Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!
Visualizzazione post con etichetta beneton. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta beneton. Mostra tutti i post

sabato 11 maggio 2013

La tragedia in Bangladesh deve essere l'ultima. Abiti Puliti ha pubblicato i nomi delle multinazionali coinvolte

Fonte: rassegna                
"I morti stanno aumentando. Ci vorrà del tempo per avere una stima completa. Forse non la otterremo mai”. Con poche, secche battute Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti, sintetizza la drammaticità di quanto avvenuto in seguito al crollo del Rana Plaza, l’edificio situato alla periferia di Dacca, in Bangladesh, dove avevano sede cinque fabbriche tessili. Gli operai sapevano che la struttura era pericolante, lo avevano fatto presente. Del resto, le crepe sui muri erano ben visibili. Lo scorso 23 aprile, il giorno prima della tragedia, si era svolta un’ispezione. Il Rana Plaza era stato dichiarato inagibile. Agli operai si era detto di tornare alle proprie postazioni, e loro non si erano potuti sottrarre. Quando il lavoro è un ricatto, anche pochi spiccioli possono essere importanti.

Poi il crollo, il palazzo che si sbriciola, centinaia di persone sotto le macerie . Sono giovani, per lo più donne. All’esterno, la gente comincia a radunarsi. Ne nasce una protesta. Le vittime accertate sono oggi più di 1000, ma il bilancio è destinato a salire. Si contano oltre 2.400 feriti. E chi sa se, in quel senso di smarrimento e di sorpresa che deve seguire una simile tragedia, nell’attimo prima che il dolore si manifesti, la mente si domanda il perché. Qual è il senso di quanto è avvenuto? Il motivo è il profitto. Ma, a ben guardare, le basi che lo sostengono non sono poi così tanto solide. Le multinazionali della moda, i cui capi d’abbigliamento sono in larga misura prodotti in Bangladesh, non hanno molto da guadagnare da storie così catastrofiche.

“Il rispetto dei diritti conviene a tutti – osserva Lucchetti –. Produrre povertà impoverisce anche noi. Gli effetti sulle nostre società sono immediati. Il cattivo lavoro è una logica che ha ovunque ripercussioni negative. La precarietà occupazionale che viviamo in Occidente si collega alle condizioni di sfruttamento selvaggio nei paesi emergenti. È una logica che non fa distinzioni. Pensiamo, poi, alla qualità dei prodotti che importiamo, al tipo di tintura che viene utilizzata per colorare ciò che indossiamo. In molti casi contiene agenti chimici pericolosi. L’Europa li ha messi al bando, ma altrove non esiste una simile attenzione. Non vale la pena di acquistare per pochi euro una maglietta di dubbia qualità. Meglio pagare un prezzo più alto oggi, per conquistare un domani fatto di salute, dignità e integrità ambientale”.

Il Bangladesh sta attraversando una fase di incredibile crescita economica . È la seconda potenza mondiale per esportazioni, l’80 per cento delle quali riguarda i prodotti tessili. Le fabbriche di filati sono 5mila, quasi tutte ospitate in strutture fatiscenti. Dal punto di vista contrattuale convivono situazioni diverse. Ci sono operai con contratti a termine, altri impiegati in nero, schiavizzati. Molto diffuso è il lavoro a cottimo. Sono i giovani a sostenere lo sviluppo. Lo fanno subendo ogni tipo di violenza, ma la loro capacità di reazione è alta. Lo si è visto all’indomani del crollo del Rana Plaza, quando una folla compatta si è recata presso altri stabilimenti per rivendicare giustizia e sicurezza. Tra di loro molte donne. Che chiedono futuro.

