di Roberta Basilio - il manifesto - esserecomunisti -
Tra i 500 e gli 800 miliardi è il valore dei nostri beni demaniali. Se tutto ciò rendesse solo l’1 per cento del proprio valore si coprirebbe la metà delle spese ordinarie della macchina statale. E se rendesse appena il 2 per cento tutti gli idonei dei concorsi universitari potrebbero entrare di ruolo. Invece la tentazione è vendere tutto
Niente di nuovo sotto il sole. A centocinquanta anni dall’Unità, la questione demaniale torna nel dibattito pubblico con un provvedimento governativo che rilancia i piani di dismissione degli immobili pubblici, peraltro già in atto nel nostro Paese da circa un ventennio.
Tuttavia oggi fa notizia la campagna che numerose associazioni stanno portando avanti contro l’ultima misura legislativa in materia. Le sigle sono tante – AIAB, ALPA, ARI, Campagna popolare per l’Agricoltura Contadina, Crocevia, Libera, Connettivo terra/TERRA, Slow Food, Legambiente, Rete Semi Rurale, Terra Nuova – e tutte chiedono che il Parlamento in questi giorni faccia marcia indietro sulle norme riguardanti il settore agroalimentare del decreto Cresci Italia. Il decreto-legge 24 gennaio 2012, n.1 attualmente in esame prevede, tra le altre direttive, l’alienazione in misura stabile dei terreni agricoli o a vocazione agricola di proprietà pubblica, che secondo l’ultimo censimento ISTAT ammonterebbero a ben 338.127,51 ettari per un valore di 6,22 miliardi di euro, stando alle stime di Coldiretti e Inea.
L’articolo 66 del Cresci Italia presenta come finalità di una simile operazione lo sviluppo dell’imprenditorialità giovanile nel settore agricolo e la riduzione del debito. Secondo la Coldiretti si toglierebbe in questo modo allo Stato il «compito improprio di coltivare la terra» e si incentiverebbe la crescita, l’occupazione e la redditività delle imprese.
Ma il condizionale è d’obbligo. A detta dell’Aiab, di Slow Food e di una miriade di altre associazioni contadine questa alienazione massiccia non farà altro che incentivare la concentrazione fondiaria, non sarà in grado di garantire il rilancio economico e non porterà a una riduzione del debito pubblico. Quello che propongono al Governo è di sostituire la procedura di vendita con quella di affitto in maniera tale da evitare speculazioni fondiarie in vista della possibilità di cambio di destinazione d’uso possibile a vent’anni dall’acquisto e e facilitando al contempo l’accesso alla terra da parte di giovani privi di ingenti capitali. Sulla questione della riduzione del debito pubblico attraverso la valorizzazione degli immobili demaniali, è lo stesso Dipartimento del Tesoro a dimostrare, conti alla mano, come gli strumenti della locazione e della concessione si rivelino sul lungo periodo maggiormente convenienti rispetto alla misura una tantum della vendita.
Il dibattito che si è sviluppato intorno a questa misura appare come una sorta di deja vu per chi ha frequentato il tema dei demani nella storia d’Italia. Iniziamo dalle motivazioni. Sia la Legge di stabilità 2012, sia il Cresci Italia, parlano di una situazione di straordinarietà e di massima urgenza che imporrebbero alla maggioranza parlamentare di fare in fretta nel recuperare il massimo della liquidità (anche a costo di deprezzare i beni messi in vendita), nel proporre misure che aiutino la crescita economica, nel far ricorso all’espediente del decreto-legge. Urgenza, necessità, straordinarietà, pessime condizioni dei conti pubblici sono alla base di provvedimenti continui, ma allo stesso tempo episodici e contingenti, che si susseguono a partire dal 1862 e che l’assemblea parlamentare deve limitarsi ad approvare in fretta. Le motivazioni della Coldiretti riportate in precedenza ricordano da vicino quella dei liberali di fine Ottocento , cioé di «rendere perfetta la proprietà», cioè di renderla privata, per promuovere lo sviluppo dell’agricoltura e per sottrarre allo Stato l’onere di una gestione in rosso.
