Fonte: controlacrisi
Ci era sfuggita l'uscita dell'ultimo libro di Alberto Asor Rosa. Trattasi di una raccolta degli scritti del periodo operaista (anni '60) durante i quali Asor Rosa fu uno dei protagonisti delle esperienze dei Quaderni Rossi, Classe Operaia, Contropiano. Vi proponiamo le recensioni di Marco Revelli, Pino Bevilacqua, Tonino Bucci.
Segnaliamo anche l'audio di una lezione sull'operaismo italiano degli anni '60 da Quaderni Rossi a Classe Operaia che Asor Rosa ha tenuto a Roma nel 2009 (anche se fa riferimento a un altro libro, il volumone di Giuseppe Trotta e Fabio Milana edito da Derive Approdi nel 2009).
Quando la classe era operaia
Marco Revelli
Le armi della critica di Alberto Asor Rosa è una raccolta di saggi di critica letteraria di grande potenza analitica. Ma è anche una fonte storica: un´autobiografia culturale in cui l´autore si fa testimone del tempo, aiutandoci a capire l´Italia com´è stata e com´è diventata con molta maggior efficacia di tanta storiografia e sociologia professionali. Per la statura del suo autore, intellettuale che non si è rassegnato al silenzio. E per il carattere dei contributi qui riproposti.
Intanto per il periodo su cui i testi sono focalizzati: sono stati pubblicati tutti tra il 1960 e il 1970. Ci portano cioè in un punto seminale del nostro tempo, gli "anni Sessanta", quando l´Italia diventò quello che sarà, con uno strappo colossale e lacerante rispetto alla sua "tradizione", compiendo "la più ciclopica trasformazione… dai tempi della caduta dell´Impero romano in poi". Sono gli anni del passaggio, spaventosamente repentino, dall´arretratezza semi-agraria al neo-capitalismo della grande industria. Gli anni della migrazione biblica dalle estreme periferie del sud e della crescita impetuosa della classe operaia, giunta per la prima volta a una presa di parola autonoma. Sono dunque gli anni in cui conflittualità e sviluppo marciano insieme. Un concetto oggi inimmaginabile, in tempi in cui la rimozione del conflitto sociale dall´orizzonte mentale si accompagna al ristagno dell´economia.
Sono d´altra parte gli anni della grande crisi della sinistra comunista, quelli che seguono il XX Congresso del Pcus, l´invasione dell´Ungheria, la sconfitta della Fiom alla Fiat, l´estenuazione dell´egemonia togliattiana. Per questo Asor Rosa, allora venticinquenne (come buona parte dei giovani che parteciperanno del suo stesso percorso "operaista"), può scrivere oggi che "agli anni ´60 mi presentai, ci presentammo nudi e crudi, con un mondo immenso davanti ma senza granché alle spalle". Con la sensazione, cioè, della necessità di un taglio netto se si voleva stare dentro le cose, senza esser risucchiati nelle spire della modernizzazione integratrice cui il centro sinistra alludeva.
Ma gli anni Sessanta non sono solo questo. Sono anche gli anni della grande metamorfosi del lavoro intellettuale: della minaccia più radicale alla sua residua (e in parte illusoria) autonomia, con la riduzione della produzione culturale a lavoro "integrato", o comunque a funzione incasellata nel complesso sistema di ruoli predeterminati e formalizzati. Sono cioè gli anni in cui si estingue, definitivamente, la posizione autonoma della critica letteraria. O, meglio, il ruolo critico della letteratura, travolto dall´onnipotenza dell´industria culturale e da un più forte e sistematico "controllo borghese" del proprio mondo. E in questo sta il secondo elemento di interesse di questi scritti. Essi rappresentano infatti il resoconto fedele, perché generatosi in medias res, della riflessione di un gruppo di intellettuali sulla natura del proprio lavoro e sul destino di esso nel pieno di una cesura storica e sociale che ne decretava un cambiamento di stato tanto radicale da prospettarne la fine.
Si spiega così il tratto dominante – il vero fil rouge – che attraversa tutti i testi, con un´invadenza in qualche misura prepotente: il bisogno ossessivo di smarcarsi. L´ansia della secessione morale e culturale, della fuoriuscita da ogni condizione di continuità e di contiguità con un esistente considerato già perduto, spinta fino alla teorizzazione del "negativo" e all´abiura di ogni parentela anche con i più prossimi, con i Calvino e i Fortini, con la neo-avanguardia e la cultura antifascista e resistenziale, in una furia di distanziamento che assomiglia a un "si salvi chi può" perché tutto ormai, di quella cultura, rischia di transitare nell´ordine di un discorso che è ordine produttivo, razionalità di sistema, integrazione e alienazione.
Lungo questa traiettoria c´è l´incontro con la "classe operaia", intesa nella sua materialità selvaggia. Non la rappresentazione iconica della tradizione riformista, non il soggetto togliattianamente destinato a "raccogliere le bandiere lasciate cadere dalla borghesia", portatore di un universalismo umanistico, ma la "rude razza pagana". O meglio il suo "punto di vista" separato, "particolaristico", proprio di un´alterità assoluta, non integrabile, in forza della sua negazione del lavoro, e per questa ragione possibile riferimento per chi intendesse porsi fuori e contro: vale a dire per quell´intellettualità disponibile a tagliare i ponti con l´universalismo della propria cultura. E disponibile a pagarne per intero il prezzo: a farsi a sua volta "particolarità", nel rogo di tutti i suoi valori culturali.
