di Claudio Grassi
C’erano una volta due sinistre, una «radicale», intenzionata a cambiare la società, l’altra «moderata», desiderosa di governare la modernizzazione e limitarne i contraccolpi sui ceti deboli. Oggi questa parrebbe una fotografia ingiallita del tempo che fu. Di sinistra si direbbe esserne rimasta una sola, costituita dalle forze Invadere il campo per liberare la sinistra
che tre anni fa furono (non per caso) espulse dal parlamento. Dopo un trentennio di macelleria sociale e di privatizzazione della finanza pubblica è evidente a tutti che la «terza via» di blairiana memoria era una bufala. E che, quali che siano in teoria i margini per un governo temperato del neoliberismo, la sinistra moderata d’antan ha introiettato l’ideologia mercatista, secondo cui libertà di movimento dei capitali e precarietà del lavoro sono infallibili vettori di progresso.
Nell’ultimo quarto di secolo la sinistra moderata non è più stata una controparte del capitale, ma una sua forza di complemento. Questo in Europa non meno che negli Stati Uniti, considerato il ruolo svolto dall’élite del socialismo francese, alla guida del Fmi (Camdessus) e della Commissione europea (Delors e Lamy), nelle liberalizzazioni dei primi anni Ottanta. Di qui – per stare alla provincia italiana – la scelta di fondere in un partito «riformista», equidistante da capitale e lavoro, le maggiori forze politiche discendenti dai due partiti che nella prima Repubblica si combattevano sulla difesa o sul superamento del capitalismo. Di qui anche la ferma opzione del Pds e dei suoi eredi per il bipolarismo che, come insegna l’esperienza dei paesi anglosassoni, presuppone che entrambi i poli condividano le coordinate fondamentali della politica economica e sociale e cooperino per escludere le forze critiche dalle istituzioni rappresentative.
Ormai, dunque, sembrerebbe esserci una sola sinistra. Per ciò stesso costretta – parrebbe inevitabile dedurne – a far da sé, prendendo atto della distanza incolmabile che la separa da tutte le altre aree politiche. Invece le cose stanno esattamente all’opposto. Non perché non sia vero che nel Pd operano potenti spinte tese a trasformare il partito in una forza organicamente centrista, ma proprio per questo. La sinistra rischia effettivamente di ridursi alla sola ala «radicale». Ma, per paradossale che ciò possa apparire, proprio questa è la ragione per cui la strada del dialogo e dell’unità delle forze avverse al centrodestra è obbligata. Vediamo perché, partendo dalla configurazione delle forze politiche e dal loro rapporto con la società.
L’articolazione dei gruppi dirigenti è la fisiologia dei partiti, che sono sedi di confronto, non caserme in cui si canta all’unisono. Questo aspetto passa inosservato per via di una regressione. Dentro i partiti della prima Repubblica convivevano posizioni diverse. Da vent’anni a questa parte (grazie al bipolarismo e a leggi elettorali che avrebbero dovuto ridurre la frammentazione della rappresentanza e hanno invece accresciuto a dismisura le rendite di posizione delle micro formazioni) il confronto interno tende a degenerare nella rissa e ad essere risolto coercitivamente. Resta che – per fare un esempio – nel Pd si registrano posizioni diverse su questioni cruciali come le politiche sociali e del lavoro e le riforme istituzionali, posizioni tra le quali la segreteria è costretta a tentare difficili sintesi e che sono in parte molto vicine a quelle della sinistra.
La complessità riguarda soprattutto il rapporto tra i partiti e i settori sociali di riferimento. Qui veniamo al dunque. C’è ragione di ritenere che lo spazio sociale in cui la sinistra può e deve operare ecceda di molto quello oggi intercettato dall’insieme delle sue forze. Da vent’anni a questa parte la politica (non solo in Italia) è in crisi per un fatto strutturale. La tanto celebrata crisi delle ideologie è l’epifenomeno di una scissione profonda tra bisogni sociali e sistema della rappresentanza, di cui la crescita esponenziale dell’astensionismo e dell’antipolitica sono i sintomi più vistosi. Tra la domanda di rappresentanza di quello che in passato definivamo «popolo della sinistra» e l’offerta politica disponibile vi è uno scarto enorme. Il fatto che i partiti tentino di lucrare consenso attraverso leggi elettorali che producono quella aberrazione che va sotto il nome di «voto utile» (utile non perché risponda alle convinzioni dell’elettore, ma perché è verosimilmente in grado di contribuire all’elezione di un parlamentare purchessia) è la sanzione esplicita di tale stato di cose.
