Un'esperienza che ha segnato un secolo. Domande e nodi irrisolti dell'Unione Sovietica alla luce del presente. Alcune considerazioni a partire dal libro di Rita di Leo «L'esperimento profano»
L'esperimento profano di Rita di Leo, già segnalato da Mario Tronti (il manifesto 25/4), è un breve libro appassionante e provocatorio, con il quale non si può non fare i conti. Si tratta della rivoluzione del 1917, del suo seguito e morte, decisiva per il Novecento, dalla quale la vecchia e nuova sinistra si ritraggono perlopiù senza darsi la pena di conoscerla e affidandosi ad alcuni confortanti clichés. Rita di Leo rompe con i parametri abituali in Occidente, vi distilla una vita di ricerche e non poca passione militante - e forse altrettanta delusione - obbligandoci a un tuffo dall'interno delle sue stesse categorie. Non è un libro di storia, è una chiave di interpretazione proposta in quattro fasi, che presuppone qualche conoscenza degli altri suoi lavori e di una bibliografia essenziale che opportunamente segnala alla fine.
Perché ha chiamato nascita e morte dell'Urss l'«esperimento profano»? Perché è il terzo, e per la prima volta non religioso, tentativo di costruire una comunità di eguaglianza e giustizia in terra, i due precedenti essendo stati quello dei gesuiti nel XVI secolo in Paraguay e del quacchero William Penn nel XVII secolo in Pennsylvania. Ambedue al di là dell'Atlantico. La rivoluzione del 1917 è invece frutto del pensiero politico laico ed europeo, e l'allinearla a quelle due esperienze un po' borderline delle chiese cattolica e protestante non manca di ironia. E infatti Rita di Leo definisce anche questo terzo esperimento come «utopia» o «abbaglio», non luogo o illusione, qualcosa di simile per luminosità e inconsistenza, a una aurora boreale. Cosa che fa sussultare la vecchia comunista che sono, e tanto più mi costringe a riflettere.
Dai filosofi re a BrezhnevVediamo dunque. Rita divide l'esperimento in quattro fasi, secondo gli obiettivi che volta a volta si sono dati coloro che le hanno dirette. La prima è quella che chiama dei «filosofi re», gli intellettuali che attorno a Lenin hanno pensato e guidato la rivoluzione contro l'autocrazia e il capitalismo in Russia, la seconda è la scelta di Stalin di costruire la nuova società sul primato della classe operaia, la terza è il suo proseguimento nello «stato di tutto il popolo» di Krusciov, e la quarta la «gestione popolare» di Leonid Brezhnev. Le prime due mantengono l'«utopia» al primo posto; la terza non indica, come ha voluto credere l'Occidente, una cesura con Lenin e Stalin ma punta a una crescita della rivoluzione fino al «comunismo» previsto entro gli anni '80; la quarta è il tentativo di una «gestione popolare» che rallenti le maglie nelle quali era fino ad allora costretta una società provata e carica di bisogni. Quando infatti Rita di Leo da' loro una data, le quattro fasi diventano due e mezza, poiché dal 1917 al 1956 permane il primato dei fini proposti dalla vecchia guardia bolscevica, Stalin e, diciamo, metà di Krusciov vi resterebbero in continuità, mentre Breznev ne segna un non dichiarato declino e Gorbaciov ne determina la fine. Dal capitalismo al socialismo e ritorno.
Il tutto non senza qualche problema, perché si tratta di una studiosa poco incline a semplificare. Mentre le quattro fasi seguono il trascolorare in se stessa della parola d'ordine dei dirigenti fino al 1956, la datazione li assume nell'asse teorico del gruppo cui di Leo appartiene - Aris Accornero, Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari, Umberto Coldagelli - per il quale il grande discrimine sta fra chi assegna la priorità al progetto politico e chi si arrende a quella dell'economico. Con Gorbaciov si spegne così non solo l'esperimento sovietico ma il l'ultimo frutto del pensiero politico europeo, da sempre teso a un'idea di società prima che a una logica economica. La parabola dell'Urss segna anche l'approdo e la fine del ruolo egemonico dell'Europa. Ed ad essa - al presente tutto mercificato - sono dedicate le ultime quaranta pagine del lavoro - oltre che agli interrogativi, che di Leo lascia aperti, posti dalla Cina.
