di TONI NEGRI - uninomade -
Fino alla caduta dell’Unione Sovietica la leadership americana consistette nel combinare, prudentemente ma con continuità, le specificità nazionali dei paesi compresi nelle alleanze occidentali (e nella Nato soprattutto) e la continuità dell’imperialismo classico, raggruppandoli dentro un dispositivo di antagonismo con il mondo del “socialismo reale”. Dal 1989 in poi, crollato il mondo sovietico, allo hard power della potenza americana si è man mano sostituito il soft power dei mercati: la libertà dei commerci e la moneta hanno subordinato, in quanto strumenti di comando, il potere militare e di polizia internazionale – il potere finanziario e la gestione autoritaria dell’opinione pubblica hanno d’altra parte costituito il campo sul quale soprattutto si è esercitata la nuova impresa politica di sostegno alla politica dei mercati. Il neoliberalismo si è fortemente organizzato a livello globale, gestisce l’attuale crisi economica e sociale a proprio vantaggio avendo verosimilmente davanti a se un orizzonte radioso…. A meno di rotture rivoluzionarie, non essendo immaginabile una trasformazione democratica e pacifica degli attuali ordinamenti politici del neoliberalismo sull’orizzonte globale.
Di contro, al rafforzamento del sistema capitalistico nella forma neoliberale, lo sbandamento delle forze politiche della sinistra dopo ’89 è stato massiccio. Accanto alle forze dogmatiche che, nella fedeltà a forme ideologiche arcaiche, rinunciavano ad ogni comprensione della lotta di classe in un mondo profondamente rinnovato dalla globalizzazione e dalle trasformazioni del modo di produrre, si è creata allora una nuova corrente di pensiero e di azioni socialiste che, nel tentativo di mediare con la novità della situazione, l’hanno spinto invece fino a punte estreme di alleanza con il neoliberalismo.
I processi di unificazione del continente europeo e gli istituti nei quali viene sviluppandosi la discussione sulla costituzione europea, hanno costituito un luogo esemplare del vuoto e dell’impotenza politica della sinistra, sia di quella “terza via” blairiana (il cui orientamento si è presto identificato con le pulsioni più forti ad una strutturazione politica dell’Unione europea a carattere neoliberale) sia, al contrario, di quei gruppi che hanno nascosto, dietro il rifiuto dell’unità e dello sviluppo delle istituzioni europee, la loro incapacità di costruire una linea alternativa a quella neoliberale: ciò avrebbe significato mettere in discussione lo Stato-nazione, il diritto pubblico nazionale ed il sistema amministrativo della modernità capitalista. Il fallimento di queste forze, prese nel loro insieme, è stato gigantesco.
Se vogliamo procedere nella discussione, chiediamoci dunque quali siano le condizioni teoriche e politiche che possono permettere di riaprire una prospettiva di lotta sul realistico terreno della costruzione sovversiva di un’Europa unita. È una questione posta oggi dai movimenti che stanno imparando a lottare contro la crisi sul livello europeo.
II. In cosa consiste il capitalismo finanziario e/o biopolitico? Consiste nella sussunzione della società, anzi, della vita stessa, sotto il dominio del capitale, senza alcun residuo. Come si esercita il comando dei mercati sulla struttura della società, oggi? Non posso evidentemente fermarmi troppo su questo punto. Basta dire che il comando funziona attraverso un uso invasivo del controllo monetario, indirizzato all’accumulazione della rendita finanziaria. Essa riorganizza i rapporti produttivi e riproduttivi secondo schemi di approfondimento – talora di vera e propria restaurazione – di rapporti di sfruttamento. L’azione dei mercati finanziari privilegia (per la sua valorizzazione) le industrie della produzione dell’uomo per l’uomo, cioè il welfare, servizi produttivi metropolitani, ivi compresi quelli informatici, ecc. – e le industrie estrattive, energetiche, ecologiche e di agrobusiness. Si tratta di una nuova figura dell’“accumulazione originaria” nella quale l’appropriazione capitalista si applica allo sfruttamento del bios – umano e naturale – alla captazione del valore espresso da un’intera società. Una prima definizione di “comune” (così come proposto dai movimenti) sembra così esser stata qui formulata: nel rovesciamento di quel campo dello sfruttamento.