Nasce di qui, da questo incontro nell´esodo, l´idea, del tutto originale, della necessità di una rivoluzione operaia pur in assenza di una rivoluzione democratica. Anzi, possibile proprio per quell´assenza. Un´idea capace di fare molta strada, assorbendo nel proprio percorso forme di pensiero eterogenee (dal Marx dei Grundrisse al Leopardi e al Nietzsche dell´illuminismo negativo, tutti allineati sulla linea dell´irriducibilità al dispotismo delle "cose"), per giungere infine a un duro contrasto con l´intera cultura democratica e progressista della generazione immediatamente precedente (strano destino per chi, sulle orme di Saba, auspicava per il proprio Paese l´abbandono della cattiva pratica "fratricida" in favore del più maturo "parricidio" dei popoli realmente rivoluzionari).
Su quell´idea si è strutturato uno dei pochi "paradigmi culturali" degni di questo nome nel secondo dopoguerra. Una "cultura" in grado di tenere il campo nel deserto culturale del tardo novecento, perché radicata davvero nella forza della vita. E tuttavia, nel contempo, testimone di un fallimento. Destinata – col suo soggetto sociale di riferimento - alla caduta esattamente come le eroiche personalità borghesi descritte nel magistrale saggio su Thomas Mann: uccise dalla stessa forza vitale che le animava. Dalla ferocia del proprio sguardo libero sull´esistente.
La Repubblica del 19 novembre 2011
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AAR. Le armi della critica e il pensiero eversore
di Piero Bevilacqua
Che cosa può rendere attuali e perfino per tanti versi affascinanti gli scritti, di e su un decennio ormai lontano, di un protagonista della scena culturale italiana degli ultimi 40 anni? Forse basterebbe la qualità storica del periodo in questione: gli anni '60, senza dubbio il decennio epico della seconda metà del XX secolo, la pagina più intensa e più alta della storia italiana dello scorcio finale dell'età contemporanea. Con studiata foga iperbolica – ma con molti elementi di verità - Alberto Asor Rosa (Le armi della critica: Scritti e saggi degli anni ruggenti (1960-1970) , Einaudi Torino 2011 pp.VII-LXIX, 368) la definisce « la più ciclopica trasformazione delle proprie strutture sociali, economiche, produttive – e però anche intellettuali e culturali – dai tempi della caduta dell'Impero romano in poi». Un decennio, come vedremo, su cui gravano interrogazioni fondamentali che arrivano al nostro tempo. Me nella Prefazione storica che organizza i saggi, in parte usciti in edizioni precedenti - e che a mio avviso vale, da sola, per nitore analitico e tensione esistenziale e civile, l'intero libro – c'è anche dell'altro.
Asor Rosa racconta in questo saggio il proprio ingresso nel mondo dell'impegno politico e al tempo stesso l'inquieta esplorazione dell'universo intellettuale che gli stava intorno e che e a quell'impegno doveva fornire fondamenti di senso e prospettive. Si tratta di pagine autobiografiche all'interno delle quali si snodano vicende, che solo in parte sono personali, perché riescono a coinvolgere nel racconto, sullo sfondo dei processi del decennio, la vicenda di un gruppo intellettuale tra i più significativi dell'Italia della seconda metà del secolo. Amici e sodali dell'avventura politica e culturale di Asor Rosa, in quegli anni, erano Mario Tronti, uno dei padri dell'”operaismo,” Toni Negri, oggi teorico molto influente, Massimo Cacciari, filosofo e politico a tutti noto, Umberto Coldagelli, diventato il maggiore studioso di Tocqueville in Italia, Aris Accornero, l'unico operaio italiano pervenuto alla cattedra universitaria e sociologo del lavoro, Rita di Leo, sociologa anch'essa e studiosa della composizione sociale dell'URSS e dello stalinismo, Manfredo Tafuri, storico e teorico dell'urbanistica precocemente scomparso. La storia dei gruppi intellettuali, tema negletto nel paese di Gramsci , trova nelle prime pagine della Prefazione indicazioni e suggestioni che danno il senso di un'epoca e anche non poche piste di ricerca.
La cifra essenziale della tensione teoretica dell'autore e del gruppo – molto più affollato dei nomi noti appena ricordati – è soprattutto una: il rapporto diretto con il pensiero di Marx, per afferrare con profondità analitica ciò che si voleva conoscere direttamente, la classe operaia di fabbrica. Asor Rosa ricostruisce il suo personale percorso – con uno sforzo costante, da storico di mestiere, di rendere impersonali le vicende che lo riguardano - di avvicinamento a Marx e delle scoperte che ne ha ricavato. E nel testo fa rivivere pagine dai Grundrisse o dal Capitale, che ancora oggi gettano lampi di bagliore conoscitivo ineguagliati sulla società del nostro tempo. E trovo davvero incontrovertibile l 'affermazione perentoria in cui si lascia andare : « Chi, anche oggi, non ha letto e meditato Marx non è in grado di capire in che mondo viviamo». Una verifica immediata? Osservate, con un rapido sguardo, il profilo intellettuale del ceto politico della sinistra ufficiale e ne troverete plastica ed esaustiva conferma.
