di Riccardo Achilli - bandierarossa -
Un giudizio costituzionale aggrovigliatoMentre l’attenzione del Paese è, come al solito, distratta da pinzillacchere varie, come ad esempio il risultato rugbistico delle amministrative, o le beghe da telenovela (perché prive di analisi politica e caratterizzate da un elevato tasso di sceneggiata napoletana) dentro il M5S, altrove, cioè a Karlsruhe, Germania, si sta consumando qualcosa di importante. La Corte Costituzionale tedesca è infatti chiamata a decidere della costituzionalità della partecipazione tedesca all’Omt, il meccanismo di acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario ideato da Mario Draghi per calmierare il galoppo dei rendimenti del debito pubblico dei PIIGS. Il nocciolo della questione giuridica è che un eventuale default della Bce, costretta ad acquistare titoli pubblici dei Paesi in difficoltà, difficilmente rivendibili sul mercato, costringerebbe la Germania a coprire una parte delle perdite, e ciò potrebbe, ipoteticamente, mettere sotto tensione l’obbligo costituzionale di pareggio del bilancio federale. E’ del tutto evidente che l’arzigogolata motivazione giuridica del ricorso contro l’Omt presso i giudici costituzionali tedeschi poggia su basi quantomeno precarie. Si chiede infatti alla Corte di giudicare su un’eventualità teorica, resa ancor più teorica dal fatto che l’Omt, in realtà, non è mai stato attivato, pur essendo stato annunciato, e non si conoscono nemmeno i dettagli di funzionamento di tale meccanismo. Ed anche se tale eventualità si realizzasse, non è detto che ciò condurrebbe ad un deficit di bilancio federale. Numerose soluzioni potrebbero essere ideate per fare fronte ad un teorico buco nel bilancio della Bce.
E’ quindi evidente che la questione è tutta politica. Ed è uno scontro politico, acuito dall’imminenza delle elezioni, in cui, da un lato, milita l’attuale maggioranza di centro-destra, in un certo senso “prigioniera” della sua fede europeista, dopo averla utilizzata, essenzialmente, per scaricare la crisi dei debiti sovrani sui Paesi debitori, preservando, fino ad ora, l’economia tedesca ed il suo sistema bancario dai relativi contraccolpi. Tale fede, infatti, non è stata spesa per promuovere una convergenza dell’area-euro verso i parametri tipici di un’area valutaria ottimale (o quantomeno sostenibile) visto che di questioni fondamentali come l’unificazione fiscale e politica, una maggior coordinazione delle legislazioni nazionali sul lavoro ed il welfare, l’espansione della domanda interna tedesca per riequilibrare gli scompensi delle bilance commerciali, non si è parlato mai, e persino sull’unione bancaria la Germania è ancora reticente, per timore che il suo sistema creditizio, largamente utilizzato per portare “fuori bilancio” ampie quote di debito pubblico federale, venga allineato alle ben più severe regole vigenti per i Paesi PIIGS. Il centrodestra tedesco sarebbe ben contento di sganciarsi dal suo connotato europeista, ora che parte del suo elettorato di riferimento è attratta dalle sirene antieuropeiste di Alternative für Deutschland. Ma per l’elettorato tedesco la coerenza è un valore, e la Merkel e Schaeuble sono costretti a vestire gli scomodi panni dei difensori di un programma di espansione monetaria come quello ideato da Draghi. Che peraltro, con la sua penosa (e fondamentalmente inutile) intervista ad una radio tedesca, per difendere il suo operato agli occhi dell’opinione pubblica germanica, rivela in modo solare come la presunta “indipendenza” della Bce valga solo per alcuni, e non per tutti i partecipanti al gioco.
Le “ragioni” dei conservatori tedeschi anti-euro
Sull’altro lato della barricata, si trova la destra antieuropeista tedesca, guidata dalla Bundesbank, che si fa portatrice del più egoistico concetto di interesse nazionale che mai si possa immaginare. Il ragionamento di questa destra è il seguente: “l’euro ci è servito per cancellare la possibilità delle svalutazioni competitive da parte delle economie mediterranee nostre concorrenti (in primis l’Italia) costringendole a un deflazione interna per recuperare competitività, esigenza che in fondo la crisi ha accelerato, e ciò ha portato, fondamentalmente, ad una destrutturazione del loro apparato produttivo ed a una crisi talmente profonda che per decenni non potranno più essere considerati nostri competitor. L’euro ha anche consentito al nostro sistema bancario/industriale, fortemente interconnesso da legami di controllo, di fare buoni affari con il debito pubblico dei Paesi PIIGS, negli anni precedenti alla crisi, alimentando una prosperità artificiosa che spesso ha creato mercato per le nostre stesse merci (tipico il caso greco, che con debito pubblico acquistato anche da banche tedesche, comprava armamenti germanici per il suo esercito).
