"I morti stanno aumentando. Ci vorrà del tempo per avere una stima completa. Forse non la otterremo mai”. Con poche, secche battute Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti, sintetizza la drammaticità di quanto avvenuto in seguito al crollo del Rana Plaza, l’edificio situato alla periferia di Dacca, in Bangladesh, dove avevano sede cinque fabbriche tessili. Gli operai sapevano che la struttura era pericolante, lo avevano fatto presente. Del resto, le crepe sui muri erano ben visibili. Lo scorso 23 aprile, il giorno prima della tragedia, si era svolta un’ispezione. Il Rana Plaza era stato dichiarato inagibile. Agli operai si era detto di tornare alle proprie postazioni, e loro non si erano potuti sottrarre. Quando il lavoro è un ricatto, anche pochi spiccioli possono essere importanti.
Poi il crollo, il palazzo che si sbriciola, centinaia di persone sotto le macerie . Sono giovani, per lo più donne. All’esterno, la gente comincia a radunarsi. Ne nasce una protesta. Le vittime accertate sono oggi più di 1000, ma il bilancio è destinato a salire. Si contano oltre 2.400 feriti. E chi sa se, in quel senso di smarrimento e di sorpresa che deve seguire una simile tragedia, nell’attimo prima che il dolore si manifesti, la mente si domanda il perché. Qual è il senso di quanto è avvenuto? Il motivo è il profitto. Ma, a ben guardare, le basi che lo sostengono non sono poi così tanto solide. Le multinazionali della moda, i cui capi d’abbigliamento sono in larga misura prodotti in Bangladesh, non hanno molto da guadagnare da storie così catastrofiche.
“Il rispetto dei diritti conviene a tutti – osserva Lucchetti –. Produrre povertà impoverisce anche noi. Gli effetti sulle nostre società sono immediati. Il cattivo lavoro è una logica che ha ovunque ripercussioni negative. La precarietà occupazionale che viviamo in Occidente si collega alle condizioni di sfruttamento selvaggio nei paesi emergenti. È una logica che non fa distinzioni. Pensiamo, poi, alla qualità dei prodotti che importiamo, al tipo di tintura che viene utilizzata per colorare ciò che indossiamo. In molti casi contiene agenti chimici pericolosi. L’Europa li ha messi al bando, ma altrove non esiste una simile attenzione. Non vale la pena di acquistare per pochi euro una maglietta di dubbia qualità. Meglio pagare un prezzo più alto oggi, per conquistare un domani fatto di salute, dignità e integrità ambientale”.
Il Bangladesh sta attraversando una fase di incredibile crescita economica . È la seconda potenza mondiale per esportazioni, l’80 per cento delle quali riguarda i prodotti tessili. Le fabbriche di filati sono 5mila, quasi tutte ospitate in strutture fatiscenti. Dal punto di vista contrattuale convivono situazioni diverse. Ci sono operai con contratti a termine, altri impiegati in nero, schiavizzati. Molto diffuso è il lavoro a cottimo. Sono i giovani a sostenere lo sviluppo. Lo fanno subendo ogni tipo di violenza, ma la loro capacità di reazione è alta. Lo si è visto all’indomani del crollo del Rana Plaza, quando una folla compatta si è recata presso altri stabilimenti per rivendicare giustizia e sicurezza. Tra di loro molte donne. Che chiedono futuro.
I sindacati agiscono in un clima avverso e corrotto . Non di rado, le aziende sono sostenute dal governo, e questo accresce la discrezionalità dei loro comportamenti. Tra le battaglie della Campagna Abiti Puliti, nata nel 1989 in difesa dei lavoratori del settore tessile nel mondo, c’è quella riguardante la richiesta di una completa ridefinizione dei contratti a livello internazionale. Occorrerà rivedere i metodi di produzione attuali, ottenere la messa in sicurezza degli impianti. Nel frattempo, le famiglie delle vittime del crollo dovranno essere adeguatamente risarcite, i feriti indennizzati, sostenuti. Tra i marchi coinvolti, alcuni hanno già dichiarato la loro disponibilità.