Ma c’è pure dell’altro che ci riporta indietro. Seppure con una partecipazione che possiamo ipotizzare minore rispetto a oggi, anche nel primo decennio postunitario si registra una certa opposizione dell’opinione pubblica all’alienazione dei beni dello Stato. In un volantino del 1867 del deputato Antonio Del Bon si legge: «I Beni demaniali si possono vendere facilmente ma non si riacquisteranno mai più! La possidenza stabile della Nazione, costituita da essi, sarà una vasta scena di operazioni di credito pubblico, ed offre ad essa Nazione una base solida, determinata e perenne per il suo credito interno ed esteriore. L’alienabilità dei beni demaniali è la più cattiva e improduttiva operazione finanziaria che può fare uno Stato, se astretto da necessità, dopo aver esaurito tutte le pratiche per conservarli utilmente. La vendita è un ripiego di finanza rivoluzionaria, ma non una misura di utilità stabile, e le sue conseguenze saranno irrimediabili». E anche continuando nella lettura si coglie una lungimiranza fuori dal comune. L’irreversibilità e il sollievo solo momentaneo degli atti di vendita, la funzione sociale che demani saggiamente amministrati svolgono in un Paese in crisi, il vantaggio finanziario che lo Stato otterrebbe da una rendita stabile, la possibilità di concedere le terre anche a chi non dispone di grandi capitali attraverso affitti a lungo termine sono tutte idee che circolano inascoltate da un secolo e mezzo e che stanno acquistando sempre più forza ultimamente.
A oggi però non esiste un esatto Conto patrimoniale di ciò che lo Stato possiede e le valutazioni della Corte dei Conti oscillano tra i 500 e gli 800 miliardi di euro. Se tutto ciò rendesse solo l’1% del proprio valore si coprirebbe la metà delle spese ordinarie della macchina statale e se rendesse appena il 2% tutti gli idonei dei concorsi universitari potrebbero tranquillamente entrare di ruolo.
Sono dati su cui varrebbe la pena riflettere e che imporrebbero un’inversione di tendenza nelle politiche pubbliche. Dai tempi dell’Unità questa emorragia continua, e per lo più silenziosa, ha impoverito tutti e anche l’erario pubblico. Qualche dato? Quintino Sella alla fine del 1872 arrivava a dire alla Camera che dalla privatizzazione di beni il cui valore era 700.798.613 di lire si erano ricavati solo 277 milioni; dalle ultime due operazioni di cartolarizzazione del Governo Tremonti, Scip1 e Scip2 , a fronte di una privatizzazione di beni per 16 miliardi di euro, alle casse dello Stato ne sono arrivati solo 2. Siamo sicuri che siano solo coincidenze? Oppure dovremmo essere pronti ad accettare l’idea che alcune teorie economiche possano essere smentite dalla pratica? La diffusione del dibattito sui beni comuni e il risveglio che si è avuto nella società civile attorno a questo tema sembrano fornire nuovi elementi teorici e nuove proposte pratiche non solo alla secolare questione demaniale ma anche alla emergenza democratica in cui viviamo.
Roberta Basilio - il manifesto
Tra i 500 e gli 800 miliardi è il valore dei nostri beni demaniali. Se tutto ciò rendesse solo l’1 per cento del proprio valore si coprirebbe la metà delle spese ordinarie della macchina statale. E se rendesse appena il 2 per cento tutti gli idonei dei concorsi universitari potrebbero entrare di ruolo. Invece la tentazione è vendere tutto
Niente di nuovo sotto il sole. A centocinquanta anni dall’Unità, la questione demaniale torna nel dibattito pubblico con un provvedimento governativo che rilancia i piani di dismissione degli immobili pubblici, peraltro già in atto nel nostro Paese da circa un ventennio.