Ora, questa patologia va vista anche in positivo. Essa attesta l’esistenza di un vasto bacino elettorale in cerca di rappresentanza e con ciò dimostra che lo scenario è in movimento. Una delle caratteristiche salienti della transizione incompiuta verso la seconda Repubblica è l’immaturità delle forze politiche – in particolare di quelle che ambiscono a rappresentare il mondo del lavoro e le classi subalterne – che proprio per la profonda sfasatura tra la loro linea politica e gli interessi di gran parte del loro elettorato stentano a trovare una consistenza organica. A questo stato di cose si è cercato di far fronte mediante espedienti tecnici, rimuovendo la sostanza politica. È questa la ragion d’essere del bipolarismo, del presidenzialismo di fatto e di leggi elettorali che aumentano i poteri delle segreterie dei partiti. In non casuale sintonia col proliferare di dispositivi di disciplinamento del dissenso e del disagio, in questi ultimi vent’anni il sistema politico si è venuto strutturando come una prigione. Ciò nonostante, il sistema rimane disorganico e contraddittorio. E la situazione dinamica, suscettibile di sviluppi progressivi. Il caos, evidente, potrebbe essere produttivo, tanto più che proprio grazie alla crisi economica è dato registrare una grossa novità.
Come osservava qualche giorno fa Paul Krugman facendo quattro conti, questa crisi è un limpido esempio di lotta di classe. Non per caso le istituzioni politiche e finanziarie, braccio armato del capitale privato, sono in prima linea, a dimostrazione che non si usano metafore quando si afferma che è il capitale il vero detentore della sovranità. Naturalmente il class warfare del capitale contro il lavoro non è una novità. Nuovo è però il diffondersi della coscienza (certo, ancora embrionale) del fallimento storico del capitalismo. Sono sempre di più coloro che percepiscono la vocazione del capitalismo, dacché è padrone della scena in occidente, a produrre guerre, disoccupazione, disastri ecologici e miseria di massa, nonostante una vertiginosa crescita della produttività dei mezzi di produzione. Sono sempre più numerosi gli indignados di ogni età e provenienza, al di là di quanti scendono in piazza per manifestare. Sono sempre più vasti i settori sociali che intuiscono che il capitale è l’avversario: che divengono classe operaia, acquisendo una coscienza sovversiva. E sempre di più sono in Italia i delusi da un’opposizione che abbaia senza mai mordere e non di rado corre in soccorso della maggioranza. Che cos’altro dicono la vicenda dei referendum sull’acqua e i servizi pubblici locali e, più in generale, la popolarità del discorso dei beni comuni? Davvero non è difficile immaginare quale accoglienza incontrerebbe la proposta di una patrimoniale e di una seria riforma fiscale, del taglio delle spese militari e del ritiro dei militari italiani dall’Afghanistan, dell’introduzione di un salario sociale e di misure efficaci contro la precarietà del lavoro.
Se questo è vero, il problema cruciale per la sinistra oggi è stabilire una connessione con questi settori sociali ancora prigionieri del centrosinistra e tentare di organizzarne l’evasione di massa. Come? Evidentemente entrando nello spazio pubblico in cui il centrosinistra si muove, nella comunità linguistica in cui si dipana il suo discorso, nel codice della sua comunicazione, per scompigliarlo e disseminarvi le proprie idee. Si tratta di imporre un nuovo ordine al discorso politico che raggiunge il mondo del lavoro e le classi subalterne. O, se si vuole, di imporre un discorso di verità. Per difendere la propria credibilità i gruppi dirigenti del centrosinistra debbono “mentire” alla loro gente, recitando la parte del nemico del sistema. La forbice tra le cose dette e quelle fatte è un tallone d’Achille di cui la sinistra deve approfittare. Per questo la cosa più sbagliata che essa possa fare in questa situazione di crisi organica del sistema della rappresentanza sarebbe la chiusura identitaria su se stessa. Questo è il momento di unificare lotte e movimenti, contrastandone la corporativizzazione, e al tempo stesso di aprire un confronto a tutto campo con il centrosinistra, per far sì che il discorso «radicale» circoli per tutta l’area sociale coinvolgibile nella lotta contro le destre.
Ma tutto ciò riposa su un presupposto. Oggi, soprattutto in Italia, la sinistra è poca cosa anche per propri errori e responsabilità. Non appare credibile a tanta parte della sua gente perché in questi vent’anni ha continuato a dividersi. Il primo compito che essa ha dinanzi a sé è quindi l’uscita dall’attuale frammentazione, la costruzione di una grande unità della sinistra di alternativa. Questa sarebbe, a guardar bene, la vera riforma democratica della politica. Contro quei gruppi dirigenti che custodiscono le divisioni come base e garanzia delle proprie rendite di posizione.