Adesso però l’euro ha cessato di essere un buon affare per noi, perché rischia di trascinarci nel gorgo della crisi dei PIIGS. Il costo che le finanze pubbliche federali dovranno sostenere per tenere in piedi strumenti di aiuto ai Paesi in difficoltà, come l’ESM, di cui siamo i principali contributori (sinora, la Germania ha versato ben 190 miliardi di euro al capitale dell’ESM) potrebbe crescere ulteriormente: a solo titolo di esempio, la bolla del sistema creditizio spagnolo sta crescendo. Secondo i dati ufficiali della Banca di Spagna, il sistema creditizio nazionale ha accumulato una perdita di esercizio consolidata di circa 53 miliardi di euro nel 2012, che si va ad affiancare a una riduzione del 3,6% del patrimonio netto, ed a prospettive inquietanti, legate ad una crescita i quasi il 19% dei prestiti di difficile rimborso. Anche sul versante pubblico, le cure di austerità stanno inducendo un continuo aumento del debito pubblico nazionale dei PIIGS: il rapporto debito pubblico/PIL italiano, ad esempio, è volato al 127% nel 2012, dal 120,8% del 2011, e le previsioni parlano del 130% per il 2013. Evidentemente quanto già pagato dalla Germania per difendere la tenuta dell’area-euro, sotto forma di contribuzione al bilancio europeo, all’ESM, di haircut subito dalle banche tedesche sul debito pubblico greco, è largamente insufficiente rispetto a ciò che si dovrà pagare in futuro, probabilmente rendendo necessaria la mutualizzazione del debito pubblico europeo, portandoci, come tedeschi, dall’82% di rapporto debito/PIL attuale al 91% dell’area-euro complessiva, e larghi programmi di salvataggio di banche spagnole al limite del tracollo. Il che implicherebbe di fatto la nostra compartecipazione al salvataggio dei Paesi in crisi, con un abbassamento della nostra crescita e del nostro tenore di vita.
E d’altra parte, la compartecipazione all’area-euro ci imporrà fin da subito pesanti manovre finanziarie restrittive, sin da dopo le elezioni autunnali (non è un mistero, oramai, che la Merkel abbia progettato una pesante finanziaria, nell’ipotesi di sua rielezione, per la fine del 2013) perché il rallentamento della crescita economica mette i conti pubblici tedeschi sotto tensione, ed occorre ovviamente dare il buon esempio ai Paesi indebitati, accettando noi stessi una stretta di austerity. Inoltre, se i negoziati per l’unione bancaria andranno a buon fine, dovremo accettare regole più restrittive per le nostre banche a controllo pubblico, che oggi gestiscono “fuori bilancio” una quota non piccola del debito pubblico federale.
Se invece usciamo oggi dall’euro, tali contraccolpi negativi non si verificheranno, e d’altra parte anche sotto il profilo commerciale, già oggi, ed ancora più domani, grazie alla raffica di accordi commerciali appena stipulati, il nostro partner commerciale di riferimento sarà la Cina, e non l’area-euro. Già oggi la Cina assorbe più del 6% dell’export tedesco, ed ha superato, per importanza, mercati in crisi come quello italiano (5% dell’export tedesco) e quello spagnolo (che oramai vale meno del 3%). Senza parlare di quote oramai vicine allo zero per i mercati degli altri PIIGS, come Portogallo o Grecia”.