I sindacati agiscono in un clima avverso e corrotto . Non di rado, le aziende sono sostenute dal governo, e questo accresce la discrezionalità dei loro comportamenti. Tra le battaglie della Campagna Abiti Puliti, nata nel 1989 in difesa dei lavoratori del settore tessile nel mondo, c’è quella riguardante la richiesta di una completa ridefinizione dei contratti a livello internazionale. Occorrerà rivedere i metodi di produzione attuali, ottenere la messa in sicurezza degli impianti. Nel frattempo, le famiglie delle vittime del crollo dovranno essere adeguatamente risarcite, i feriti indennizzati, sostenuti. Tra i marchi coinvolti, alcuni hanno già dichiarato la loro disponibilità.

Abiti Puliti ha pubblicato i nomi delle multinazionali coinvolte , in quanto committenti delle lavorazioni che si svolgevano all’interno del Rana Plaza. Ci sono Mango, Primark, El Corte Inglés, Bon Marche. Tra le italiane, la Benetton. L’azienda ha dichiarato di aver depennato dalla lista dei suoi fornitori quella che operava nell’edificio coinvolto. I rapporti con quel polo produttivo, poi, erano stati episodici, fanno sapere. Una risposta sufficiente? Emilio Miceli, segretario generale della Filctem Cgil, ha annunciato che chiederà un incontro con il gruppo. “Davvero – si interroga – le imprese, i grandi marchi globali, non sapevano che in Bangladesh si lavora ancora in un regime di schiavitù? Come pensano che forniture a costo davvero inconsistente possano remunerare condizioni di lavoro decenti? Benetton e tutti coloro che, in Italia e fuori dall’Italia, hanno rapporti con aziende di quel tipo devono cominciare a prendere provvedimenti e a parlare. E devono farlo anche con il sindacato italiano: siamo interessati a sapere come si comportano con i loro fornitori. Non possiamo tollerare comportamenti di questa natura”.

Occorre un’assunzione di responsabilità vera . Scegliere in maniera oculata i soggetti cui affidare le lavorazioni, essere vigili sul loro operato. Molti marchi di abbigliamento italiani hanno già accolto questa logica. Si sono spostati su segmenti alti di mercato, sanno che la cattiva pubblicità potrebbe danneggiarli. L’opinione pubblica italiana è sensibile a queste problematiche. E i sindacati hanno sempre esercitato pressioni sulle aziende colpevoli di trarre i propri profitti dallo sfruttamento della manodopera all’estero. Sebbene certe distorsioni siano lontane dall’essere state risolte, il nostro paese può vantare buoni esempi.

Alcune aziende hanno capito che facendo leva su condizioni di disparità economica e lavorativa “il vantaggio iniziale – dice Miceli – ti crolla tra le mani. Molte hanno trovato una reale convenienza nel sottrarsi alla responsabilità di certe situazioni. Un’eco mediatica negativa può rovinarti”. L’economista Clemente Tartaglione, ricercatore del network Ares 2.0, parla con estrema chiarezza. “L’approccio opportunistico delle aziende, basato sullo sfruttamento, ha dato solo risultati svantaggiosi. Oggi bisognerebbe lavorare a un accordo su larga scala con l’impegno a verificare e impedire l’accesso a certi tipi di forniture. Una soluzione potrebbe essere la responsabilità in solido delle aziende. Ciò comporterebbe un obbligo di controllo non solo sul fornitore, ma su tutta la catena dei sub fornitori. Si tratterebbe di un importante passo avanti, in una direzione etica e di responsabilità sociale”.

"Incriminare Benetton per corresponsabilità nella strage di Dacca". Intervento di Giorgio Cremaschi