Un problema di classeE qui mi si affacciano una serie di domande. Si può parlare realmente di una continuità, al di là delle intenzioni dichiarate? Le differenze fra il comunismo di guerra e la Nep, i passaggi dalla morte di Lenin all'espulsione di Trotski nel 1926, da questa ai piani quinquennali e alla lotta contro i contadini ricchi, non possono non aver cambiato agli occhi dei «filosofi re» la composizione e il senso comune della società, da come si era presentata nel saggio di Lenin sul capitalismo in Russia al 1930. Anche osservando la sola Nep, è evidente che i rapporti sociali fra classi e ceti subivano una scossa dopo l'altra, fra estromissione e riammissione, per non dire della successiva separazione dei contadini in un paese ancora maggioritariamente contadino: Lenin non cessa di ricordarlo. Se la sola classe, per dir così, legittimata restava la classe operaia, che sarebbe venuta crescendo con l'uscita dalle campagne, con quali mezzi Stalin garantiva la promozione dei dipendenti dall'industria a «classe», e protagonista? Non si nasce classe, si diventa. Gli operai, raccolti nelle grandi fabbriche, erano favoriti dai salari più elevati di quelli dei quadri intellettuali e tecnici, dal ricevere dall'azienda prodotti in natura, oltre che vacanze, cure e accesso ai teatri o ai concerti e anche dalla possibilità di cambiare lavoro all'interno delle regole sugli spostamenti fra regioni e città. Quando andai a Mosca nel 1949 rimasi stupefatta degli elenchi, appesi alle cancellate, di mansioni e manodopera di cui ogni fabbrica era in cerca. Non li ho mai visti né prima né dopo in nessuna altra parte. Si aggiunga che gli operai godevano di una certa libertà nel definire le cadenze dell'organizzazione del lavoro - Rita di Leo si spinge a definirla «autonomia» - e se era loro aperto, tramite la direzione dell'impresa e il partito, l'accesso a una continua riqualificazione e da questa alle gerarchie sia della fabbrica sia del partito. Questo garantiva il consenso operaio al gruppo dirigente, ma si può dubitare che la soddisfazione di questi bisogni ne allargasse la coscienza oltre i limiti corporativi nei quali i filosofi re, ma anche i filosofini degli altri partiti comunisti e adiacenti, li consideravano intrisi.
Perché ha chiamato nascita e morte dell'Urss l'«esperimento profano»? Perché è il terzo, e per la prima volta non religioso, tentativo di costruire una comunità di eguaglianza e giustizia in terra, i due precedenti essendo stati quello dei gesuiti nel XVI secolo in Paraguay e del quacchero William Penn nel XVII secolo in Pennsylvania. Ambedue al di là dell'Atlantico. La rivoluzione del 1917 è invece frutto del pensiero politico laico ed europeo, e l'allinearla a quelle due esperienze un po' borderline delle chiese cattolica e protestante non manca di ironia. E infatti Rita di Leo definisce anche questo terzo esperimento come «utopia» o «abbaglio», non luogo o illusione, qualcosa di simile per luminosità e inconsistenza, a una aurora boreale. Cosa che fa sussultare la vecchia comunista che sono, e tanto più mi costringe a riflettere.