A noi interessa a studiare le contraddizioni che su quel terreno, spesso caotico, dell’attacco neoliberale, sono stati evidenziate dai movimenti. Sono contraddizioni difficilmente superabili, che il potere tende a trattenere in una governance eccezionale, in un governo di emergenza di lunga durata, per ristrutturare l’intera società. Ma osserviamo da subito la serie di paradossi che questa governance si trova ad agire.
a. Un primo paradosso riguarda la produzione e consiste nel fatto che il capitalismo finanziario rappresenta la forma più astratta e distaccata di comando nel momento stesso in cui concretamente investe la vita intera. La “reificazione” della vita e l’“alienazione” dei soggetti vengono imposte da un comando produttivo, sopra una forza-lavoro cognitiva, che sembra essere – in quanto comando finanziario – divenuto del tutto trascendente. Questa forza-lavoro cognitiva, obbligata a produrre plusvalore, proprio perché cognitiva, immateriale, creativa, non immediatamente consumabile, si rivela autonomamente produttiva. Trascendenza finanziaria contro autonomia cognitiva: ecco una prima contraddizione.
Essa si presenta in maniera piena quando si consideri che, essendo la produzione essenzialmente fondata sulla “cooperazione sociale” (sia informatica, sia nelle pratiche di cura, sia nei servizi, ecc.), la valorizzazione del capitale non si scontra più semplicemente con la massificazione del “capitale variabile” ma con la resistenza e l’autonomia di un proletariato che si è riappropriato di una “parte” del capitale fisso (presentandosi quindi, se volete, come “soggetto macchinico”) e di una continua “relativa” capacità di organizzare autonomamente le reti lavorative sociali.
b. Il secondo paradosso è quello della proprietà. La proprietà privata (quella che definiamo giuridicamente come tale) tende ad essere assoggettata sempre di più alle figure della rendita. La rendita nasce oggi essenzialmente da processi di circolazione monetaria che si effettuano nei servizi del capitale finanziario e/o in quelli del capitale immobiliare – oppure dai processi di valorizzazione che si realizzano nei servizi industriali.
Ora, quando i beni (privati) si presentano come servizi, quando la produzione capitalistica si valorizza essenzialmente attraverso i servizi, la proprietà privata sfuma le sue tradizionali caratteristiche di “possesso” e si rappresenta piuttosto come prodotto della cooperazione sociale che costituisce e rende produttivi i servizi. Come restituire alla proprietà privata quella funzione fondamentale (nell’ordinamento sociale) di cui il capitalismo ha bisogno? Quando la proprietà viene socializzandosi, come restituirle la qualità del comando privato?
Questo ci si chiede spesso e si risponde: sono i poteri pubblici che devono farlo. Ma, nelle società postindustriali, la mediazione pubblica dei rapporti di classe risulta sempre più difficile, perché la sovranità è stata privatizzata (patrimonializzata dal capitale finanziario) nella stessa misura nella quale la proprietà privata si è dissolta, si presenta cioè non più come possesso ma come uso di un servizio. Il “pubblico sovrano” non si scontra più con le corporazioni, i sindacati, le istanze collettive del lavoro (che d’altra parte si rappresentavano essi stessi come soggetti privati), ma con la cooperazione e la circolazione sociale di figure che si compongono e si ricompongono continuamente nella produzione materiale e nella produzione cognitiva: insomma, con quello che chiamiamo “comune”. Intendiamo qui dunque per “comune” il riconoscimento che la produzione oggi si realizza in maniera sempre più cooperativa: questa cooperazione è bensì direttamente comandata dal capitale finanziario ma è direttamente agita dalle nuove figure della forza-lavoro cognitiva – cioè da quelle medesime potenze sociali che un tempo chiamavamo “classe operaia”. C’è dunque una progressiva “patrimonializzazione privata” dei beni pubblici che, mentre distrugge l’istituto della pubblica proprietà, deve far valere l’ideologia della proprietà privata – e a questo combinato disposto seguono la messa in moto (a seguito di quella dissoluzione) di una deriva continua della gestione del pubblico nell’emergenza, lo scivolamento dell’emergenza nella corruzione, la distruzione del comune nel potere di eccezione.