Alberto Burgio
Claudio Grassi
(il manifesto, 29 settembre 2011)
C’erano una volta due sinistre, una «radicale», intenzionata a cambiare la società, l’altra «moderata», desiderosa di governare la modernizzazione e limitarne i contraccolpi sui ceti deboli. Oggi questa parrebbe una fotografia ingiallita del tempo che fu. Di sinistra si direbbe esserne rimasta una sola, costituita dalle forze Invadere il campo per liberare la sinistra
che tre anni fa furono (non per caso) espulse dal parlamento. Dopo un trentennio di macelleria sociale e di privatizzazione della finanza pubblica è evidente a tutti che la «terza via» di blairiana memoria era una bufala. E che, quali che siano in teoria i margini per un governo temperato del neoliberismo, la sinistra moderata d’antan ha introiettato l’ideologia mercatista, secondo cui libertà di movimento dei capitali e precarietà del lavoro sono infallibili vettori di progresso.
Nell’ultimo quarto di secolo la sinistra moderata non è più stata una controparte del capitale, ma una sua forza di complemento. Questo in Europa non meno che negli Stati Uniti, considerato il ruolo svolto dall’élite del socialismo francese, alla guida del Fmi (Camdessus) e della Commissione europea (Delors e Lamy), nelle liberalizzazioni dei primi anni Ottanta. Di qui – per stare alla provincia italiana – la scelta di fondere in un partito «riformista», equidistante da capitale e lavoro, le maggiori forze politiche discendenti dai due partiti che nella prima Repubblica si combattevano sulla difesa o sul superamento del capitalismo. Di qui anche la ferma opzione del Pds e dei suoi eredi per il bipolarismo che, come insegna l’esperienza dei paesi anglosassoni, presuppone che entrambi i poli condividano le coordinate fondamentali della politica economica e sociale e cooperino per escludere le forze critiche dalle istituzioni rappresentative.
Ormai, dunque, sembrerebbe esserci una sola sinistra. Per ciò stesso costretta – parrebbe inevitabile dedurne – a far da sé, prendendo atto della distanza incolmabile che la separa da tutte le altre aree politiche. Invece le cose stanno esattamente all’opposto. Non perché non sia vero che nel Pd operano potenti spinte tese a trasformare il partito in una forza organicamente centrista, ma proprio per questo. La sinistra rischia effettivamente di ridursi alla sola ala «radicale». Ma, per paradossale che ciò possa apparire, proprio questa è la ragione per cui la strada del dialogo e dell’unità delle forze avverse al centrodestra è obbligata. Vediamo perché, partendo dalla configurazione delle forze politiche e dal loro rapporto con la società.
L’articolazione dei gruppi dirigenti è la fisiologia dei partiti, che sono sedi di confronto, non caserme in cui si canta all’unisono. Questo aspetto passa inosservato per via di una regressione. Dentro i partiti della prima Repubblica convivevano posizioni diverse. Da vent’anni a questa parte (grazie al bipolarismo e a leggi elettorali che avrebbero dovuto ridurre la frammentazione della rappresentanza e hanno invece accresciuto a dismisura le rendite di posizione delle micro formazioni) il confronto interno tende a degenerare nella rissa e ad essere risolto coercitivamente. Resta che – per fare un esempio – nel Pd si registrano posizioni diverse su questioni cruciali come le politiche sociali e del lavoro e le riforme istituzionali, posizioni tra le quali la segreteria è costretta a tentare difficili sintesi e che sono in parte molto vicine a quelle della sinistra.
La complessità riguarda soprattutto il rapporto tra i partiti e i settori sociali di riferimento. Qui veniamo al dunque. C’è ragione di ritenere che lo spazio sociale in cui la sinistra può e deve operare ecceda di molto quello oggi intercettato dall’insieme delle sue forze. Da vent’anni a questa parte la politica (non solo in Italia) è in crisi per un fatto strutturale. La tanto celebrata crisi delle ideologie è l’epifenomeno di una scissione profonda tra bisogni sociali e sistema della rappresentanza, di cui la crescita esponenziale dell’astensionismo e dell’antipolitica sono i sintomi più vistosi. Tra la domanda di rappresentanza di quello che in passato definivamo «popolo della sinistra» e l’offerta politica disponibile vi è uno scarto enorme. Il fatto che i partiti tentino di lucrare consenso attraverso leggi elettorali che producono quella aberrazione che va sotto il nome di «voto utile» (utile non perché risponda alle convinzioni dell’elettore, ma perché è verosimilmente in grado di contribuire all’elezione di un parlamentare purchessia) è la sanzione esplicita di tale stato di cose.
