Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

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venerdì 11 gennaio 2013

"Se anche la parola riformismo viene usata in modo disonesto"

Fonte: liberazione | Autore: angelo d'orsi
          
Di “manomissione delle parole” si sta parlando da qualche tempo: ricordo un recente libro di Gianrico Carofiglio a cura di Margherita Losacco così intitolato, per esempio. Ma io stesso ne ho variamente discorso in saggi e articoli, tanto evidente e insieme sfrontato il fenomeno, entrato in fase acuta a partire dal passaggio tra gli anni ’80 e ’90, e accentuato con la dissoluzione del PCI e la famigerata “discesa in campo” del Cavaliere. Il crollo del Muro, innescò la corsa verso le nuove mirabolanti mete del liberalismo, identificato semplicisticamente col liberismo. Berlusconi cominciò disinvoltamente a rovesciare il senso delle parole, nel vortice della sua azione dirompente, davanti alla quale i suoi avversari usarono il suo stesso lessico: e fu una corsa forsennata verso l’abisso politico, nel quale vennero triturati i concetti, sviliti i valori, manomesse, appunto, le parole.
Il termine chiave, in tale contesto fu “riforme” con i suoi derivati riformismo e riformista. Peraltro il contesto era europeo: riformisti divennero gli anticomunisti, chiamati anche “democratici”, o “liberali”. Riformisti furono dal 1989 in poi tutti coloro che volevano sia riformare il sistema socialista, sia, prevalentemente, coloro che semplicemente intendevano cancellare il socialismo, e le sue realizzazioni a favore delle classi proletarie.
Ma da dove deriva il termine? Di origine religiosa (nasce nell’ambito del dibattito e poi dello scontro suscitato dalla “Riforma” di Lutero, nel XVI secolo), trasmigrò verso l’universo politico nel Settecento (alludendo soprattutto a un riformismo cosiddetto “dall’alto”, da parte di capi politici che volevano in qualche modo prevenire eventi rivoluzionari, concedendo qualcosa ai ceti popolari). La Bastiglia, la madre di tutte le rivoluzioni, il 14 luglio 1789, fece comprendere che chi stava in basso non poteva accontentarsi delle briciole offerte da chi dominava. Fu però soprattutto tra fine Ottocento e i primi anni Venti del sec. XX che il dibattito fra riformisti e rivoluzionari divenne intenso.
Già nel 1899, riprendendo un testo di Engels del 1895 (l’anno stesso in cui il grande sodale di Marx morì), che aveva sostenuto che sarebbe stato possibile giungere al socialismo, anche attraverso le vie parlamentari, Eduard Bernstein avviò la stagione del “revisionismo marxista”, identificandolo nel riformismo politico: egli proclamò che per lui “il fine non era nulla”, mentre “il movimento tutto”. Ossia, non aveva intenzione di attendere che spuntasse il “sol dell’avvenire”, la società socialista, ma gli interessava migliorare subito le condizioni di vita e lavoro delle classi proletarie. Gli replicarono gli “ortodossi”, ossia coloro che erano convinti che la rottura rivoluzionaria fosse inevitabile: il dibattito divenne via via più infuocato, con scambi di accuse reciproche. Il riformismo, imbevuto della cultura del positivismo, dell’idea che le società potessero avere una naturale evoluzione proprio come gli organismi viventi, significò evoluzionismo, ossia gradualismo: si potevano ottenere risultati importanti per i ceti subalterni con la politica dei piccoli passi, con riforme, con cambiamenti graduali. Principio respinto dai marxisti fedeli all’analisi di Marx.
Ciononostante a lungo riformisti e rivoluzionari furono uniti dal punto d’arrivo: il socialismo. La discussione divenne scontro, e si arrivò a scissioni a catena nel movimento socialista.
Eppure, a guardare indietro, anche i riformisti più incalliti ci appaiono portatori di grandi visioni, oltre che perlopiù di una nobiltà d’animo ammirevole. Volevano davvero il “riscatto degli umili” come allora usava dire.
Il riformismo visse in Italia una nuova importante stagione con il primo Centrosinistra, tra la fine anni ’50 e la fine dei ’60 del Novecento. Figure come Giacomo Brodolini (a cui si deve lo Statuto dei Lavoratori) o Fernando Santi, per citarne solo due, brillano tuttora come stelle ahinoi dimenticate nel firmamento della politica dalla parte dei subalterni.
Oggi la parola riformismo appare non solo stravolta ma disonestamente usata, eppure tranquillamente accolta nella discussione pubblica. E non si contrappone più a rivoluzionarismo (ogni lemma legato alla parola maledetta “rivoluzione” è pressoché scomparso dalla comunicazione politica, e ringraziamo De Magistris e Ingroia per averla reintrodotta con il bell’attributo “civile”, altrimenti sarebbe appalto della sedicente “rivoluzione delle camicie verdi”, che richiama tanto la “rivoluzione delle camicie nere” di 90 anni fa…). Riformista si proclama Bersani, ma anche Monti; riformista continua a sbraitare di essere il solito Berlusconi. E ultrariformisti sono quei bei tomi dei leghisti “padani”. I quali, tanto per dire, oggi non esitano a invocare come “riforma” la reintroduzione della gabbie salariali cancellate proprio da Brodolini negli anni Sessanta!
Oggi, insomma, il riformismo è una grottesca bandiera della destra. Sono circa tre decenni del resto che la destra è “in movimento”, è all’attacco: la sinistra dunque è schiacciata nell’alveo del “conservatorismo” : invece di farsi trascinare nella corsa verso il “novitismo” dei sedicenti riformisti, ci si può attestare sulla barricata della difesa dei valori e dei beni pubblici, dalla Costituzione, alla Scuola, al paesaggio, ai diritti del lavoro, dei migranti e così via. E da quella barricata ripartire con un’azione incisiva, a tutto campo, senza paura delle etichette. Ci chiamano conservatori? Ebbene sia! A chi usa quest’accusa, replichiamo che esiste un conservatorismo degli interessi (di cui oggi Monti e Berlusconi sono rappresentanti diversi, ma uniti, con pericolosi cedimenti in quella direzione del PD), e un conservatorismo dei valori: noi dobbiamo essere gli alfieri di questo conservatorismo, e metterlo in movimento, trasformandolo in principio guida di un’azione che ridia dignità alla sinistra e un progetto politico e sociale al Paese.

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