Il pubblico sovrano si pone ormai solo in maniera paradossale e tende a dissolversi, a fronte del “comune” che emerge all’interno dei processi di produzione sociale e nella cooperazione valorizzante. Quel comune è piuttosto direttamente captato dai poteri finanziari, dal mercato globale: hic Rodhus, hic salta.
c. Il terzo paradosso è quello che il biocapitale verifica nel suo confronto con i corpi dei lavoratori. Qui lo scontro, la contraddizione, l’antagonismo si esprimono nel modo più evidente, perché il capitale (nella fase postindustriale, nell’epoca cioè in cui diviene egemone la produzione cognitiva) deve mettere direttamente in produzione i corpi umani, facendoli diventare macchine, non più semplicemente merce-lavoro. Ciò deriva dal fatto che (nei nuovi processi di produzione) sempre più efficacemente i corpi si sono specializzati ed hanno conquistato una relativa autonomia. Non a caso, attraverso la resistenza e le lotte della forza-lavoro macchinica, si sviluppa sempre più espressamente la richiesta di una produzione dell’uomo per l’uomo, cioè per la macchina vivente “uomo”. Su questo sviluppo si applica l sfruttamento del capitale finanziario.
In effetti, nel momento in cui il lavoratore si riappropria di una parte del “capitale fisso” e 1) si presenta, in maniera variabile, spesso caotica, come attore cooperante nei processi di valorizzazione, come “soggetto precario”, ma, d’altra parte, 2) come soggetto “autonomo” nella valorizzazione del capitale, si dà una completa inversione nella funzione del lavoro rispetto al capitale: il lavoratore non è più solo lo strumento che il capitale usa per conquistare la natura – che vuol dire banalmente produrre merci; ma il lavoratore, avendo incorporato lo strumento, essendosi metamorfosato dal punto di vista antropologico, riconquista “valore d’uso”, agisce “macchinicamente”, in un’alterità ed autonomia dal capitale, che tendono a divenire complete. Tra questa tendenza oggettiva e i dispositivi pratici di costituzione di questo lavoratore macchinico, si colloca una lotta di classe che ormai possiamo dire “biopolitica”.
Tutti e tre questi paradossi restano irrisolti nello sviluppo del capitale – si configurano anzi come contraddizioni accentuate dalla crisi. Di conseguenza, quanto più la resistenza diviene forte, tanto più diventa feroce il tentativo di restaurazione del comando da parte dello Stato (organo del capitale), tanto più decisivo diviene l’uso della violenza. Ogni resistenza viene quindi condannata come esercizio illegale di contropotere, ogni manifestazione di rivolta definita devastazione e saccheggio. Ulteriore effetto – ed ancora è pura mistificazione: nell’esercitare il massimo di violenza, il capitale ed il suo Stato devono mostrarsi come figura necessaria e neutra; il massimo della violenza è esercitato da strumenti e/o da organi “tecnici”. “Non c’è alternativa”, proclamava la Thatcher.
III. Se questa è la costituzione politica del presente, nella crisi e nel progetto neoliberale di una stabilizzazione, è evidente che nei movimenti di resistenza si esprimono indignazione, rifiuto e ribellione e viene formandosi il disegno di costruire nuove istituzioni che corrispondano alla potenza sociale della cooperazione produttiva. Ripercorriamo dunque i terreni sui quali abbiamo verificato paradossi e contraddizioni.
Ad a. Confrontandosi al “paradosso della produzione”, si tratta di ribadire vecchio punto del programma comunista – cioè quello dell’“autovalorizzazione” operaia e proletaria, riappropriandosi progressivamente, sempre più decisamente, del capitale fisso impiegato nei processi produttivi sociali, contro il moltiplicarsi delle operazioni di valorizzazione-cattura-privatizzazione che il capitale finanziaria sviluppa. Riappropriarsi del capitale fisso significa costruire “comune” – un comune organizzato contro l’appropriazione capitalista della vita, un comune come sviluppo di “usi” civici e politici e come capacità di gestione democratica ed autonoma, dal basso. Riconquista di sapere e di reddito sono obbiettivi che qualificano in maniera primaria il proletariato cognitivo – sono fin dall’inizio obbiettivi “politici”, tanto quanto lo era per il lavoratore industriale “la lotta contro la riduzione del salario relativo che significa” (lo ricordava Rosa Luxemburg) “lotta contro il carattere di merce della forza-lavoro, cioè contro la produzione capitalistica presa nel suo insieme. La lotta contro la caduta del salario relativo non è più una battaglia sul terreno dell’economia mercantile ma un attacco rivoluzionario alle fondamenta di questa economia; è il movimento socialista del proletariato”.
È in questa rubrica che vanno riprese, studiate, e ripetute le esperienze fatte, per esempio in Italia, nell’agitazione militante sui referendum per riappropriarsi e dare nuova figura giuridica ai “beni comuni”.