Le pagine di questo saggio, tuttavia, si fanno leggere con singolare passione per un'altra ragione. Perché Asor Rosa ci trascina nella insolita bivalenza della sua personalità e nella spiazzante originalità del suo percorso esplorativo: che mette insieme Marx, Leopardi, Nietzsche e i grandi autori della letteratura europea. Forse il nucleo più ardimentoso di tutto il ragionamento, sempre esemplarmente rigoroso, del saggio sta nel tentativo, a mio avviso riuscito e persuasivo (ma potrei essere condizionato da affinità di sentire) di mettere insieme, diciamo, le forme di estrazione del plusvalore nelle società capitalistiche avanzate, descritte da Marx , con questo incantevole verso di Leopardi : «Dolce e chiara è la notte e senza vento». La teoria rivoluzionaria e la poesia, la lotta per l'emancipazione di una classe oppressa e la ricerca di una visione profonda e disincantata della condizione umana. Sfere assai distanti fra di loro, ma in realtà tenute insieme da una medesima tensione: la libertà del pensiero da tutti i condizionamenti, da tutti gli idola, la sovrana conoscenza della realtà e della “verità”, il poter collocare la propria opera transeunte nell' universo di senso che solo la grande poesia può regalarci. Con Nietzsche - «un grandioso continente di pensieri» - le cose sono più facili, anche se non meno avvincenti. Alcune riflessioni del filosofo tedesco sulla classe operaia – di folgorante inattualità - danno al ragionamento dell' autore una convincente rotondità.
Nella Prefazione Asor Rosa pone una questione storica che meriterebbe una discussione più ampia di quella possibile in queste note. Egli sostiene che in Italia, in quegli anni , «un forte sviluppo in presenza di una forte conflittualità , una forte conflittualità in presenza di un forte sviluppo avrebbero garantito a tutti quel salto che invece non c'è stato e da cui è scaturita l'attuale decadenza». Prima di entrare nel merito, io vorrei preliminarmente osservare che in tale riflessione dell'autore riaffiora una tensione, direi una vibrazione morale costante in tutta la sua opera di storico della letteratura. E' quell' «amarezza del pensiero e dell'intelligenza» , ch'egli attribuisce in questa Prefazione a Machiavelli, dipendente dallo scarto, che segna tutta la nostra storia - e che l'autore ritrova ogni volta che si occupa di Dante, di Machiavelli, Guicciardini, Leopardi – quello scarto tra le incomparabili potenzialità delle nostre energie e intelligenze nazionali e gli scadenti esiti statuali che ne sono di volta in volta derivati. Anche negli anni '60 sarebbe accaduto qualcosa di “antico”. La tesi contiene degli elementi di verità storica che andrebbero esplorati in maniera più circostanziata. Io credo, tuttavia, che forse la “mancata risposta” alla potenzialità contenuta nei conflitti, sia da spostare più avanti, e da concentrare soprattutto sul piano della cultura politica Non posso fare a meno di ricordare che gli anni '70 non furono di semplice opposizione, da parte delle classi dirigenti italiane.
Alla pressione operaia e popolare, in certi casi, si rispose con riforme importanti: la nascita delle Regioni (non senza effetti indesiderati, soprattutto al Sud) lo Statuto dei lavoratori, la nascita, nel 1978, del Sistema Sanitario Nazionale, un processo parziale, ma importante di democratizzazione dei corpi di polizia. E al tempo stesso, in quel decennio, vi furono conquiste politiche e di civiltà: l'affermazione delle sinistre nelle grandi città, la vittoria referendaria per il divorzio, mutamenti di costume e di rapporti tra genitori e figli, la ventata libertaria del movimento femminista. Naturalmente quelli sono anche gli anni della reazione stragista da parte di potenze oscure della società italiana, e poi del terrorismo.
Dunque, alcune trasformazioni importanti sono pur venute da quei conflitti. Nella società sono continuate modificazioni culturali profonde. Quel che è rimasto imballato, certamente, è stato il sistema politico. Forse perché i due maggiori partiti troppo a lungo non hanno goduto di piena autonomia nazionale. Ma quel che mi sento di dire, per ciò che riguarda la sinistra, è che il vecchio Partito comunista aveva esaurito, già negli anni '80, la sua progettualità strategica. Tardivamente e mal riformato, ha perso rapidamente, nel corso degli anni '90, la capacità di leggere i movimenti profondi che il capitalismo stava promuovendo. Il vasto sommovimento globale messo in atto dal neoliberismo è stato non a caso, anche dal gruppo dirigente di quel partito, scambiato per una nuova frontiera della modernità.
pubblicato su Eddyburg
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Dei giovanili furori di un gruppo di operaisti
di Tonino Bucci
Non si sa bene se definirla autobiografia oppure ricostruzione storica di un'epoca a forte connotazione culturale. Probabilmente ambedue gli aspetti si ritrovano a convivere nel volume di recente pubblicato da Alberto Asor Rosa con il titolo Le armi della critica, nel quale sono raccolti saggi e scritti tutti risalenti al decennio 1960-1970 (Einaudi, pp. 370, euro 23). Non si può dire che manchi uno sguardo soggettivo sulla realtà, ma neppure uno sforzo di resoconto oggettivo, in questo collage di testi, interventi, recensioni e articoli a sfondo sociologico che testimoniano l'impegno politico di un giovane Asor Rosa. Il risultato, nel suo insieme, è una sorta di romanzo di formazione di un piccolo gruppo giovanile, tutti comunisti iscritti alla Fgci, sezione dell'Università di Roma, destinato a trovarsi nel bel mezzo di una crisi politica del partito, quella del '56, anno dell'intervento militare sovietico in Ungheria, e prima ancora del tracollo delle liste Cgil nelle elezioni per le commissioni interne alla Fiat nel marzo dell'anno precedente. Nel giro di breve tempo - scrive Asor Rosa - crollano due certezze fino ad allora inossidabili: la certezza nella realizzazione del socialismo reale, da un lato, e nell'indissolubilità del legame tra Pci, sindacato e classe operaia. Lo scossone è abbastanza forte da indurre il giovane protagonista a lasciare il partito, per accostarsi da lì a breve al Psi, giusto in tempo per vivere dall'interno l'intera stagione politica e teorica dell'operaismo italiano. Nel '58 escono le Tesi sul controllo operaio di Renato Panzieri - «dirigente socialista di grande intelligenza e di enorme fascino» - in collaborazione con Lucio Libertini. La parabola nel Psi dura poco, però. Lo stesso Panzieri, estenuato dai conflitti interni, abbandona il campo e va a Torino a lavorare nella Einaudi. «Agli anni '60, mi presento, ci presentiamo nudi e crudi, con un mondo immenso davanti ma senza granché alle spalle».
