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Se c’è una cosa che ha insegnato la crisi finanziaria è che staremmo tutti meglio con meno finanza.
Dall’agosto del 1971 – quando ha inizio il regime di “cambi flessibili”, che scardinano il sistema creato a Bretton Woods – si sono susseguite decine di crisi finanziarie, alcune di eccezionale gravità, che hanno messo a repentaglio la sicurezza di interi paesi e i diritti acquisiti di milioni di persone. Nel frattempo la finanza ha assunto dimensioni difficili perfino da immaginare, arrivando a condizionare pesantemente le politiche degli stati. Ogni anno vengono scambiati titoli per 1.500.000 miliardi di dollari, pari a circa 4.100 miliardi di dollari al giorno, circa il doppio del Pil italiano prodotto in un anno.
E pensare che nel 1970 tali transazioni si aggiravano tra i 10 e i 20 miliardi di dollari. Oltre il 90% di esse sono di natura speculativa e questo ha accresciuto enormemente la volatilità dei mercati e la possibilità di nuove crisi, arrivando a intaccare l’economia reale. L’illusione che il denaro potesse creare magicamente altro denaro, senza produrre nulla, ha messo alla prova la creatività degli ingegneri finanziari, che ogni giorno mettono a punto nuovi complessi strumenti, talvolta incomprensibili perfino a chi li ha creati. Si possono benissimo comprare e vendere milioni di titoli senza nemmeno possederne uno, scommettendo sulle continue differenze di valore.
Se la finanza nasce come luogo dove chi ha bisogno di capitali può rifornirsi da chi ne ha in eccesso, oggi essa è per lo più una piazza di scommesse. Ma i beni sottostanti sono sempre quelli: azioni, ossia porzioni di aziende, obbligazioni, ossia prestiti ad imprese o a stati, per attività alle quali lavorano persone in carne ed ossa. E quando un titolo scende non ci perde solo l’investitore, ma anche i lavoratori e i consumatori, poiché gli azionisti/investitori faranno di tutto per far riguadagnare valore alle azioni in portafoglio, tagliando costi del personale, spese per la ricerca, servizi al consumatore, misure antinquinamento, oppure intensificando lo sfruttamento del suolo e dell’ambiente, tutte azioni finalizzate a far lievitare i profitti. Ma ciò avviene anche quando il titolo non scende, semplicemente per mostrare un bilancio in attivo alla comunità degli investitori, che per legge deve essere pubblicato ogni trimestre.
Il risultato è una continua erosione dei diritti dei lavoratori e un aumento dell’attività predatoria dell’azienda, a scapito di tutti. Trent’anni di finanza selvaggia hanno aumentato la disuguaglianza, creando nuove classi di privilegiati, capaci di maneggiare le leve delle speculazione finanziaria ma del tutto irresponsabili circa le ricadute sociali delle loro azioni. La crisi in corso ha già aumentato il debito dei paesi Ocse di 20 punti percentuali, che a loro volta produrranno oneri per interessi che ricadranno sulla collettività. Ma sarebbe interessante fare una stima dei costi economici e sociali dell’ascesa della finanza a partire dagli anni 70, nonché i costi politici in termini di crisi della rappresentanza a della sovranità. Vedremmo che forse non è valsa la pena e a guadagnarci sono stati davvero pochi. Vedremmo che mai come oggi urge una nuova regolamentazione, che restringa il raggio di azione della finanza.
E sulla quale, a quanto pare, nessuno ha voglia di lavorare. E allora dovremmo chiederci cosa potremmo fare come risparmiatori e come società civile, per non dare sostegno un sistema ormai degenerato. Sulle colonne del Corriere delle Sera il bravo Massimo Mucchetti si poneva degli interrogativi cruciali, parlando dei famigerati hedge funds (fondi di investimento speculativi). Era il 14 maggio scorso, dopo i primi violenti attacchi speculativi all’euro: “È troppo chiedere che i soggetti regolati (perché usano i soldi degli altri) (in primis le banche, ndr) possano finanziare questi soggetti speculativi solo a patto che impegnino quote di patrimonio proporzionali alla leva che questi stessi soggetti speculativi usano e ne diano conto a loro volta al mercato? E’ sbagliato pretendere che chi specula depositi prima la posta? O esigere che la libertà di manovra dei fondi sovrani sia subordinata all’osservanza di obblighi minimi di trasparenza? L’ opacità di certi operatori, avvertono i magistrati, può servire a riciclare il denaro caldo delle mafie e dell’ evasione fiscale, ma anche – e sarebbe una beffa già vista – a usare i soldi delle banche centrali contro le ‘loro’ monete. Un tal giro di vite comporterebbe, alla fine, meno finanza? Se fosse, sarebbe forse un dramma? E per chi?”