Ad b. Confrontandosi al “paradosso della proprietà”, cioè nell’andare contro/oltre la proprietà privata, urge nei movimenti la necessità di emergersi in quel contesto contradditorio di servizi e reti sociali che oggi strutturano la cooperazione produttiva. Qui il confronto pone subito il tema di muoversi “dentro e contro” le istituzioni del potere pubblico. Si incrociano qui due linee principali: la prima è quella che muove contro la inerte ma feroce mediazione repressiva dei poteri pubblici nei confronti delle lotte di riappropriazione; la seconda è la lotta che strategicamente investe il ruolo ed il potere della moneta.
Sul primo terreno, fondamentale è la capacità di rompere con la governance gestita in forme neoliberali – per es. dai governi tecnici. Che si tratti di pura mistificazione lo abbiamo già detto. Abbiamo tuttavia discusso molte volte se era possibile immaginare, negli scontri che i movimenti aprono attorno alla governance pubblica, l’aprirsi di una sorta di “dualismo di potere” ed il problema resta aperto – dubito però se ne possa decidere astrattamente, fuori dalle lotte. È su questo punto, proprio in relazione all’intensità delle lotte sull’uso del comune, che va lanciata la proposta di nuovi principi costituzionali, di nuovi diritti e di una nuova legalità: il comune, il reddito, il rifiuto del debito e l’insolvenza, la libertà di movimento, l’esercizio cooperativo del sapere, il commonfare, la riappropriazione della moneta – su questi temi ritorneremo in conclusione.
Veniamo poi al secondo tema, ad investire cioè con i movimenti, la questione della moneta. A tutti è chiaro che, se la moneta è mezzo di conto e di scambio difficilmente eliminabile, gli va tuttavia tolta la possibilità di essere strumento di strutturazione della divisione sociale del lavoro e di accumulazione del potere padronale contro i produttori. Alla Banca centrale va contestata l’indipendenza – la Banca va assoggettata alle necessità della “produzione dell’uomo per l’uomo” e sotto posta ad un disegno strategico di riconfigurazione comune degli assetti sociali biopolitici. Il problema non è tanto quello di separare le “banche di deposito” da quelle “di investimento”, quanto quello di dirigere risparmio ed investimento verso equilibri che garantiscano la produzione dell’uomo per l’uomo. Questa è battaglia politica che i movimenti più maturi hanno già ingaggiato. Essa consiste – questa volta senza resipiscenze ideologiche e senza indugi – nel contestare e sabotare la governance monetaria del biopotere, cioè nell’introdurre, ad ogni occasione possibile, claims e rotture dal basso. Bisogna cominciare a chiedersi che cosa sia una “moneta del comune” e sviluppare l’ipotesi che essa debba garantire riproduzione e la quantità di reddito necessario per ogni cittadino ed il sostegno alle forme di cooperazione che costituiscono la moltitudine produttiva.
Ad c. Torniamo ora sull’ultimo “paradosso”: quello “fra biocapitale e corpi” dei lavoratori. Qui la contraddizione è superabile solo eliminando il capitalista: questa dolorosa contraddizione nasce infatti dal fatto che il capitalista non può fare a meno di sfruttare il lavoratore se vuole costruire profitto e dal fatto che senza lavoro vivo non c’è possibilità di produzione né di ricchezza.
È dunque questo il terreno proprio della politica. Dalla parte del potere del capitale è il terreno della decisione sugli indecidibili, con l’incertezza che sempre lo scuote fra fascismo e democrazia.
Ma è anche il terreno costituente da parte dell’insieme dei corpi-macchina, singolari e potenti, nell’esercizio della lotta di classe. Per questi corpi far politica è costituire “istituzionalmente” la moltitudine, cioè strappare le singolarità alla solitudine ed situarle, istaurarle nella moltitudine, ovvero trasformare l’esperienza sociale della moltitudine in istituzione politica.
Perciò, i movimenti attuali, sempre più impetuosamente, chiedono anche di superare il modello costituzionale della modernità – sette-, otto- e novecentesco – dove il potere costituente veniva meno dopo aver concluso l’azione rivoluzionaria. Più realisticamente si afferma oggi che il potere costituente non possa essere chiuso nella ricostruzione dell’Uno del potere. Non si fanno rivolte per prendere il potere ma per tenere sempre aperto un processo dei contropoteri, sfidando i dispositivi di cattura sempre nuovi che la macchina capitalista produce. L’esperienza delle lotte ha insegnato che la rappresentanza politica sempre va in crisi perché (attratta nel meccanismo della sovranità, distillata nella puzzolente e magica alchimia elettorale) non regge il confronto con la verità e la ricchezza sempre rinnovate della composizione sociale della classe lavoratrice.
