Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

giovedì 23 febbraio 2012

L'Italia scopre, con notevole ritardo, il mercato mondiale.

di Pasquale Cicalese per Marx21.it
“Produzione di massa e vendite di massa erano, su base capitalistica, desiderabili da tempo immemorabile. Solo nella fase avanzata dell’accumulazione, però, quando la valorizzazione dell’enorme capitale all’interno diventa sempre più difficile, solo in questa fase l’estensione e la sicurezza di un mercato di sbocco più grande possibile diviene una questione di vita per il capitalismo. (…) Da tutto questo deriva che anche nell’area nazionale si fa avanti l’idea sempre più vincente della “grande azienda” nei confronti della “piccola e media azienda” Henryk Grossmann, “La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista”, Mimesis 2011, pag. 399.


Partiamo da un dato: a prezzi correnti, il pil mondiale è cresciuto dal 2000 al 2011 da 37 mila miliardi di dollari a 73 mila miliardi, mentre il commercio estero, complessivamente, è cresciuto nello stesso periodo di circa il 170%.



Nello stesso arco di tempo il pil italiano è cresciuto, cumulativamente, di appena il 4%, mentre a livello di commercio estero le quote nel mercato mondiale sono passati dal 4,1 al 2,9%, venendo a mancare un fattore di controtendenza alla crisi di primaria importanza.

Tali dati certificano in pieno la débacle della borghesia italiana, che negli anni Novanta strillava contro gli oligopoli pubblici presentandosi come il ceto che avrebbe portato l’Italia nel novero dei paesi industrializzati del mondo, a patto che si riformassero mercato del lavoro e delle pensioni.

Il ceto politico di quelli anni offriva loro il pacchetto Treu e la “nuova programmazione” nel Mezzogiorno del duo Ciampi-Barca, il cui pilastro era un’ondata di incentivi a fondo perduto per le “imprese” di questa zona del paese.

Contemporaneamente, il ceto universitario cantava le lodi delle piccole imprese alternativo all’assetto del dopoguerra, almeno fino agli anni Settanta, fondato su oligopoli pubblici.

Andò diversamente. A partire dal 1999, con l’entrata in vigore della moneta unica, il declino inarrestabile di questo ceto imprenditoriale diviene palese. La dirigenza italiana si trastullerà nel decennio 2000 sulla minaccia asiatica, incapace di analizzare le cause interne al crollo e soprattutto fortemente deficitaria nel capire come si andava strutturando il mercato mondiale.

Il maggior errore di prospettiva degli “industriali” fu quello di non aver capito che il mercato “interno” non era più costituito dall’Italia, bensì dall’eurozona, avente una moneta unica, dunque con l’abbattimento dei rischi di cambio, e una zona economica integrata.

Non capirono, dunque, che la scala di produzione doveva essere adeguata non più ad un mercato di 57 milioni di persone per il quale non erano nemmeno adeguati), ma ad uno di 350 milioni, base d’appoggio per insediarsi nel mercato mondiale, pena la completa marginalizzazione.

Negli ultimi due anni quest’errore di prospettiva sembra parzialmente rimediato da una parte, finora minoritaria, del ceto degli industriali italiani, tant’è che si parla di “polarizzazione” delle imprese, un modo originale per dire che è in atto una forte selezione delle imprese, con la scomparsa di un tessuto, soprattutto piccole e micro aziende, che non si sono adeguate al nuovo contesto.

Il crollo del pil italiano degli ultimi anni, la quasi certa stagnazione europea per il prossimi lustro, spingono circa 12 mila medie grandi imprese a trovare sbocchi di mercato nei paesi extra Ue, trascinando con sé una parte della fornitura interna.

Il processo ha inizio circa 6 anni fa: inizialmente, diciamo nel periodo 2006-2007, si assiste ad un processo di internazionalizzazione centrato sulla creazione di un network commerciale, di reti di vendita e di assistenza alla clientela mondiale, un processo che è stato “occultato” da un altro tipo di “internazionalizzazione” basata sull’abbattimento del costo del lavoro con delocalizzazioni di fasi produttive in paesi esteri, quest’ultima di corto respiro perché basata su di un fattore non più incisivo sui mercati mondiali giacché tali tipi di imprese italiane vengono spiazzati, in tali produzioni, da chi ha come fattore determinante la produzione di massa su scala mondiale, una peculiarità preclusa ai medi piccoli imprenditori italiani.