Queste considerazioni sull’interesse economico nazionale tedesco sono, purtroppo per noi, piuttosto robuste, e non a caso non provengono da ambienti di estrema sinistra, ma da componenti della borghesia tedesca (i leader di Alternative für Deutschland sono l’ex capo della Confindustria tedesca, un professore universitario di idee liberali proveniente dalla Cdu, oltre che un ex giornalista di periodici di orientamento conservatore come il FAZ ed una imprenditrice, mentre una parte rilevante del gruppo dirigente proviene direttamente dalla Cdu). E’ chiaro che aver costruito l’autobus dell’euro ha portato vantaggi all’economia tedesca ed a quelle nordiche ad essa collegate, ed è ovvio che oggi, invece, si esamini la convenienza di scendere dall’autobus, prima che questo finisca in un burrone di austerità, recessione e crescita indefinita del costo per tenere in piedi un’area valutaria assolutamente sub-sub-sub-ottimale, che non funziona, non funziona proprio. Certo, il verdetto della Corte Costituzionale tedesca, per l’infimo valore giuridico del ricorso, sarà presumibilmente simile a quello già prodotto per l’ESM (una sostanziale approvazione, sottoposta ad alcuni vincoli per il legislatore tedesco) e probabilmente la tornata elettorale di autunno vedrà la vittoria del blocco “imprigionato nell’europeismo”, che va dalla Cdu ad una incerta ed evanescente Spd. Ma prima o poi l’Europa dovrà fare i conti con questo interesse economico tedesco.
D’altra parte, una fuoriuscita unilaterale della Germania e della sua corona di Paesi ad alto equilibrio finanziario, con l’area euromediterranea agganciata entro margini di oscillazione al ripristinato marco, servirebbe, anche in una logica di politica estera, a garantire la prosecuzione di una egemonia politica tedesca sul continente, ed a garantire alla Germania il mantenimento di quel margine di autonomia politica, che la Merkel sta spendendo, ad esempio costruendo relazioni privilegiate sempre più forti con la Cina ed altri Paesi emergenti, insidiando in qualche modo anche la leadership politica mondiale degli USA. Paradossalmente, con una eventuale fuoriuscita e ritorno al marco, buttando a mare i Paesi deboli, la Germania godrebbe di una leadership monetaria globale superiore rispetto a quella di cui gode stando dentro l’euro. E sarebbe anche in grado di imporre agli USA un processo di rientro dall’enorme deficit delle partite correnti statunitensi meno penalizzante per le sue controparti, Germania in primis.
I rischi di una uscita dall’euro per la Germania
Ovviamente tale scenario di uscita unilaterale non è scevro da rischi, per la Germania stessa. Conviene veramente ai tedeschi ritrovarsi circondati da una corona euromediterranea di Paesi ridotti alla fame, dove sentimenti antigermanici si combinerebbero con pressioni migratorie sui confini dell’Europa “ricca”, e dove l’uscita dall’euro sarebbe, con ogni probabilità, la premessa per la fine del mercato comune, di cui però la Germania ha ancora bisogno, soprattutto in una logica di impoverimento progressivo dei Paesi euromediterranei, che potrebbero così divenire, in prospettiva, la destinazione elettiva di delocalizzazioni produttive dell’industria tedesca, alla ricerca di bassi salari, ma anche serbatoi dai quali attingere un capitale umano qualificato ed a basso costo?
Personalmente, credo di no. Ed è per questo che ritengo che, pur con tutti gli argomenti a favore di una uscita dall’euro sopra esposti, e pur contro la spinta generata da una componente consistente della sua borghesia, la Germania cercherà di salvaguardare l’euro così com’è oggi, tentando di diluire il costo di difendere un assetto evidentemente strutturalmente indifendibile, sia continuando a scaricarlo soprattutto sui Paesi iper-indebitati, come sta facendo già dal 2010, sia cercando di introdurre micro-correttivi alle politiche di austerity assoluta sin qui seguite, che ovviamente, in un quadro ancora dominato dal fiscal compact, non produrranno alcuna ripresa, ma solo una piccola stabilizzazione, in direzione della stagnazione, del ciclo economico, al fine di moderare le tensioni sociali, rendendole, entro certi limiti, più controllabili. Le classi politiche dei PIIGS verranno indotte, da un lato, a rafforzare il controllo sociale e la repressione, e dall’altro a esaltare in modo spropositato gli effetti modestissimi dei piccoli aggiustamenti anticiclici che verranno concessi, in cambio del mantenimento della loro posizione di potere, garantito dall’ombrello europeo, in funzione di “contenimento” dei partiti e dei movimenti anti-euro, che inevitabilmente, nei PIIGS, finiscono per diventare partiti e movimenti ostili alle classi politiche nazionali. Tali classi politiche dei PIIGS finiscono quindi per ritrovarsi legate alla logica dell’euro da un vincolo di sopravvivenza reciproca (simul stabunt, simul cadent). Il tutto sarà poi, probabilmente, completato dall’accompagnamento all’uscita, molto progressivo e morbido, per non alimentare i movimenti anti-euro nei Paesi che debbono invece restare dentro, di Paesi le cui economie sono oramai definitivamente in default, come ad esempio la Grecia, che non possono quindi dare più niente.
