Dal sistema montiano all’antipolitica grillina. E, non ultimo, i rapporti che si terranno con un centrosinistra che adesso ha una guida chiara: il vincitore delle primarie Pier Luigi Bersani. Dicembre, sarà un mese cruciale per la creazione della lista unitaria. Prossimo appuntamento il “cambiare si può day”, una serie di assemblee territoriali in ogni provincia italiana (tra il 14 e 15 dicembre) per elaborare, dal basso, liste e programmi. E un secondo appuntamento nazionale, come conclude il professor Marco Revelli (anche lui esponente di Alba) chiudendo l’assemblea, per «verificare se questa proposta ha le gambe per camminare».
Non mancano i richiami al modello Syriza, la coalizione della sinistra radicale greca che esordì nel 2004 con il 3,3 per cento (sei membri al Parlamento greco), crescendo al 5 nel 2007, fino a raggiungere il 26,9 per cento alle elezioni dello scorso giugno. Un’alternativa di programmi e idee che la Grecia in crisi ha accolto a braccia aperte. Varrà lo stesso per l’Italia? In mezzo non c’è solo il mar Ionio, ma anche la soglia del 4 per cento (un milione e mezzo di voti), che potrebbe diventare del 5 con l’eventuale riforma elettorale. E un passato di divisioni e usura della sinistra italiana da cancellare.
Un teatro gremito che non è «la sommatoria di vecchie strutture e dei loro errori», dice aprendo i lavori Livio Pepino direttore di Questione Giustizia rivista di Magistratura democratica. «Serve una grande discontinuità rispetto al passato». In platea ci sono i professori di Alba (acronimo di Alleanza lavoro benicomuni ambiente, il movimento di professori e intellettuali, provenienti per lo più dal gruppo che animò i “girotondi” del 2002), il comitato no debito, i No Tav, gli operai della Fiom, i partiti come Prc e Idv. Di Pietro, però, è il grande assente della giornata, anche se ha poi rimediato con una nota stampa. E, alla vigilia del ballottaggio alle primarie del centrosinistra, era presente anche un pezzo di Sel: Monica Pasquino, esponente romana del partito di Vendola, interviene per esprimere l’adesione sua e di un pezzo di scontenti sellini. E fa outing, dopo l’insuccesso alle primarie di Vendola: «È stato un errore partecipare a queste primarie, che non erano le nostre primarie».
A rappresentare il mondo del lavoro c’è Antonio Di Luca, uno dei 145 operai Fiat di Pomigliano d’Arco, lasciati a casa perché iscritti alla Fiom Cgil. Insieme ad altri 18 colleghi lo scorso 22 ottobre è rientrato in fabbrica dopo che la Corte d’Appello di Roma ha dato loro ragione. Di Luca, uno dei possibili candidati della futura lista arancione, rivendica la vittoria della Fiom: «un sindacato vero che fa paura, e vince». E denuncia: «La Fiat si comporta come uno Stato parallelo. Quando dicevamo che l’accordo Fiat rappresenta un modello ideologico e sociale che non riguarda solo Pomigliano, ma si estende all’intera società civile e produttiva del nostro Paese, avevamo ragione».
Tra le poltrone, si scorge anche un silente Paolo Ferrero che non interviene e poi commenta: «Per costruire una lista unitaria di sinistra, autonoma dal Pd e su posizioni antiliberiste, si può ben sopportare che il segretario del Prc non intervenga a un’assemblea». Rifondazione, insomma, si sente necessaria ma ha capito di non essere “sufficiente”. A parlare, però, si iscrive Dino Greco direttore di Liberazione che avverte: «Nessuna spocchia, nemmeno quella professorale, deve essere usata in questo percorso». E annuncia il ritorno, dal 2 gennaio, del quotidiano del Prc, chiuso a inizio 2012 perché travolto dai tagli all’editoria.
Le ore passano, si succedono puntuali gli interventi da 6 minuti. E arriva il momento delle “star”: Luigi de Magistris e Antonio Ingroia. L’uno, il sindaco di Napoli, parla di «direzione ostinata e contraria» e dà la carica: «Le nostre idee sono la maggioranza del Paese e a questa maggioranza dobbiamo dare voce. La vera sfida è fare la rivoluzione governando, io ci sto se decidiamo di vincere queste elezioni. E per vincere servono buone idee come queste ma anche persone credibili». Uno scrosciante applauso accoglie Antonio Ingroia, il magistrato sulla cui ipotesi di guida del movimento e, quindi, la candidatura a premier si discute da giorni. Ma lui non si sbottona. Dei suoi sei minuti cinque li spende per riepilogare lo stato in cui versa il Paese: «L’Italia, come il Guatemala, è uno Stato a sovranità limitata perché le reti criminali condizionano la politica e l’economia», dice il magistrato. «Da questa seconda Repubblica la politica ne è uscita a pezzi. Nessun salvatore della patria potrà risolvere i problemi del Paese. Serve un’iniezione delle energie migliori della società civile, bisogna osare quello che non si è mai osato e pensare che l’impossibile possa diventare possibile». E solo nell’ultimo minuto scioglie il nodo della sua leadership: «Io sarò con voi. Dal Guatemala o dall’Italia, poi si vedrà», un modo ermetico ma chiaro di dire sì a una platea osannante.
L’atmosfera tra gli “arancioni” è ottimista, senza facili entusiasmi. C’è la consapevolezza che il lavoro da fare è ancora tanto, e che il bacino elettorale al quale rivolgersi pur essendo ampio contiene parecchi ostacoli. Dal sistema montiano all’antipolitica grillina. E, non ultimo, i rapporti che si terranno con un centrosinistra che adesso ha una guida chiara: il vincitore delle primarie Pier Luigi Bersani. Dicembre, sarà un mese cruciale per la creazione della lista unitaria. Prossimo appuntamento il “cambiare si può day”, una serie di assemblee territoriali in ogni provincia italiana (tra il 14 e 15 dicembre) per elaborare, dal basso, liste e programmi. E un secondo appuntamento nazionale, come conclude il professor Marco Revelli (anche lui esponente di Alba) chiudendo l’assemblea, per «verificare se questa proposta ha le gambe per camminare».
Non mancano i richiami al modello Syriza, la coalizione della sinistra radicale greca che esordì nel 2004 con il 3,3 per cento (sei membri al Parlamento greco), crescendo al 5 nel 2007, fino a raggiungere il 26,9 per cento alle elezioni dello scorso giugno. Un’alternativa di programmi e idee che la Grecia in crisi ha accolto a braccia aperte. Varrà lo stesso per l’Italia? In mezzo non c’è solo il mar Ionio, ma anche la soglia del 4 per cento (un milione e mezzo di voti), che potrebbe diventare del 5 con l’eventuale riforma elettorale. E un passato di divisioni e usura della sinistra italiana da cancellare.
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