Potrebbe apparire spropositata l'ambizione con cui questo sparuto gruppo di giovani, per quanto dotati intellettualmente, intendono mettere sottosopra l'universo culturale e politico della sinistra, in uno scenario dove a sinistra del Pci non c'è praticamente nulla. Per nulla intimiditi e senza complessi d'inferiorità «i gruppi giovanili, di cui sto parlando, si sono inventati loro, in primissima battuta che a sinistra potesse esistere, e vivere, e funzionare, un'opzione politica e culturale che non fosse sostanzialmente governata e controllata dal "sistema" che la poderosa organizzazione comunista aveva sapientemente creato». Sono due gli assi portanti della riflessione teorica. Il ritorno alle fonti e al testo di Marx, innanzitutto, che si concretizza in un atto di rivolta sdegnosa, insofferente delle vulgate, infastidita dalla «lettura del marxismo che ci veniva propinata da parte degli esperti ufficiali del movimento operaio dominante», inquinata dai «cascami della tradizione idealistica italiana» attraverso i «Quaderni di Gramsci». Questo furore liquidazionista trova dei precedenti nella lezioni di Della Volpe e Colletti, ma per quanto riguarda l'esperienza circoscritta dell'operaismo avrà il suo interprete principale in Mario Tronti. La rilettura dei testi marxiani al di fuori dei codici culturali dominanti, però, non è un mero esercizio filologico. E', invece, una ricerca che parte da un'esigenza politica, operativa, quella di rimettere nella giusta direzione il rapporto tra classe e partito. Mettere al centro il ruolo soggettivo e «autonomo» della classe operaia significava per l'operaismo italiano «rovesciare il perno su cui poggiava l'intero universo politico-culturale uscito in quel certo modo dalla Resistenza». Non che il tema del partito e dell'organizzazione di classe scomparisse a favore di un qualche spontaneismo. Solo che agli occhi del giovane Asor Rosa si tratta di un partito da rifondare, in quanto degenerato da strumento di rappresentanza a organismo con finalità «generali», delegato a fare gli interessi del «popolo» e non della «classe», insomma prigioniero di una curvatura nazional-popolare. «L'organizzazione di classe non aveva altri protagonisti sociali da rappresentare, se non quelli disponibili a mettersi nella sua scia e sotto la sua egida». Non c'è, non vi può essere - questa è la convinzione - diversità di interessi tra l'organizzazione e la classe, laddove la prima deve essere ricalcata sulle modalità dello scontro capitale-lavoro nella società industriale avanzata.
L'avvio dell'operaismo non si capisce se non sullo sfondo di un'italia investita dal processo di industrializzazione, mutata nelle strutture sociali. La «possente emigrazione-immigrazione interna» dal sud al nord «riempie di contenuti nuovi, reali, la parola d'ordine dell'unità d'Italia». La classe operaia cresce del 33 per cento, circa un milione di nuovi operai di fabbrica. E' un fenomeno al quale non si può dare «una risposta di tipo sindacal-corporativo». Gli scontri di piazza Statuto del '62 (migliaia di operai assaltano la sede della Uil) sono il segnale che i confini della vecchia rappresentanza stanno saltando. E' qui che Asor Rosa azzarda una lettura retrospettiva che fa dipendere la «decadenza» italiana dall'incapacità da parte delle classi dirigenti di dare una risposta politica all'emergere del soggetto operaio. Sarebbero mancati, secondo Asor Rosa, forze politiche in grado di governare le problematiche di uno scenario sociale caratterizzato da un forte sviluppo e, insieme, da una forte conflittualità. «In Italia è prevalsa invece la tendenza a sopprimere letteralmente uno dei soggetti fondamentali della contraddizione: quello operaio, appunto». Si può anche dire che l'operaismo, in tutte le sue alterne fasi, è il tentativo di registrare la comparsa sulla scena di una nuova classe operaia, cercando un codice teorico che non sovrapponesse il proprio linguaggio al «punto di vista operaio», senza stravolgerlo con le proprie mediazioni. «Non si trattava, secondo un modello classico, di portare la coscienza, la consapevolezza di sé nella classe dall'esterno; ma piuttosto di ricavare il proprio - il nostro - modo di guardare le cose, la teoria, il mondo, il sociale, dall'atteggiamento, dal "modo di essere" che la classe esprimeva da, dalla propria concreta esperienza, nella lettura del proprio stesso congenito antagonismo verso la realtà».
Questa recensione è uscita su Liberazione lo scorso 24/12/2011.