Dai filosofi re a BrezhnevVediamo dunque. Rita divide l'esperimento in quattro fasi, secondo gli obiettivi che volta a volta si sono dati coloro che le hanno dirette. La prima è quella che chiama dei «filosofi re», gli intellettuali che attorno a Lenin hanno pensato e guidato la rivoluzione contro l'autocrazia e il capitalismo in Russia, la seconda è la scelta di Stalin di costruire la nuova società sul primato della classe operaia, la terza è il suo proseguimento nello «stato di tutto il popolo» di Krusciov, e la quarta la «gestione popolare» di Leonid Brezhnev. Le prime due mantengono l'«utopia» al primo posto; la terza non indica, come ha voluto credere l'Occidente, una cesura con Lenin e Stalin ma punta a una crescita della rivoluzione fino al «comunismo» previsto entro gli anni '80; la quarta è il tentativo di una «gestione popolare» che rallenti le maglie nelle quali era fino ad allora costretta una società provata e carica di bisogni. Quando infatti Rita di Leo da' loro una data, le quattro fasi diventano due e mezza, poiché dal 1917 al 1956 permane il primato dei fini proposti dalla vecchia guardia bolscevica, Stalin e, diciamo, metà di Krusciov vi resterebbero in continuità, mentre Breznev ne segna un non dichiarato declino e Gorbaciov ne determina la fine. Dal capitalismo al socialismo e ritorno.
Il tutto non senza qualche problema, perché si tratta di una studiosa poco incline a semplificare. Mentre le quattro fasi seguono il trascolorare in se stessa della parola d'ordine dei dirigenti fino al 1956, la datazione li assume nell'asse teorico del gruppo cui di Leo appartiene - Aris Accornero, Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari, Umberto Coldagelli - per il quale il grande discrimine sta fra chi assegna la priorità al progetto politico e chi si arrende a quella dell'economico. Con Gorbaciov si spegne così non solo l'esperimento sovietico ma il l'ultimo frutto del pensiero politico europeo, da sempre teso a un'idea di società prima che a una logica economica. La parabola dell'Urss segna anche l'approdo e la fine del ruolo egemonico dell'Europa. Ed ad essa - al presente tutto mercificato - sono dedicate le ultime quaranta pagine del lavoro - oltre che agli interrogativi, che di Leo lascia aperti, posti dalla Cina.
Un problema di classeE qui mi si affacciano una serie di domande. Si può parlare realmente di una continuità, al di là delle intenzioni dichiarate? Le differenze fra il comunismo di guerra e la Nep, i passaggi dalla morte di Lenin all'espulsione di Trotski nel 1926, da questa ai piani quinquennali e alla lotta contro i contadini ricchi, non possono non aver cambiato agli occhi dei «filosofi re» la composizione e il senso comune della società, da come si era presentata nel saggio di Lenin sul capitalismo in Russia al 1930. Anche osservando la sola Nep, è evidente che i rapporti sociali fra classi e ceti subivano una scossa dopo l'altra, fra estromissione e riammissione, per non dire della successiva separazione dei contadini in un paese ancora maggioritariamente contadino: Lenin non cessa di ricordarlo. Se la sola classe, per dir così, legittimata restava la classe operaia, che sarebbe venuta crescendo con l'uscita dalle campagne, con quali mezzi Stalin garantiva la promozione dei dipendenti dall'industria a «classe», e protagonista? Non si nasce classe, si diventa. Gli operai, raccolti nelle grandi fabbriche, erano favoriti dai salari più elevati di quelli dei quadri intellettuali e tecnici, dal ricevere dall'azienda prodotti in natura, oltre che vacanze, cure e accesso ai teatri o ai concerti e anche dalla possibilità di cambiare lavoro all'interno delle regole sugli spostamenti fra regioni e città. Quando andai a Mosca nel 1949 rimasi stupefatta degli elenchi, appesi alle cancellate, di mansioni e manodopera di cui ogni fabbrica era in cerca. Non li ho mai visti né prima né dopo in nessuna altra parte. Si aggiunga che gli operai godevano di una certa libertà nel definire le cadenze dell'organizzazione del lavoro - Rita di Leo si spinge a definirla «autonomia» - e se era loro aperto, tramite la direzione dell'impresa e il partito, l'accesso a una continua riqualificazione e da questa alle gerarchie sia della fabbrica sia del partito. Questo garantiva il consenso operaio al gruppo dirigente, ma si può dubitare che la soddisfazione di questi bisogni ne allargasse la coscienza oltre i limiti corporativi nei quali i filosofi re, ma anche i filosofini degli altri partiti comunisti e adiacenti, li consideravano intrisi.