L’interesse nazionale italiano
In questo quadro, quale sarebbe l’interesse nazionale italiano? E’ difficile a questo punto identificare una linea politica strategica, con la nostra economia semidistrutta, con una classe politica assolutamente indisponibile ad avviare un sia pur minimo percorso di costruzione di un fronte euromediterraneo anti-austerity (e con chi, poi? Con governi di centro-destra come quello spagnolo, quello portoghese e quello greco, che fanno dell’austerity una base ideologica?) e fondamentalmente priva di un pensiero critico sull’Europa, vista esclusivamente come ciambella di salvataggio per le loro poltrone, contro l’emergere di movimenti euroscettici.
Naturalmente, chi, nel nostro Paese, ha fatto della fine dell’euro una sorta di acritica bandiera, senza sentire il dovere di spiegare quando, come, in che tempi, e per quale alternativa, si possa uscire dalla moneta comune, potrebbe gioire di una uscita unilaterale della Germania dall’euro, però in breve tempo tutto ciò si rivelerebbe soltanto una vittoria di Pirro. La fuoriuscita unilaterale della Germania e dei Paesi nordici più competitivi (che, a mio avviso in modo irresponsabile, anche Bagnai sembra caldeggiare, nel suo recente Manifesto, scritto con Borghi e Sapir) non costruirà affatto un euro del Sud in grado di fare svalutazioni competitive. Perché la Germania non lo permetterà. Economisti mainstream del liberismo tedesco, come Sinn, parlano chiaramente di cambi semirigidi entro soglie di oscillazione, in caso di uscita dall’euro. E d’altra parte non potrebbe essere altrimenti. Una fuoriuscita dei Paesi più competitivi, in una condizione di libera oscillazione del cambio, consegnerebbe un euro che non si svaluterebbe di quel 20-30% necessario per recuperare competitività. Ma consegnerebbe un euro rappresentativo di Paesi deboli e poco credibili sui mercati, che farebbe la fine del peso argentino dopo il superamento della convertibilidad: una perdita del 40%, come minimo. Che infiammerebbe l’inflazione, e renderebbe impossibile, alla neonata banca centrale “euromediterranea”, impostare una regola di politica monetaria credibile, che come noto deve essere basata sulla sua stabilità e prevedibilità nel tempo: stringere per combattere la fiammata inflazionistica, oppure lasciare spazi per alimentare la ripresa economica di Paesi in ginocchio? Si sono interrogati gli autori del succitato Manifesto su quale credibilità, sui mercati, avrebbe un euro privato dell’egemonia tedesca e delle relative garanzie, ed in cui il Paese finanziariamente più sano sarebbe la Francia, in caduta libera verso una crisi industriale e finanziaria gravissima?
Evidentemente, l’interesse nazionale non risiederebbe in una forsennata corsa all’uscita dall’euro, ma in una linea politica flessibile, che, da un lato, eviti di alimentare, nell’opinione pubblica tedesca, la visione miope dei vantaggi di breve periodo connessi al ritorno al marco, favorendo quindi un precipitare della situazione che, come detto, sarebbe disastroso per noi stessi. Ciò significa continuare sulla linea della ristrutturazione della spesa pubblica improduttiva, ovvero di quella corrente legata al mero funzionamento dell’apparato burocratico, su cui ci sono ancora margini di risparmio (si pensi soltanto al risparmio conseguibile se tutti gli edifici pubblici fossero ristrutturati in termini di efficienza energetica; una stima effettuata nel 2011 da ENEA consente di ritenere che simili interventi condurrebbero ad un risparmio del 23% sui consumi energetici degli uffici pubblici ,e del 33,4% su quelli delle scuole) e della dismissione di quella ancora larga parte del patrimonio demaniale e immobiliare dello Stato inutilizzato, o inutilizzabile, e privo di vincoli storico/artistici o ambientali.