Ora, questa patologia va vista anche in positivo. Essa attesta l’esistenza di un vasto bacino elettorale in cerca di rappresentanza e con ciò dimostra che lo scenario è in movimento. Una delle caratteristiche salienti della transizione incompiuta verso la seconda Repubblica è l’immaturità delle forze politiche – in particolare di quelle che ambiscono a rappresentare il mondo del lavoro e le classi subalterne – che proprio per la profonda sfasatura tra la loro linea politica e gli interessi di gran parte del loro elettorato stentano a trovare una consistenza organica. A questo stato di cose si è cercato di far fronte mediante espedienti tecnici, rimuovendo la sostanza politica. È questa la ragion d’essere del bipolarismo, del presidenzialismo di fatto e di leggi elettorali che aumentano i poteri delle segreterie dei partiti. In non casuale sintonia col proliferare di dispositivi di disciplinamento del dissenso e del disagio, in questi ultimi vent’anni il sistema politico si è venuto strutturando come una prigione. Ciò nonostante, il sistema rimane disorganico e contraddittorio. E la situazione dinamica, suscettibile di sviluppi progressivi. Il caos, evidente, potrebbe essere produttivo, tanto più che proprio grazie alla crisi economica è dato registrare una grossa novità.
Come osservava qualche giorno fa Paul Krugman facendo quattro conti, questa crisi è un limpido esempio di lotta di classe. Non per caso le istituzioni politiche e finanziarie, braccio armato del capitale privato, sono in prima linea, a dimostrazione che non si usano metafore quando si afferma che è il capitale il vero detentore della sovranità. Naturalmente il class warfare del capitale contro il lavoro non è una novità. Nuovo è però il diffondersi della coscienza (certo, ancora embrionale) del fallimento storico del capitalismo. Sono sempre di più coloro che percepiscono la vocazione del capitalismo, dacché è padrone della scena in occidente, a produrre guerre, disoccupazione, disastri ecologici e miseria di massa, nonostante una vertiginosa crescita della produttività dei mezzi di produzione. Sono sempre più numerosi gli indignados di ogni età e provenienza, al di là di quanti scendono in piazza per manifestare. Sono sempre più vasti i settori sociali che intuiscono che il capitale è l’avversario: che divengono classe operaia, acquisendo una coscienza sovversiva. E sempre di più sono in Italia i delusi da un’opposizione che abbaia senza mai mordere e non di rado corre in soccorso della maggioranza. Che cos’altro dicono la vicenda dei referendum sull’acqua e i servizi pubblici locali e, più in generale, la popolarità del discorso dei beni comuni? Davvero non è difficile immaginare quale accoglienza incontrerebbe la proposta di una patrimoniale e di una seria riforma fiscale, del taglio delle spese militari e del ritiro dei militari italiani dall’Afghanistan, dell’introduzione di un salario sociale e di misure efficaci contro la precarietà del lavoro.
Se questo è vero, il problema cruciale per la sinistra oggi è stabilire una connessione con questi settori sociali ancora prigionieri del centrosinistra e tentare di organizzarne l’evasione di massa. Come? Evidentemente entrando nello spazio pubblico in cui il centrosinistra si muove, nella comunità linguistica in cui si dipana il suo discorso, nel codice della sua comunicazione, per scompigliarlo e disseminarvi le proprie idee. Si tratta di imporre un nuovo ordine al discorso politico che raggiunge il mondo del lavoro e le classi subalterne. O, se si vuole, di imporre un discorso di verità. Per difendere la propria credibilità i gruppi dirigenti del centrosinistra debbono “mentire” alla loro gente, recitando la parte del nemico del sistema. La forbice tra le cose dette e quelle fatte è un tallone d’Achille di cui la sinistra deve approfittare. Per questo la cosa più sbagliata che essa possa fare in questa situazione di crisi organica del sistema della rappresentanza sarebbe la chiusura identitaria su se stessa. Questo è il momento di unificare lotte e movimenti, contrastandone la corporativizzazione, e al tempo stesso di aprire un confronto a tutto campo con il centrosinistra, per far sì che il discorso «radicale» circoli per tutta l’area sociale coinvolgibile nella lotta contro le destre.
Ma tutto ciò riposa su un presupposto. Oggi, soprattutto in Italia, la sinistra è poca cosa anche per propri errori e responsabilità. Non appare credibile a tanta parte della sua gente perché in questi vent’anni ha continuato a dividersi. Il primo compito che essa ha dinanzi a sé è quindi l’uscita dall’attuale frammentazione, la costruzione di una grande unità della sinistra di alternativa. Questa sarebbe, a guardar bene, la vera riforma democratica della politica. Contro quei gruppi dirigenti che custodiscono le divisioni come base e garanzia delle proprie rendite di posizione.
Alberto Burgio
Claudio Grassi
(il manifesto, 29 settembre 2011)
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