Abiti Puliti ha pubblicato i nomi delle multinazionali coinvolte , in quanto committenti delle lavorazioni che si svolgevano all’interno del Rana Plaza. Ci sono Mango, Primark, El Corte Inglés, Bon Marche. Tra le italiane, la Benetton. L’azienda ha dichiarato di aver depennato dalla lista dei suoi fornitori quella che operava nell’edificio coinvolto. I rapporti con quel polo produttivo, poi, erano stati episodici, fanno sapere. Una risposta sufficiente? Emilio Miceli, segretario generale della Filctem Cgil, ha annunciato che chiederà un incontro con il gruppo. “Davvero – si interroga – le imprese, i grandi marchi globali, non sapevano che in Bangladesh si lavora ancora in un regime di schiavitù? Come pensano che forniture a costo davvero inconsistente possano remunerare condizioni di lavoro decenti? Benetton e tutti coloro che, in Italia e fuori dall’Italia, hanno rapporti con aziende di quel tipo devono cominciare a prendere provvedimenti e a parlare. E devono farlo anche con il sindacato italiano: siamo interessati a sapere come si comportano con i loro fornitori. Non possiamo tollerare comportamenti di questa natura”.
Occorre un’assunzione di responsabilità vera . Scegliere in maniera oculata i soggetti cui affidare le lavorazioni, essere vigili sul loro operato. Molti marchi di abbigliamento italiani hanno già accolto questa logica. Si sono spostati su segmenti alti di mercato, sanno che la cattiva pubblicità potrebbe danneggiarli. L’opinione pubblica italiana è sensibile a queste problematiche. E i sindacati hanno sempre esercitato pressioni sulle aziende colpevoli di trarre i propri profitti dallo sfruttamento della manodopera all’estero. Sebbene certe distorsioni siano lontane dall’essere state risolte, il nostro paese può vantare buoni esempi.
Alcune aziende hanno capito che facendo leva su condizioni di disparità economica e lavorativa “il vantaggio iniziale – dice Miceli – ti crolla tra le mani. Molte hanno trovato una reale convenienza nel sottrarsi alla responsabilità di certe situazioni. Un’eco mediatica negativa può rovinarti”. L’economista Clemente Tartaglione, ricercatore del network Ares 2.0, parla con estrema chiarezza. “L’approccio opportunistico delle aziende, basato sullo sfruttamento, ha dato solo risultati svantaggiosi. Oggi bisognerebbe lavorare a un accordo su larga scala con l’impegno a verificare e impedire l’accesso a certi tipi di forniture. Una soluzione potrebbe essere la responsabilità in solido delle aziende. Ciò comporterebbe un obbligo di controllo non solo sul fornitore, ma su tutta la catena dei sub fornitori. Si tratterebbe di un importante passo avanti, in una direzione etica e di responsabilità sociale”.
Poi il crollo, il palazzo che si sbriciola, centinaia di persone sotto le macerie . Sono giovani, per lo più donne. All’esterno, la gente comincia a radunarsi. Ne nasce una protesta. Le vittime accertate sono oggi più di 1000, ma il bilancio è destinato a salire. Si contano oltre 2.400 feriti. E chi sa se, in quel senso di smarrimento e di sorpresa che deve seguire una simile tragedia, nell’attimo prima che il dolore si manifesti, la mente si domanda il perché. Qual è il senso di quanto è avvenuto? Il motivo è il profitto. Ma, a ben guardare, le basi che lo sostengono non sono poi così tanto solide. Le multinazionali della moda, i cui capi d’abbigliamento sono in larga misura prodotti in Bangladesh, non hanno molto da guadagnare da storie così catastrofiche.
“Il rispetto dei diritti conviene a tutti – osserva Lucchetti –. Produrre povertà impoverisce anche noi. Gli effetti sulle nostre società sono immediati. Il cattivo lavoro è una logica che ha ovunque ripercussioni negative. La precarietà occupazionale che viviamo in Occidente si collega alle condizioni di sfruttamento selvaggio nei paesi emergenti. È una logica che non fa distinzioni. Pensiamo, poi, alla qualità dei prodotti che importiamo, al tipo di tintura che viene utilizzata per colorare ciò che indossiamo. In molti casi contiene agenti chimici pericolosi. L’Europa li ha messi al bando, ma altrove non esiste una simile attenzione. Non vale la pena di acquistare per pochi euro una maglietta di dubbia qualità. Meglio pagare un prezzo più alto oggi, per conquistare un domani fatto di salute, dignità e integrità ambientale”.