D’altro lato, però, tale linea dovrebbe anche puntare ad utilizzare l’esigenza tedesca, di tipo strategico, di mantenere in piedi forme di integrazione europea, utilizzandola come leva (anche minacciando esplicitamente la fuoriuscita, se non vi fossero spazi negoziali disponibili) per indurre la Germania ad un approccio più flessibile:
- Sull’esigenza di una reale inversione di tendenza della linea di politica economica, ben al di là dei pannicelli caldi come lo “Youth Guarantee”, scorporando gli investimenti pubblici materiali ed immateriali (scuola e formazione professionale comprese) e quelli per politiche attive del lavoro dal calcolo del deficit, impostando una politica industriale di respiro realmente europeo, che sia dotata di strumenti efficaci, e non di un approccio che vede un ruolo salvifico nelle liberalizzazioni, che a quanto pare affascina molto anche il Pse (ivi compresa la formazione di campioni pubblici transnazionali nei settori strategici) e che punti al sostegno delle PMI in una chiave di aggregazione e cooperazione di rete e di innovazione tecnologica;
- Su una revisione completa del sistema di welfare, introducendo strumenti universalistici di sostegno al reddito associati a efficaci percorsi di orientamento professionale, finanziato in parte dall’eliminazione degli strumenti di assistenza preesistenti, in parte dalla riduzione di spese inutili, nel comparto della difesa, o ancora tassando maggiormente le rendite improduttive o le transazioni finanziarie di tipo speculativo, potenziando lo strumento cooperativo, ad esempio facilitando fiscalmente, e con specifici accordi con i creditori garantiti dalla Ue, i lavoratori ce rilevano le proprie imprese in crisi per rilanciarle;
- Su un rilancio dell’economia reale ai danni di quella finanziaria, separando le attività commerciali e speculative delle banche, regolamentando in modo più severo a livello europeo le attività basate su derivati o altri titoli tossici, o pratiche finanziarie pericolose (transazioni over the counter, vendite naked, ecc.) realizzando una banca pubblica europea che, sul modello della Kfw, finanzi progetti di sviluppo in via diretta, emettendo, a copertura, obbligazioni non computate nel debito pubblico europeo ed appoggiate al rating del bilancio comunitario (facendo quindi evolvere il ruolo dell’attuale Bei);
- Su un deciso spostamento della tassazione dai fattori produttivi al patrimonio;
- Sull’omogeneizzazione della domanda aggregata a livello europeo, spingendo la Germania ad incrementare la sua domanda interna, incrementando i salari in proporzione al suo differenziale positivo di produttività, per compensare gli squilibri interni alle bilance commerciali degli Stati membri, e inducendo un incremento del fondo europeo di riequilibrio regionale, approvato, con finanziamenti minimi, nell’ultimo progetto di bilancio;
- Su un maggiore coordinamento fiscale a livello europeo, che conduca ad una politica fiscale armonizzata, e, in un secondo momento, a forme di mutualizzazione dei debiti pubblici nazionali.
Altrettanto evidentemente, qualora la Germania continuasse a mostrarsi indisponibile ai cambiamenti di cui sopra, anche dopo l’esito delle elezioni politiche autunnali, l’interesse nazionale dovrebbe essere quello di negoziare una fuoriuscita ordinata dall’euro, mirata a preservare il mercato comune ed a minimizzare l’impatto da fuoriuscita. Il negoziato con la Germania, in tal caso, dovrebbe essere condotto proprio sul comune interesse a mantenere in piedi forme di integrazione commerciale e di politica economica, anche dopo l’euro, e quindi il miglior sistema, che garantisce cioè di evitare “fughe in avanti” unilaterali da parte dei Paesi nordici, con le conseguenze negative sopra esposte, dovrebbe essere quello di un ripristino dello Sme, cioè di un sistema di cambi semi-rigidi fra le ricostituite valute nazionali, prevedendo però un maggior controllo politico sull’operato delle banche centrali nazionali, in linea con la proposta recentemente fatta, in tal senso, da Oskar Lafontaine.
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