Autore: giorgio cremaschi - controlacrisi
                 
Lo sappiamo oramai cosa è la globalizzazione per il lavoro. È un sistema di sfruttamento brutale delle persone a cui vengono negati o sottratti diritti sanciti dalle leggi dagli accordi internazionali dai principi della civiltà e della democrazia. Dopo la tratta degli schiavi che finanziò la prima grande rivoluzione industriale della fine del 700, questa globalizzazione è ciò che le somiglia di più. Come allora produce ricchezza anche se la distribuisce in maniera vergognosa. Come allora le briciole di questa accumulazione si distribuiscono a vasto raggio, ne ricevono anche tanti che ricchi non sono, anche coloro che sono vittime di questo moderno schiavismo. (...)
Ma questo non vuol dire che tutti siamo colpevoli allo stesso modo. No, non ci sto. Rifiuto la moderna versione della propaganda degli schiavisti del sud degli Stati Uniti, che nell'800 spiegavano che anche gli operai di New York usavano il cotone fatto dagli schiavi.
Odio gli indifferenti e i complici, ma distinguo. Viviamo tutti nello e dello stesso sistema criminale dalla globalizzazione capitalista, ma tra chi di questo sistema tira i fili delle decisioni e trae i massimi profitti, e chi con tutte le sue contraddizioni cerca di abolirlo c'è una bella differenza.
Perché se c'è il sistema schiavista, ci sono anche i proprietari di schiavi e i caporali che ne eseguono gli ordini.
Io dico che i Benetton sono dei criminali, perché se si appalta il lavoro in Bangladesh a certi prezzi, a certe imprese, a certe autorità, se si pretende un certo guadagno per maglietta, non si può non sapere che la gente muore per farle.
Non sono certo i soli, ma devono pagare, da qualche parte bisogna pur cominciare.
Quindi chiedo che i Benetton siano incriminati dalla magistratura per corresponsabilità nella strage di Dacca.
Credo giusto che si lanci una campagna di boicottaggio di tutti i prodotti Benetton. Domando che il parlamento faccia una inchiesta sulle proprietà di questa famiglia: perché sono concessionari delle autostrade e fanno le magliette in Bangladesh, è compatibile? Per me no.
Insomma basta con questa logica assolutoria , tutti responsabili nessuno responsabile e avanti così... qui il colpevole c è e diamoci da fare.

