All’attenzione dei direttori della Banca Centrale Europea
Jean Claude Trichet e Mario Draghi
Spettabili Direttori,
Ci chiamiamo Natalia e Ulisse. Non siamo banchieri, né capitani d’industria, né broker finanziari,
né titolari di agenzie di rating; non siamo capi di governo o ministri delle finanze. Non siamo il
genere di persone con cui andate abitualmente a colazione. Siamo un’educatrice e un ricercatore
universitario. O meglio, proviamo a esserlo. Io, Natalia, avevo un contratto a progetto ma ora il
progetto – che sorpresa! – è finito, e sono a casa (integra se vuoi); io, Ulisse, ho finito il dottorato di ricerca, e, mentre perdo il mio tempo dietro a concorsi e applicazioni che non vincerò mai, lavoro come partita iva in monocommittenza, a mille euro al mese, con contratti semestrali. Siamo due precari qualunque, insomma. Siamo lavoratori come molti, moltissimi altri: operai, operatori di call center, facchini, magazzinieri, autotrasportatori ecc...
Jean Claude Trichet e Mario Draghi
Spettabili Direttori,
Ci chiamiamo Natalia e Ulisse. Non siamo banchieri, né capitani d’industria, né broker finanziari,
né titolari di agenzie di rating; non siamo capi di governo o ministri delle finanze. Non siamo il
genere di persone con cui andate abitualmente a colazione. Siamo un’educatrice e un ricercatore
universitario. O meglio, proviamo a esserlo. Io, Natalia, avevo un contratto a progetto ma ora il
progetto – che sorpresa! – è finito, e sono a casa (integra se vuoi); io, Ulisse, ho finito il dottorato di ricerca, e, mentre perdo il mio tempo dietro a concorsi e applicazioni che non vincerò mai, lavoro come partita iva in monocommittenza, a mille euro al mese, con contratti semestrali. Siamo due precari qualunque, insomma. Siamo lavoratori come molti, moltissimi altri: operai, operatori di call center, facchini, magazzinieri, autotrasportatori ecc...
Anzi, ve lo dobbiamo rammentare, perché di sicuro la cosa vi è sfuggita: siamo la maggioranza della popolazione lavorativa in questo paese. Il particolare non è secondario; si, perché non dovete credere che questa nostra sia l’ennesima narrazione lacrimevole della miseria (sfiga?) che ci attanaglia, verso la quale sfoderare il vostro paternalistico sorriso, e che liquiderete con la proverbiale pacca sulla spalla.
Non veniamo con il cappello in mano a chieder l’elemosina: questo lo lasciamo al nostro governo.
Noi non chiediamo, pretendiamo. Esattamente come avete fatto voi, con la vostra lettera minatoria del 5 agosto. Dopo aver osservato, con compiacente disinteresse, banche d’affari e speculatori finanziari arricchirsi scommettendo sui debiti della gente comune, e aver coperto la loro bancarotta quando la bolla speculativa è esplosa, usando soldi pubblici, adesso osate fare ingiunzioni; osate rimproverare un paese per la sua insolvenza sventolando lo spauracchio del default, dopo averne
prosciugato le risorse per salvare i vostri amici; osate pretendere. Ebbene, adesso pretendiamo noi.
Voi avete la forza del denaro. Noi abbiamo la forza delle moltitudini, delle idee, e della rabbia.
Voi chiedete la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali,
attraverso privatizzazioni su larga scala.
Noi chiediamo invece il libero e consapevole accesso ai beni comuni: il diritto alla casa, e a uno
spazio per la realizzazione e l’organizzazione della propria vita; il diritto alla formazione e
all’istruzione, e a spazi per la produzione di sapere collettivo; il libero accesso all’informazione,
attraverso la rimozione dei vincoli che lo limitano; il diritto alla comunicazione, con il libero
accesso ai canali e ai media di comunicazione sociale e culturale; il diritto alla mobilità, e la
garanzia della libera circolazione dei corpi, tramite la fruizione agevolata dei mezzi di trasporto; il diritto alla socialità, e a spazi comuni d’incontro e di relazione.
Voi chiedete la riforma ulteriore del sistema di contrattazione salariale collettivo, permettendo
accordi a livello d’impresa e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di
negoziazione.
Noi pretendiamo la cancellazione dell’art. 8 e dell’accordo tra sindacati e confindustria del 28
giugno, rifiutiamo il ricatto della trattativa locale, che di fatto consegna i salari e le condizioni di
lavoro all’arbitrio delle aziende, condanniamo il ruolo connivente delle sigle sindacali confederali, che svendono per trenta denari i lavoratori in cambio della legittimazione alla propria esclusiva sulla rappresentanza. Chiediamo invece la riduzione delle tipologie contrattuali, a fronte dell’attuale proliferazione di accordi collettivi, originati da una divisione del lavoro che non esiste più.