Dall’agosto del 1971 – quando ha inizio il regime di “cambi flessibili”, che scardinano il sistema creato a Bretton Woods – si sono susseguite decine di crisi finanziarie, alcune di eccezionale gravità, che hanno messo a repentaglio la sicurezza di interi paesi e i diritti acquisiti di milioni di persone. Nel frattempo la finanza ha assunto dimensioni difficili perfino da immaginare, arrivando a condizionare pesantemente le politiche degli stati. Ogni anno vengono scambiati titoli per 1.500.000 miliardi di dollari, pari a circa 4.100 miliardi di dollari al giorno, circa il doppio del Pil italiano prodotto in un anno.
E pensare che nel 1970 tali transazioni si aggiravano tra i 10 e i 20 miliardi di dollari. Oltre il 90% di esse sono di natura speculativa e questo ha accresciuto enormemente la volatilità dei mercati e la possibilità di nuove crisi, arrivando a intaccare l’economia reale. L’illusione che il denaro potesse creare magicamente altro denaro, senza produrre nulla, ha messo alla prova la creatività degli ingegneri finanziari, che ogni giorno mettono a punto nuovi complessi strumenti, talvolta incomprensibili perfino a chi li ha creati. Si possono benissimo comprare e vendere milioni di titoli senza nemmeno possederne uno, scommettendo sulle continue differenze di valore.
Se la finanza nasce come luogo dove chi ha bisogno di capitali può rifornirsi da chi ne ha in eccesso, oggi essa è per lo più una piazza di scommesse. Ma i beni sottostanti sono sempre quelli: azioni, ossia porzioni di aziende, obbligazioni, ossia prestiti ad imprese o a stati, per attività alle quali lavorano persone in carne ed ossa. E quando un titolo scende non ci perde solo l’investitore, ma anche i lavoratori e i consumatori, poiché gli azionisti/investitori faranno di tutto per far riguadagnare valore alle azioni in portafoglio, tagliando costi del personale, spese per la ricerca, servizi al consumatore, misure antinquinamento, oppure intensificando lo sfruttamento del suolo e dell’ambiente, tutte azioni finalizzate a far lievitare i profitti. Ma ciò avviene anche quando il titolo non scende, semplicemente per mostrare un bilancio in attivo alla comunità degli investitori, che per legge deve essere pubblicato ogni trimestre.
Il risultato è una continua erosione dei diritti dei lavoratori e un aumento dell’attività predatoria dell’azienda, a scapito di tutti. Trent’anni di finanza selvaggia hanno aumentato la disuguaglianza, creando nuove classi di privilegiati, capaci di maneggiare le leve delle speculazione finanziaria ma del tutto irresponsabili circa le ricadute sociali delle loro azioni. La crisi in corso ha già aumentato il debito dei paesi Ocse di 20 punti percentuali, che a loro volta produrranno oneri per interessi che ricadranno sulla collettività. Ma sarebbe interessante fare una stima dei costi economici e sociali dell’ascesa della finanza a partire dagli anni 70, nonché i costi politici in termini di crisi della rappresentanza a della sovranità. Vedremmo che forse non è valsa la pena e a guadagnarci sono stati davvero pochi. Vedremmo che mai come oggi urge una nuova regolamentazione, che restringa il raggio di azione della finanza.
E sulla quale, a quanto pare, nessuno ha voglia di lavorare. E allora dovremmo chiederci cosa potremmo fare come risparmiatori e come società civile, per non dare sostegno un sistema ormai degenerato. Sulle colonne del Corriere delle Sera il bravo Massimo Mucchetti si poneva degli interrogativi cruciali, parlando dei famigerati hedge funds (fondi di investimento speculativi). Era il 14 maggio scorso, dopo i primi violenti attacchi speculativi all’euro: “È troppo chiedere che i soggetti regolati (perché usano i soldi degli altri) (in primis le banche, ndr) possano finanziare questi soggetti speculativi solo a patto che impegnino quote di patrimonio proporzionali alla leva che questi stessi soggetti speculativi usano e ne diano conto a loro volta al mercato? E’ sbagliato pretendere che chi specula depositi prima la posta? O esigere che la libertà di manovra dei fondi sovrani sia subordinata all’osservanza di obblighi minimi di trasparenza? L’ opacità di certi operatori, avvertono i magistrati, può servire a riciclare il denaro caldo delle mafie e dell’ evasione fiscale, ma anche – e sarebbe una beffa già vista – a usare i soldi delle banche centrali contro le ‘loro’ monete. Un tal giro di vite comporterebbe, alla fine, meno finanza? Se fosse, sarebbe forse un dramma? E per chi?”
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