lunedì 6 maggio 2013

Bangladesh. Le foto “accusano” Benetton

  - senzasoste -
A Dacca mercoledì un palazzo di otto piani è crollato e sono morti almeno 381 operai. Lavoravano in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza e producevano capi per conto di multinazionali tra cui anche l'azienda di Treviso e di altre aziende
Bangladesh
Una camicia di colore scuro, sporca di polvere, fotografata tra le macerie. Sul tessuto, l’etichetta verde acceso, inconfondibile: “United Colors of Benetton“, recita la scritta. Dalle macerie del Rana Plaza, il palazzo di otto piani alla periferia di Dacca, in Bangladesh, che lo scorso mercoledì si è sbriciolato uccidendo almeno 381 operai, cominciano ad affiorare le prime verità. Le fabbriche tessili che avevano sede nel palazzo, e i cui dipendenti lavoravano in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza, producevano capi di abbigliamento per conto di multinazionali occidentali, tra cui a quanto pare Benetton. L’azienda veneta aveva in un primo primo momento negato legami con i laboratori venuti giù nel crollo, ma lunedì, dopo la pubblicazione delle foto, su Twitter è arrivata una prima ammissione: “Il Gruppo Benetton intende chiarire che nessuna delle società coinvolte è fornitrice di Benetton Group o uno qualsiasi dei suoi marchi. Oltre a ciò, un ordine è stato completato e spedito da uno dei produttori coinvolti diverse settimane prima dell’incidente. Da allora, questo subappaltatore è stato rimosso dalla nostra lista dei fornitori“.
La polvere è ancora sospesa nell’aria, le grida risuonano strazianti, i soccorritori cominciano ad arrivare. Fin dai primi istanti successivi alla tragedia, gli attivisti accorsi a Savar, il sobborgo a 25 km a nord est di Dacca dove sorgeva il palazzo, parlano di capi di abbigliamento prodotti per grandi marchi occidentali rinvenuti tra le macerie ancora fumanti. Tra questi anche articoli firmati dall’azienda di Ponzano Veneto. Che prontamente smentiva: “Riguardo alle tragiche notizie che provengono dal Bangladesh – si legge in una nota diramata il 24 aprile – Benetton Group si trova costretta a precisare che (…) i laboratori coinvolti nel crollo del palazzo di Dacca non collaborano in alcun modo con i marchi del gruppo Benetton”.
Le foto, però, raccontano un’altra verità: scattate e pubblicate dall’Associated Press, ritraggono una camicia di colore scuro griffata Benetton tra i calcinacci, accanto a quello che pare la commessa di un ordine. Non solo: l’agenzia France Press fa sapere di aver ricevuto dalla Federazione operai tessili del Bangladesh documenti contenenti un ordine da circa 30mila pezzi fatto nel settembre 2012 da Benetton alla New Wave Bottoms Ltd, una delle manifatture ingoiate dal crollo. La dicitura “Benetton” appariva anche sul sito internet dell’azienda, all’indirizzo www.newwavebd.com, ma fin dalle ore successive al crollo la pagina non è più accessibile e in rete ne resta solo una copia cache. “Main buyers” (Clienti principali), si legge in alto a sinistra; più in basso, sotto la dicitura “Camicie uomo-donna”, l’elenco degli acquirenti: tra questi, numero 16 della lista, figura “Benetton Asia Pacific Ltd, Honk Kong“.
Nell’elenco altre tre aziende italiane: la Itd Srl, la Pellegrini Aec Srl e la De Blasio Spa, ma non è chiaro se al momento dell’incidente vi fossero ancora rapporti di lavoro in corso. La Pellegrini, anzi, specifica che le ultime commesse con la ditta bengalese risalivano al 2010. Un’altra ditta, Essenza Spa, che produce il marchio Yes-Zee, ha confermato di essersi rifornita al Rana Plaza. Ammissioni sono quasi subito arrivate anche dall’inglese Primark, dalla spagnola Mango (che ha confermato di aver ordinato merce per 25 mila pezzi), mentre France Presse ha rinvenuto indumenti griffati dall’americana Cato. La lista però è molto più lunga: la Clean Clothes Campaign, ong con sede ad Amsterdam, ha fatto sapere che la britannica Bon Marche, la spagnola El Corte Ingles e la canadese Joe Fresh hanno tutte confermato di essere clienti delle manifatture crollate. Un’altra società, l’olandese C&A, ha spiegato a France Press di non avere più rapporti con il Rana Plaza dall’ottobre 2011. L’ultima ad ammettere legami commerciali con il Rana Plaza è stata Benetton, che tuttavia assicura: “Un programma di verifiche a campione controlla in modo continuativo tutta la nostra catena di fornitura globale, per assicurare che tutti i fornitori diretti e indiretti lavorino in conformità con i nostri standard in tema di diritti, lavoro e rispetto ambientale”.
Bassi costi di produzione e pochi obblighi da rispettare: comprare in Bangladesh conviene. In un paese in cui l’industria tessile impiega circa 3 milioni di persone, in prevalenza donne, e crea ricchezza quasi esclusivamente per le multinazionali che comprano a prezzi stracciati i suoi prodotti, lo stipendio medio di un operaio si aggira sui 410 dollari l’anno. Ma le fabbriche della morte non si fermano mai. Secondo una stima dell’International Labor Rights Forum, oltre mille operai tessili hanno perso la vita in Bangladesh dal 2005 in incidenti causati dalle scarse condizioni di sicurezza dei laboratori. L’ultimo episodio a novembre, quando 112 persone morirono nel rogo della Tazreen Fashion Limited, a Dacca. Anche quella fabbrica riforniva aziende italiane.
Marco Quarantelli
tratto da http://www.ilfattoquotidiano.it

Blog curato da ...

Blog curato da ...
Mob. 0039 3248181172 - adakilismanis@gmail.com - akilis@otenet.gr
free counters