Chiediamo di definire in un’unica cornice giuridico – contrattuale le garanzie di base a tutela del
lavoro a prescindere dall’attività svolta e dal settore di appartenenza. Chiediamo un salario minimo orario e, per le attività non misurabili in termini di tempo, una retribuzione minima
Voi chiedete licenziamenti più facili, e indorate la pillola auspicando un welfare moderno e un
sistema di ricollocazione impraticabili perché non finanziati.
Voi chiedete il pareggio di bilancio e il pagamento del debito.
Noi chiediamo l’accesso incondizionato al reddito di esistenza, a prescindere da qualsiasi
condizione professionale, etnica, sessuale, generazionale, affinché sia riconosciuto che siamo
produttivi anche solo vivendo.
Noi rivendichiamo il diritto all’insolvenza, il diritto a riappropriarci di ciò che ci è stato sottratto,
con la forza e con l’inganno, da banche, speculatori finanziari, e un governo connivente. Vogliamo esercitare tale diritto come moltitudine, ponendo le nostre esigenze di produzione e cooperazione sociale prima di qualsiasi esigenza legata a logiche di profitto e sfruttamento.
Questo noi chiediamo, anzi pretendiamo. E lo grideremo a gran voce oggi, in varie piazze d’Italia, e sabato 15 ottobre a Roma.
Noi non chiediamo, pretendiamo. Esattamente come avete fatto voi, con la vostra lettera minatoria del 5 agosto. Dopo aver osservato, con compiacente disinteresse, banche d’affari e speculatori finanziari arricchirsi scommettendo sui debiti della gente comune, e aver coperto la loro bancarotta quando la bolla speculativa è esplosa, usando soldi pubblici, adesso osate fare ingiunzioni; osate rimproverare un paese per la sua insolvenza sventolando lo spauracchio del default, dopo averne
prosciugato le risorse per salvare i vostri amici; osate pretendere. Ebbene, adesso pretendiamo noi.
Voi avete la forza del denaro. Noi abbiamo la forza delle moltitudini, delle idee, e della rabbia.
Voi chiedete la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali,
attraverso privatizzazioni su larga scala.
Noi chiediamo invece il libero e consapevole accesso ai beni comuni: il diritto alla casa, e a uno
spazio per la realizzazione e l’organizzazione della propria vita; il diritto alla formazione e
all’istruzione, e a spazi per la produzione di sapere collettivo; il libero accesso all’informazione,
attraverso la rimozione dei vincoli che lo limitano; il diritto alla comunicazione, con il libero
accesso ai canali e ai media di comunicazione sociale e culturale; il diritto alla mobilità, e la
garanzia della libera circolazione dei corpi, tramite la fruizione agevolata dei mezzi di trasporto; il diritto alla socialità, e a spazi comuni d’incontro e di relazione.
Voi chiedete la riforma ulteriore del sistema di contrattazione salariale collettivo, permettendo
accordi a livello d’impresa e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di
negoziazione.
Noi pretendiamo la cancellazione dell’art. 8 e dell’accordo tra sindacati e confindustria del 28
giugno, rifiutiamo il ricatto della trattativa locale, che di fatto consegna i salari e le condizioni di
lavoro all’arbitrio delle aziende, condanniamo il ruolo connivente delle sigle sindacali confederali, che svendono per trenta denari i lavoratori in cambio della legittimazione alla propria esclusiva sulla rappresentanza. Chiediamo invece la riduzione delle tipologie contrattuali, a fronte dell’attuale proliferazione di accordi collettivi, originati da una divisione del lavoro che non esiste più.
Chiediamo di definire in un’unica cornice giuridico – contrattuale le garanzie di base a tutela del
lavoro a prescindere dall’attività svolta e dal settore di appartenenza. Chiediamo un salario minimo orario e, per le attività non misurabili in termini di tempo, una retribuzione minima
Voi chiedete licenziamenti più facili, e indorate la pillola auspicando un welfare moderno e un
sistema di ricollocazione impraticabili perché non finanziati.
Voi chiedete il pareggio di bilancio e il pagamento del debito.
Noi chiediamo l’accesso incondizionato al reddito di esistenza, a prescindere da qualsiasi
condizione professionale, etnica, sessuale, generazionale, affinché sia riconosciuto che siamo
produttivi anche solo vivendo.
Noi rivendichiamo il diritto all’insolvenza, il diritto a riappropriarci di ciò che ci è stato sottratto,
con la forza e con l’inganno, da banche, speculatori finanziari, e un governo connivente. Vogliamo esercitare tale diritto come moltitudine, ponendo le nostre esigenze di produzione e cooperazione sociale prima di qualsiasi esigenza legata a logiche di profitto e sfruttamento.
Questo noi chiediamo, anzi pretendiamo. E lo grideremo a gran voce oggi, in varie piazze d’Italia, e sabato 15 ottobre a Roma.
Perché siamo stati buoni, ma mai stupidi. E ora non siamo neanche più buoni
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