Ci era sfuggita l'uscita dell'ultimo libro di Alberto Asor Rosa. Trattasi di una raccolta degli scritti del periodo operaista (anni '60) durante i quali Asor Rosa fu uno dei protagonisti delle esperienze dei Quaderni Rossi, Classe Operaia, Contropiano. Vi proponiamo le recensioni di Marco Revelli, Pino Bevilacqua, Tonino Bucci.
Segnaliamo anche l'audio di una lezione sull'operaismo italiano degli anni '60 da Quaderni Rossi a Classe Operaia che Asor Rosa ha tenuto a Roma nel 2009 (anche se fa riferimento a un altro libro, il volumone di Giuseppe Trotta e Fabio Milana edito da Derive Approdi nel 2009).
Quando la classe era operaia
Marco Revelli
Le armi della critica di Alberto Asor Rosa è una raccolta di saggi di critica letteraria di grande potenza analitica. Ma è anche una fonte storica: un´autobiografia culturale in cui l´autore si fa testimone del tempo, aiutandoci a capire l´Italia com´è stata e com´è diventata con molta maggior efficacia di tanta storiografia e sociologia professionali. Per la statura del suo autore, intellettuale che non si è rassegnato al silenzio. E per il carattere dei contributi qui riproposti.
Intanto per il periodo su cui i testi sono focalizzati: sono stati pubblicati tutti tra il 1960 e il 1970. Ci portano cioè in un punto seminale del nostro tempo, gli "anni Sessanta", quando l´Italia diventò quello che sarà, con uno strappo colossale e lacerante rispetto alla sua "tradizione", compiendo "la più ciclopica trasformazione… dai tempi della caduta dell´Impero romano in poi". Sono gli anni del passaggio, spaventosamente repentino, dall´arretratezza semi-agraria al neo-capitalismo della grande industria. Gli anni della migrazione biblica dalle estreme periferie del sud e della crescita impetuosa della classe operaia, giunta per la prima volta a una presa di parola autonoma. Sono dunque gli anni in cui conflittualità e sviluppo marciano insieme. Un concetto oggi inimmaginabile, in tempi in cui la rimozione del conflitto sociale dall´orizzonte mentale si accompagna al ristagno dell´economia.
Sono d´altra parte gli anni della grande crisi della sinistra comunista, quelli che seguono il XX Congresso del Pcus, l´invasione dell´Ungheria, la sconfitta della Fiom alla Fiat, l´estenuazione dell´egemonia togliattiana. Per questo Asor Rosa, allora venticinquenne (come buona parte dei giovani che parteciperanno del suo stesso percorso "operaista"), può scrivere oggi che "agli anni ´60 mi presentai, ci presentammo nudi e crudi, con un mondo immenso davanti ma senza granché alle spalle". Con la sensazione, cioè, della necessità di un taglio netto se si voleva stare dentro le cose, senza esser risucchiati nelle spire della modernizzazione integratrice cui il centro sinistra alludeva.
Ma gli anni Sessanta non sono solo questo. Sono anche gli anni della grande metamorfosi del lavoro intellettuale: della minaccia più radicale alla sua residua (e in parte illusoria) autonomia, con la riduzione della produzione culturale a lavoro "integrato", o comunque a funzione incasellata nel complesso sistema di ruoli predeterminati e formalizzati. Sono cioè gli anni in cui si estingue, definitivamente, la posizione autonoma della critica letteraria. O, meglio, il ruolo critico della letteratura, travolto dall´onnipotenza dell´industria culturale e da un più forte e sistematico "controllo borghese" del proprio mondo. E in questo sta il secondo elemento di interesse di questi scritti. Essi rappresentano infatti il resoconto fedele, perché generatosi in medias res, della riflessione di un gruppo di intellettuali sulla natura del proprio lavoro e sul destino di esso nel pieno di una cesura storica e sociale che ne decretava un cambiamento di stato tanto radicale da prospettarne la fine.
Si spiega così il tratto dominante – il vero fil rouge – che attraversa tutti i testi, con un´invadenza in qualche misura prepotente: il bisogno ossessivo di smarcarsi. L´ansia della secessione morale e culturale, della fuoriuscita da ogni condizione di continuità e di contiguità con un esistente considerato già perduto, spinta fino alla teorizzazione del "negativo" e all´abiura di ogni parentela anche con i più prossimi, con i Calvino e i Fortini, con la neo-avanguardia e la cultura antifascista e resistenziale, in una furia di distanziamento che assomiglia a un "si salvi chi può" perché tutto ormai, di quella cultura, rischia di transitare nell´ordine di un discorso che è ordine produttivo, razionalità di sistema, integrazione e alienazione.
Lungo questa traiettoria c´è l´incontro con la "classe operaia", intesa nella sua materialità selvaggia. Non la rappresentazione iconica della tradizione riformista, non il soggetto togliattianamente destinato a "raccogliere le bandiere lasciate cadere dalla borghesia", portatore di un universalismo umanistico, ma la "rude razza pagana". O meglio il suo "punto di vista" separato, "particolaristico", proprio di un´alterità assoluta, non integrabile, in forza della sua negazione del lavoro, e per questa ragione possibile riferimento per chi intendesse porsi fuori e contro: vale a dire per quell´intellettualità disponibile a tagliare i ponti con l´universalismo della propria cultura. E disponibile a pagarne per intero il prezzo: a farsi a sua volta "particolarità", nel rogo di tutti i suoi valori culturali.