Tutti i movimenti a partire dalla primavera 2011 vogliono una “controdemocrazia” conflittuale, che viva di rivendicazioni e protesta, di resistenza e di indignazione – basta con il costituzionalismo “normativo”! Essi pongono l’esigenza di costituzioni democratiche biopolitiche che non si trasformano in macchine oppressive attraverso il filtro della legalità e della formalità giuridica – ma si svolgono attraverso investimenti di “denaro comune”, rivolti al continuo riequilibrio dei rapporti sociali, ponendo i poveri al posto dei ricchi, e creando una vita costruita dall’uomo al servizio dell’uomo.
Occorre qui affermare chiaramente che, alla faccia di tutti i Nobel dell’economia, anche una produttività crescente è solo frutto di una società uguale e libera. Di una società del “rifiuto del lavoro”.
IV. Quanto più la crisi avanza e i movimenti maturano, tanto più si avverte che qualche cosa di decisivo è avvenuto nelle coscienze dei lavoratori. È banale dichiarare che “il ‘900 è finito”, soprattutto quando questa frase è detta per cancellare il ricordo delle formidabili esperienze di lotta operaia e i giganteschi tentativi di costruire una nuova società che nel ‘900 si sono realizzati. Ma il fatto che questi tentativi siano stati sconfitti (non in un giorno ma in un secolo, appunto) non significa per nulla che il loro potenziale sia esaurito. Anzi: la “vecchia talpa” ha continuato a scavare la sua speranza. Recuperare l’esperienza socialista? Sì – se la inseriamo tuttavia in una nuova teoria, in una nuova strategia… È quello che stanno facendo i nuovi movimenti.
Riconcentriamo allora la nostra attenzione su quanto avviene nei movimenti che si battono nella crisi contro la crisi. È così operando che ci potremo chiedere come studiare i processi di soggettivazione che in questa condizione si danno, e quali siano le condizioni favorevoli o ostruttive che permettono o bloccano una politica del comune.
Ora, in primo luogo, risultano senz’altro ostruttivi i richiami alle riforme costituzionali che vengono proposte sul livello europeo; quello che ci interessa qui – e che interessa i nuovi movimenti – è piuttosto considerare le azioni politiche che si possono condurre per favorire processi di soggettivazione adeguati ad un nuovo disegno sovversivo e comunista.
Guardando ai movimenti, dunque, un primo gruppo di iniziative può essere raccolto sotto la sigla: insolvenza. Contro il debito, a favore del reddito di cittadinanza, le lotte riprendono quelle vecchie sul salario relativo e divengono lotte rivoluzionarie perché mettono in questione la misura del lavoro. Sempre su questo terreno sono poi in corso esperimenti e tentativi di costruire una teoria ed una pratica dello “sciopero precario”: di comprendere cioè quali siano le lotte che “fanno male” al padrone nella nuova condizione dello sfruttamento sociale, a partire dalla condizione di precariato imposta ai lavoratori. Le lotte che riconquistano spazi, piazze, teatri, centri sociali, squat, ecc. entrano dentro questo quadro. Ma soprattutto vi entrano quelle iniziative che riescono a riappropriarsi e/o “mutualizzare” in forma alternativa la gestione di nodi di welfare, dell’educazione, di politiche dell’abitazione, ecc.. In questo caso, si lotta attorno al salario diretto e/o indiretto dei lavoratori, integrandone non solo la quantità monetaria ma anche la qualità sociale.
Destituzioni. È questo il secondo terreno sul quale si muovono oggi le lotte. Il primo punto consiste nel cercare di destituire le filiere del comando capitalistico. Nel neoliberalismo, il caos sociale e giuridico è considerato normale. Assumerlo, trasformando la governance da momento di litigiosità in momento di “contropotere”, è compito di ogni forza di opposizione al neoliberalismo. Abbiamo avuto in America latina esempi di movimenti rivoluzionari (operai e/o indigeni) che per lungo tempo hanno costruito ed imposto l’agenda dei governi. Non sarà facile in Europa ripetere questa esperienza ma si tratta di provare, senza illudersi che questa capacità di rottura possa consolidarsi in un meccanismo stabile di contropotere. In questo caso, l’effetto destituente è ancora preminente rispetto a quello costituente.