La seconda fase del processo di internazionalizzazione di queste 12 mila imprese si ha negli ultimi due anni con l’esplosione di investimenti diretti esteri ai quattro lati del pianeta, bandierine poste per servire mercati non più nazionali ma continentali. Si assiste alla creazione di nuove unità produttive, aggiuntive e non sostitutive di quelle nazionali, all’acquisto di imprese estere e alla creazioni di reti di subfornitura mondiale, spiazzando, quest’ultimo processo, il tessuto della subfornitura italiana, tant’è che nel 2011 l’import di semilavorati e prodotti intermedi raggiunge la cifra record di 137 miliardi di euro.

Dai dati del commercio estero del 2011 si evince poi che, su 375 miliardi di export totale, ben 125 sia rappresentato da semilavorati e prodotti intermedi, come a dire che 1/3 dell’export è fatto da subofornitori di multinazionali estere, i quali, in questi anni, si sono internazionalmente posizionati al servizio di questi clienti in varie parti del mondo. E’ il caso, ad esempio, di Brembo, azienda guidata dal probabile futuro presidente di Confindustria specializzata in freni per l’automotive, che ha aperto stabilimenti in vari paesi seguendo le multinazionali dell’auto.
Questo processo che coinvolge subfornitori nell’ultimo anno si è talmente esteso che da una recente ricerca emerge che il 66% delle imprese italiane sta pianificando processi di internazionalizzazione.

Ma il processo degli investimenti diretti all’estero coinvolge vieppiù la “multinazionali tascabili” specializzate nella produzione di beni di investimenti, che non intacca affatto la produzione nazionale, ma permette di allargare le sfere di mercato intercettando la domanda di queste tipologie di beni in posti altrimenti preclusi alla penetrazione commerciale, tant’è che l’export di tali beni ha quasi raggiunto il record storico del 2008. E’ in questa tipologia di aziende che si sta assistendo ad una polarizzazione feroce rispetto a quelle imprese che hanno come arena il solo mercato italiano.

In valore, il 2011 ha visto il sorpasso del record delle esportazioni del 2000, ma in volumi la distanza è ancora di ben 12 punti percentuali: nonostante ciò ci sono settore che hanno superato la produzione pre-crisi, in un contesto di difficoltà del mercato mondiale.

Ci sono però da fare alcune considerazioni: ben il 44% dell’export italiano ha come sbocco l’eurozona, il 56% l’UE, solo il 44% i paesi extra-Ue e le quote di mercato in Asia e Sudamerica sono insignificanti: ciò vuol dire che nelle aree a maggior domanda nei prossimi anni le aziende italiane hanno un deficit strutturale, nel mentre il posizionamento europeo, in un’area prevista stagnante se non in diminuzione, non lascia molte speranze. Tradotto, di 375 miliardi di euro solo 167 miliardi, seppur in buon progressione negli ultimi due anni, sono vere e proprie esportazioni nel mercato mondiale, costituendo l’eurozona e l’Ue un vero e proprio “mercato interno”.

Che dire?

Per Karl Marx la borghesia industriale domina un paese solo quando essa permea tutti i rapporti di proprietà e ciò può succedere solo se conquista il mercato mondiale.

Focalizzatasi sulla flessibilità, sulle pensioni, sulla Fiom, sulla minaccia cinese e sugli innumerevoli convegni, incontri e dibattiti e interviste che sembrano essere le sue attività preferite, la borghesia industriale italiana non è stato in grado di capire i mutamenti nel mercato mondiale che la costringeva a cambiar rotta e soprattutto ad essere meno provinciale. Ed ora sconta un ritardo di almeno venti anni sui processi intervenuti, così come lo sciopero trentennale degli investimenti da essa attuata e il celarsi al fisco attraverso la micro dimensione le impedisce di cogliere i frutti della significativa crescita mondiale dell’ultimo decennio.

Invero c’è da dire che all’interno di essa vi è ormai una netta separazione tra chi, parte minoritaria, in questi anni si è focalizzato sugli investimenti, sulla dimensione, sull’innovazione e sui processi di internazionalizzazione e che, invece, ha passato il tempo a parlare di fisco eccessivo e di costo del lavoro, rintanandosi nella dimensione localistica che ha colpito larga parte della “dirigenza italiana”.

Storici errori di prospettiva di buona parte della borghesia industriale italiana, che sta pagando a caro prezzo il Paese intero e che prefigurano uno scontro interno agli imprenditori tra chi riesce ad intercettare la domanda mondiale e chi, rimasto lillipuziano a contemplare il proprio ombelico, sarà in balia degli eventi storico-economici dei prossimi lustri.

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