Nasce di qui, da questo incontro nell´esodo, l´idea, del tutto originale, della necessità di una rivoluzione operaia pur in assenza di una rivoluzione democratica. Anzi, possibile proprio per quell´assenza. Un´idea capace di fare molta strada, assorbendo nel proprio percorso forme di pensiero eterogenee (dal Marx dei Grundrisse al Leopardi e al Nietzsche dell´illuminismo negativo, tutti allineati sulla linea dell´irriducibilità al dispotismo delle "cose"), per giungere infine a un duro contrasto con l´intera cultura democratica e progressista della generazione immediatamente precedente (strano destino per chi, sulle orme di Saba, auspicava per il proprio Paese l´abbandono della cattiva pratica "fratricida" in favore del più maturo "parricidio" dei popoli realmente rivoluzionari).
Su quell´idea si è strutturato uno dei pochi "paradigmi culturali" degni di questo nome nel secondo dopoguerra. Una "cultura" in grado di tenere il campo nel deserto culturale del tardo novecento, perché radicata davvero nella forza della vita. E tuttavia, nel contempo, testimone di un fallimento. Destinata – col suo soggetto sociale di riferimento - alla caduta esattamente come le eroiche personalità borghesi descritte nel magistrale saggio su Thomas Mann: uccise dalla stessa forza vitale che le animava. Dalla ferocia del proprio sguardo libero sull´esistente.
La Repubblica del 19 novembre 2011
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AAR. Le armi della critica e il pensiero eversore
di Piero Bevilacqua
Che cosa può rendere attuali e perfino per tanti versi affascinanti gli scritti, di e su un decennio ormai lontano, di un protagonista della scena culturale italiana degli ultimi 40 anni? Forse basterebbe la qualità storica del periodo in questione: gli anni '60, senza dubbio il decennio epico della seconda metà del XX secolo, la pagina più intensa e più alta della storia italiana dello scorcio finale dell'età contemporanea. Con studiata foga iperbolica – ma con molti elementi di verità - Alberto Asor Rosa (Le armi della critica: Scritti e saggi degli anni ruggenti (1960-1970) , Einaudi Torino 2011 pp.VII-LXIX, 368) la definisce « la più ciclopica trasformazione delle proprie strutture sociali, economiche, produttive – e però anche intellettuali e culturali – dai tempi della caduta dell'Impero romano in poi». Un decennio, come vedremo, su cui gravano interrogazioni fondamentali che arrivano al nostro tempo. Me nella Prefazione storica che organizza i saggi, in parte usciti in edizioni precedenti - e che a mio avviso vale, da sola, per nitore analitico e tensione esistenziale e civile, l'intero libro – c'è anche dell'altro.
Asor Rosa racconta in questo saggio il proprio ingresso nel mondo dell'impegno politico e al tempo stesso l'inquieta esplorazione dell'universo intellettuale che gli stava intorno e che e a quell'impegno doveva fornire fondamenti di senso e prospettive. Si tratta di pagine autobiografiche all'interno delle quali si snodano vicende, che solo in parte sono personali, perché riescono a coinvolgere nel racconto, sullo sfondo dei processi del decennio, la vicenda di un gruppo intellettuale tra i più significativi dell'Italia della seconda metà del secolo. Amici e sodali dell'avventura politica e culturale di Asor Rosa, in quegli anni, erano Mario Tronti, uno dei padri dell'”operaismo,” Toni Negri, oggi teorico molto influente, Massimo Cacciari, filosofo e politico a tutti noto, Umberto Coldagelli, diventato il maggiore studioso di Tocqueville in Italia, Aris Accornero, l'unico operaio italiano pervenuto alla cattedra universitaria e sociologo del lavoro, Rita di Leo, sociologa anch'essa e studiosa della composizione sociale dell'URSS e dello stalinismo, Manfredo Tafuri, storico e teorico dell'urbanistica precocemente scomparso. La storia dei gruppi intellettuali, tema negletto nel paese di Gramsci , trova nelle prime pagine della Prefazione indicazioni e suggestioni che danno il senso di un'epoca e anche non poche piste di ricerca.
La cifra essenziale della tensione teoretica dell'autore e del gruppo – molto più affollato dei nomi noti appena ricordati – è soprattutto una: il rapporto diretto con il pensiero di Marx, per afferrare con profondità analitica ciò che si voleva conoscere direttamente, la classe operaia di fabbrica. Asor Rosa ricostruisce il suo personale percorso – con uno sforzo costante, da storico di mestiere, di rendere impersonali le vicende che lo riguardano - di avvicinamento a Marx e delle scoperte che ne ha ricavato. E nel testo fa rivivere pagine dai Grundrisse o dal Capitale, che ancora oggi gettano lampi di bagliore conoscitivo ineguagliati sulla società del nostro tempo. E trovo davvero incontrovertibile l 'affermazione perentoria in cui si lascia andare : « Chi, anche oggi, non ha letto e meditato Marx non è in grado di capire in che mondo viviamo». Una verifica immediata? Osservate, con un rapido sguardo, il profilo intellettuale del ceto politico della sinistra ufficiale e ne troverete plastica ed esaustiva conferma.