Taluni obiettano: questi movimenti sono inutili e talora dannosi, perché riots e tumulti non creano istituzione? Questi discorsi risultano oziosi, quando non siano provocatori se ritengono implicitamente la dimostrazione che riots e tumulti non possono creare istituzione: per ora non lo fanno – ribattiamo – perché l’effetto destituente è ancora propedeutico e principale.
Sempre su questo terreno di attività destituente, c’è un altro ambito di lotta che i movimenti percorrono – esso consiste nell’azione contro le strutture costituzionali del biopotere capitalistico. Il tema è quello – in questo caso – dello sviluppo di un potere costituente democratico, di massa, moltitudinario.
Questi terreni di ricerca e di lotta sono stati soprattutto identificatoi sul livello metropolitano. Laddove un tempo era la fabbrica che centralizzava l’organizzazione del lavoro, oggi è la metropoli che centralizza le reti di cooperazione del lavoro (cognitivo e non) e che attraverso gli incontri eleva il grado di tensione e di fusione della produzione e della lotta. Sul terreno metropolitano sempre di più stanno quindi organizzandosi luoghi di incontro, di militanza, e di organizzazione del lavoro materiale e del lavoro immateriale, del lavoro e del non-lavoro, della cultura e delle culture (con i migranti) – luoghi di organizzazione di lotte, di riappropriazione dei prodotti del “General Intellect”. È possibile cominciare a costruire istituti di autogoverno che attivino forme di nuova “mutualità” e di tutela sociale contro gli effetti più violenti della crisi? In molti casi lo è stato. E ancora: accanto a questi elementi di apertura che possiamo definire “intensiva” (rivolta cioè verso l’interno del tessuto sociale) va sperimentato un dispositivo “espansivo”, insomma un dispositivo di estesa apertura. Solo l’aggancio e la concatenazione fra le mobilitazioni in diversi paesi europei può determinare la soluzione di continuità delle politiche di crisi che oggi stiamo sperimentando.
Comunalizzazioni. Qui cominciano a giocare le iniziative costituenti. In Italia, per esempio, i movimenti ci hanno provato. Dal pubblico al comune: il cammino è quello di affermare il diritto di “accesso al comune”, di realizzare quel desiderio di comune che ormai abita nel cuore dei lavoratori. Ed infine, comunalizzare significa costruire nuove istituzioni del comune ed in particolare quella “moneta del comune” che permetterà ai cittadini di produrre in libertà e nel rispetto della solidarietà.
Da quanto fin qui detto, appare chiara un’alternativa: da un lato c’è il bio-valore captato (estratto) dal capitale su tutta la società; e quindi c’è la sua forma monetaria, la sua strutturazione funzionale allo sfruttamento della società intera. D’altro lato, che cosa significa, a questa altezza, costruire alternativa rivoluzionaria? Significa liberare la potenza della forza-lavoro dal dominio capitalistico, imporre l’uguaglianza come condizione di libertà.
Ponendo queste questioni, ed essenzialmente quella attorno alla moneta, siamo ritornati alla domanda che c’eravamo posti all’inizio: che fare nei confronti dell’Europa? Meglio: come si muovono i movimenti nei confronti dell’Unione europea? È chiaro che il terreno dell’unità europea è necessario ed irreversibile. Nella globalizzazione è impercorribile un cammino politico che non abbia dimensioni continentali. Talora non sembra che i movimenti lo abbiano compreso. È necessario dunque costruire nuovi modelli di solidarietà e nuovi progetti di collegamento che sappiano negoziare le differenze tra le geografie frastagliate non solo fra i vecchi stati-nazione, ma anche fra le diverse storie dei movimenti attuali. Lo richiede l’urgenza delle lotte, soprattutto quando il tema costituente va posto in maniera centrale. Per riempire quest’agenda, occorre sviluppare una ricerca continua e convergente, evitando le scadenze istituzionali europee e le campagne elettorali che ci vengono continuamente riproposte. Probabilmente il punto centrale di discussione consiste nel proporre un’azione contro la BCE, consapevoli che essa rinnova il Palazzo d’inverno nell’Europa di oggi.
* Intervento a una conferenza a Saint Denis – 18 gennaio 2013.
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