Il Bangladesh sta attraversando una fase di incredibile crescita economica . È la seconda potenza mondiale per esportazioni, l’80 per cento delle quali riguarda i prodotti tessili. Le fabbriche di filati sono 5mila, quasi tutte ospitate in strutture fatiscenti. Dal punto di vista contrattuale convivono situazioni diverse. Ci sono operai con contratti a termine, altri impiegati in nero, schiavizzati. Molto diffuso è il lavoro a cottimo. Sono i giovani a sostenere lo sviluppo. Lo fanno subendo ogni tipo di violenza, ma la loro capacità di reazione è alta. Lo si è visto all’indomani del crollo del Rana Plaza, quando una folla compatta si è recata presso altri stabilimenti per rivendicare giustizia e sicurezza. Tra di loro molte donne. Che chiedono futuro.
I sindacati agiscono in un clima avverso e corrotto . Non di rado, le aziende sono sostenute dal governo, e questo accresce la discrezionalità dei loro comportamenti. Tra le battaglie della Campagna Abiti Puliti, nata nel 1989 in difesa dei lavoratori del settore tessile nel mondo, c’è quella riguardante la richiesta di una completa ridefinizione dei contratti a livello internazionale. Occorrerà rivedere i metodi di produzione attuali, ottenere la messa in sicurezza degli impianti. Nel frattempo, le famiglie delle vittime del crollo dovranno essere adeguatamente risarcite, i feriti indennizzati, sostenuti. Tra i marchi coinvolti, alcuni hanno già dichiarato la loro disponibilità.
Abiti Puliti ha pubblicato i nomi delle multinazionali coinvolte , in quanto committenti delle lavorazioni che si svolgevano all’interno del Rana Plaza. Ci sono Mango, Primark, El Corte Inglés, Bon Marche. Tra le italiane, la Benetton. L’azienda ha dichiarato di aver depennato dalla lista dei suoi fornitori quella che operava nell’edificio coinvolto. I rapporti con quel polo produttivo, poi, erano stati episodici, fanno sapere. Una risposta sufficiente? Emilio Miceli, segretario generale della Filctem Cgil, ha annunciato che chiederà un incontro con il gruppo. “Davvero – si interroga – le imprese, i grandi marchi globali, non sapevano che in Bangladesh si lavora ancora in un regime di schiavitù? Come pensano che forniture a costo davvero inconsistente possano remunerare condizioni di lavoro decenti? Benetton e tutti coloro che, in Italia e fuori dall’Italia, hanno rapporti con aziende di quel tipo devono cominciare a prendere provvedimenti e a parlare. E devono farlo anche con il sindacato italiano: siamo interessati a sapere come si comportano con i loro fornitori. Non possiamo tollerare comportamenti di questa natura”.
Occorre un’assunzione di responsabilità vera . Scegliere in maniera oculata i soggetti cui affidare le lavorazioni, essere vigili sul loro operato. Molti marchi di abbigliamento italiani hanno già accolto questa logica. Si sono spostati su segmenti alti di mercato, sanno che la cattiva pubblicità potrebbe danneggiarli. L’opinione pubblica italiana è sensibile a queste problematiche. E i sindacati hanno sempre esercitato pressioni sulle aziende colpevoli di trarre i propri profitti dallo sfruttamento della manodopera all’estero. Sebbene certe distorsioni siano lontane dall’essere state risolte, il nostro paese può vantare buoni esempi.
Alcune aziende hanno capito che facendo leva su condizioni di disparità economica e lavorativa “il vantaggio iniziale – dice Miceli – ti crolla tra le mani. Molte hanno trovato una reale convenienza nel sottrarsi alla responsabilità di certe situazioni. Un’eco mediatica negativa può rovinarti”. L’economista Clemente Tartaglione, ricercatore del network Ares 2.0, parla con estrema chiarezza. “L’approccio opportunistico delle aziende, basato sullo sfruttamento, ha dato solo risultati svantaggiosi. Oggi bisognerebbe lavorare a un accordo su larga scala con l’impegno a verificare e impedire l’accesso a certi tipi di forniture. Una soluzione potrebbe essere la responsabilità in solido delle aziende. Ciò comporterebbe un obbligo di controllo non solo sul fornitore, ma su tutta la catena dei sub fornitori. Si tratterebbe di un importante passo avanti, in una direzione etica e di responsabilità sociale”.
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