Le pagine di questo saggio, tuttavia, si fanno leggere con singolare passione per un'altra ragione. Perché Asor Rosa ci trascina nella insolita bivalenza della sua personalità e nella spiazzante originalità del suo percorso esplorativo: che mette insieme Marx, Leopardi, Nietzsche e i grandi autori della letteratura europea. Forse il nucleo più ardimentoso di tutto il ragionamento, sempre esemplarmente rigoroso, del saggio sta nel tentativo, a mio avviso riuscito e persuasivo (ma potrei essere condizionato da affinità di sentire) di mettere insieme, diciamo, le forme di estrazione del plusvalore nelle società capitalistiche avanzate, descritte da Marx , con questo incantevole verso di Leopardi : «Dolce e chiara è la notte e senza vento». La teoria rivoluzionaria e la poesia, la lotta per l'emancipazione di una classe oppressa e la ricerca di una visione profonda e disincantata della condizione umana. Sfere assai distanti fra di loro, ma in realtà tenute insieme da una medesima tensione: la libertà del pensiero da tutti i condizionamenti, da tutti gli idola, la sovrana conoscenza della realtà e della “verità”, il poter collocare la propria opera transeunte nell' universo di senso che solo la grande poesia può regalarci. Con Nietzsche - «un grandioso continente di pensieri» - le cose sono più facili, anche se non meno avvincenti. Alcune riflessioni del filosofo tedesco sulla classe operaia – di folgorante inattualità - danno al ragionamento dell' autore una convincente rotondità.
Nella Prefazione Asor Rosa pone una questione storica che meriterebbe una discussione più ampia di quella possibile in queste note. Egli sostiene che in Italia, in quegli anni , «un forte sviluppo in presenza di una forte conflittualità , una forte conflittualità in presenza di un forte sviluppo avrebbero garantito a tutti quel salto che invece non c'è stato e da cui è scaturita l'attuale decadenza». Prima di entrare nel merito, io vorrei preliminarmente osservare che in tale riflessione dell'autore riaffiora una tensione, direi una vibrazione morale costante in tutta la sua opera di storico della letteratura. E' quell' «amarezza del pensiero e dell'intelligenza» , ch'egli attribuisce in questa Prefazione a Machiavelli, dipendente dallo scarto, che segna tutta la nostra storia - e che l'autore ritrova ogni volta che si occupa di Dante, di Machiavelli, Guicciardini, Leopardi – quello scarto tra le incomparabili potenzialità delle nostre energie e intelligenze nazionali e gli scadenti esiti statuali che ne sono di volta in volta derivati. Anche negli anni '60 sarebbe accaduto qualcosa di “antico”. La tesi contiene degli elementi di verità storica che andrebbero esplorati in maniera più circostanziata. Io credo, tuttavia, che forse la “mancata risposta” alla potenzialità contenuta nei conflitti, sia da spostare più avanti, e da concentrare soprattutto sul piano della cultura politica Non posso fare a meno di ricordare che gli anni '70 non furono di semplice opposizione, da parte delle classi dirigenti italiane.
Alla pressione operaia e popolare, in certi casi, si rispose con riforme importanti: la nascita delle Regioni (non senza effetti indesiderati, soprattutto al Sud) lo Statuto dei lavoratori, la nascita, nel 1978, del Sistema Sanitario Nazionale, un processo parziale, ma importante di democratizzazione dei corpi di polizia. E al tempo stesso, in quel decennio, vi furono conquiste politiche e di civiltà: l'affermazione delle sinistre nelle grandi città, la vittoria referendaria per il divorzio, mutamenti di costume e di rapporti tra genitori e figli, la ventata libertaria del movimento femminista. Naturalmente quelli sono anche gli anni della reazione stragista da parte di potenze oscure della società italiana, e poi del terrorismo.
Dunque, alcune trasformazioni importanti sono pur venute da quei conflitti. Nella società sono continuate modificazioni culturali profonde. Quel che è rimasto imballato, certamente, è stato il sistema politico. Forse perché i due maggiori partiti troppo a lungo non hanno goduto di piena autonomia nazionale. Ma quel che mi sento di dire, per ciò che riguarda la sinistra, è che il vecchio Partito comunista aveva esaurito, già negli anni '80, la sua progettualità strategica. Tardivamente e mal riformato, ha perso rapidamente, nel corso degli anni '90, la capacità di leggere i movimenti profondi che il capitalismo stava promuovendo. Il vasto sommovimento globale messo in atto dal neoliberismo è stato non a caso, anche dal gruppo dirigente di quel partito, scambiato per una nuova frontiera della modernità.
pubblicato su Eddyburg
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Dei giovanili furori di un gruppo di operaisti
di Tonino Bucci
Non si sa bene se definirla autobiografia oppure ricostruzione storica di un'epoca a forte connotazione culturale. Probabilmente ambedue gli aspetti si ritrovano a convivere nel volume di recente pubblicato da Alberto Asor Rosa con il titolo Le armi della critica, nel quale sono raccolti saggi e scritti tutti risalenti al decennio 1960-1970 (Einaudi, pp. 370, euro 23). Non si può dire che manchi uno sguardo soggettivo sulla realtà, ma neppure uno sforzo di resoconto oggettivo, in questo collage di testi, interventi, recensioni e articoli a sfondo sociologico che testimoniano l'impegno politico di un giovane Asor Rosa. Il risultato, nel suo insieme, è una sorta di romanzo di formazione di un piccolo gruppo giovanile, tutti comunisti iscritti alla Fgci, sezione dell'Università di Roma, destinato a trovarsi nel bel mezzo di una crisi politica del partito, quella del '56, anno dell'intervento militare sovietico in Ungheria, e prima ancora del tracollo delle liste Cgil nelle elezioni per le commissioni interne alla Fiat nel marzo dell'anno precedente. Nel giro di breve tempo - scrive Asor Rosa - crollano due certezze fino ad allora inossidabili: la certezza nella realizzazione del socialismo reale, da un lato, e nell'indissolubilità del legame tra Pci, sindacato e classe operaia. Lo scossone è abbastanza forte da indurre il giovane protagonista a lasciare il partito, per accostarsi da lì a breve al Psi, giusto in tempo per vivere dall'interno l'intera stagione politica e teorica dell'operaismo italiano. Nel '58 escono le Tesi sul controllo operaio di Renato Panzieri - «dirigente socialista di grande intelligenza e di enorme fascino» - in collaborazione con Lucio Libertini. La parabola nel Psi dura poco, però. Lo stesso Panzieri, estenuato dai conflitti interni, abbandona il campo e va a Torino a lavorare nella Einaudi. «Agli anni '60, mi presento, ci presentiamo nudi e crudi, con un mondo immenso davanti ma senza granché alle spalle».
Potrebbe apparire spropositata l'ambizione con cui questo sparuto gruppo di giovani, per quanto dotati intellettualmente, intendono mettere sottosopra l'universo culturale e politico della sinistra, in uno scenario dove a sinistra del Pci non c'è praticamente nulla. Per nulla intimiditi e senza complessi d'inferiorità «i gruppi giovanili, di cui sto parlando, si sono inventati loro, in primissima battuta che a sinistra potesse esistere, e vivere, e funzionare, un'opzione politica e culturale che non fosse sostanzialmente governata e controllata dal "sistema" che la poderosa organizzazione comunista aveva sapientemente creato». Sono due gli assi portanti della riflessione teorica. Il ritorno alle fonti e al testo di Marx, innanzitutto, che si concretizza in un atto di rivolta sdegnosa, insofferente delle vulgate, infastidita dalla «lettura del marxismo che ci veniva propinata da parte degli esperti ufficiali del movimento operaio dominante», inquinata dai «cascami della tradizione idealistica italiana» attraverso i «Quaderni di Gramsci». Questo furore liquidazionista trova dei precedenti nella lezioni di Della Volpe e Colletti, ma per quanto riguarda l'esperienza circoscritta dell'operaismo avrà il suo interprete principale in Mario Tronti. La rilettura dei testi marxiani al di fuori dei codici culturali dominanti, però, non è un mero esercizio filologico. E', invece, una ricerca che parte da un'esigenza politica, operativa, quella di rimettere nella giusta direzione il rapporto tra classe e partito. Mettere al centro il ruolo soggettivo e «autonomo» della classe operaia significava per l'operaismo italiano «rovesciare il perno su cui poggiava l'intero universo politico-culturale uscito in quel certo modo dalla Resistenza». Non che il tema del partito e dell'organizzazione di classe scomparisse a favore di un qualche spontaneismo. Solo che agli occhi del giovane Asor Rosa si tratta di un partito da rifondare, in quanto degenerato da strumento di rappresentanza a organismo con finalità «generali», delegato a fare gli interessi del «popolo» e non della «classe», insomma prigioniero di una curvatura nazional-popolare. «L'organizzazione di classe non aveva altri protagonisti sociali da rappresentare, se non quelli disponibili a mettersi nella sua scia e sotto la sua egida». Non c'è, non vi può essere - questa è la convinzione - diversità di interessi tra l'organizzazione e la classe, laddove la prima deve essere ricalcata sulle modalità dello scontro capitale-lavoro nella società industriale avanzata.
L'avvio dell'operaismo non si capisce se non sullo sfondo di un'italia investita dal processo di industrializzazione, mutata nelle strutture sociali. La «possente emigrazione-immigrazione interna» dal sud al nord «riempie di contenuti nuovi, reali, la parola d'ordine dell'unità d'Italia». La classe operaia cresce del 33 per cento, circa un milione di nuovi operai di fabbrica. E' un fenomeno al quale non si può dare «una risposta di tipo sindacal-corporativo». Gli scontri di piazza Statuto del '62 (migliaia di operai assaltano la sede della Uil) sono il segnale che i confini della vecchia rappresentanza stanno saltando. E' qui che Asor Rosa azzarda una lettura retrospettiva che fa dipendere la «decadenza» italiana dall'incapacità da parte delle classi dirigenti di dare una risposta politica all'emergere del soggetto operaio. Sarebbero mancati, secondo Asor Rosa, forze politiche in grado di governare le problematiche di uno scenario sociale caratterizzato da un forte sviluppo e, insieme, da una forte conflittualità. «In Italia è prevalsa invece la tendenza a sopprimere letteralmente uno dei soggetti fondamentali della contraddizione: quello operaio, appunto». Si può anche dire che l'operaismo, in tutte le sue alterne fasi, è il tentativo di registrare la comparsa sulla scena di una nuova classe operaia, cercando un codice teorico che non sovrapponesse il proprio linguaggio al «punto di vista operaio», senza stravolgerlo con le proprie mediazioni. «Non si trattava, secondo un modello classico, di portare la coscienza, la consapevolezza di sé nella classe dall'esterno; ma piuttosto di ricavare il proprio - il nostro - modo di guardare le cose, la teoria, il mondo, il sociale, dall'atteggiamento, dal "modo di essere" che la classe esprimeva da, dalla propria concreta esperienza, nella lettura del proprio stesso congenito antagonismo verso la realtà».
Questa recensione è uscita su Liberazione lo scorso 24/12/2011.
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