Tuttavia oggi fa notizia la campagna che numerose associazioni stanno portando avanti contro l’ultima misura legislativa in materia. Le sigle sono tante – AIAB, ALPA, ARI, Campagna popolare per l’Agricoltura Contadina, Crocevia, Libera, Connettivo terra/TERRA, Slow Food, Legambiente, Rete Semi Rurale, Terra Nuova – e tutte chiedono che il Parlamento in questi giorni faccia marcia indietro sulle norme riguardanti il settore agroalimentare del decreto Cresci Italia. Il decreto-legge 24 gennaio 2012, n.1 attualmente in esame prevede, tra le altre direttive, l’alienazione in misura stabile dei terreni agricoli o a vocazione agricola di proprietà pubblica, che secondo l’ultimo censimento ISTAT ammonterebbero a ben 338.127,51 ettari per un valore di 6,22 miliardi di euro, stando alle stime di Coldiretti e Inea.
L’articolo 66 del Cresci Italia presenta come finalità di una simile operazione lo sviluppo dell’imprenditorialità giovanile nel settore agricolo e la riduzione del debito. Secondo la Coldiretti si toglierebbe in questo modo allo Stato il «compito improprio di coltivare la terra» e si incentiverebbe la crescita, l’occupazione e la redditività delle imprese.
Ma il condizionale è d’obbligo. A detta dell’Aiab, di Slow Food e di una miriade di altre associazioni contadine questa alienazione massiccia non farà altro che incentivare la concentrazione fondiaria, non sarà in grado di garantire il rilancio economico e non porterà a una riduzione del debito pubblico. Quello che propongono al Governo è di sostituire la procedura di vendita con quella di affitto in maniera tale da evitare speculazioni fondiarie in vista della possibilità di cambio di destinazione d’uso possibile a vent’anni dall’acquisto e e facilitando al contempo l’accesso alla terra da parte di giovani privi di ingenti capitali. Sulla questione della riduzione del debito pubblico attraverso la valorizzazione degli immobili demaniali, è lo stesso Dipartimento del Tesoro a dimostrare, conti alla mano, come gli strumenti della locazione e della concessione si rivelino sul lungo periodo maggiormente convenienti rispetto alla misura una tantum della vendita.
Il dibattito che si è sviluppato intorno a questa misura appare come una sorta di deja vu per chi ha frequentato il tema dei demani nella storia d’Italia. Iniziamo dalle motivazioni. Sia la Legge di stabilità 2012, sia il Cresci Italia, parlano di una situazione di straordinarietà e di massima urgenza che imporrebbero alla maggioranza parlamentare di fare in fretta nel recuperare il massimo della liquidità (anche a costo di deprezzare i beni messi in vendita), nel proporre misure che aiutino la crescita economica, nel far ricorso all’espediente del decreto-legge. Urgenza, necessità, straordinarietà, pessime condizioni dei conti pubblici sono alla base di provvedimenti continui, ma allo stesso tempo episodici e contingenti, che si susseguono a partire dal 1862 e che l’assemblea parlamentare deve limitarsi ad approvare in fretta. Le motivazioni della Coldiretti riportate in precedenza ricordano da vicino quella dei liberali di fine Ottocento , cioé di «rendere perfetta la proprietà», cioè di renderla privata, per promuovere lo sviluppo dell’agricoltura e per sottrarre allo Stato l’onere di una gestione in rosso.
Ma c’è pure dell’altro che ci riporta indietro. Seppure con una partecipazione che possiamo ipotizzare minore rispetto a oggi, anche nel primo decennio postunitario si registra una certa opposizione dell’opinione pubblica all’alienazione dei beni dello Stato. In un volantino del 1867 del deputato Antonio Del Bon si legge: «I Beni demaniali si possono vendere facilmente ma non si riacquisteranno mai più! La possidenza stabile della Nazione, costituita da essi, sarà una vasta scena di operazioni di credito pubblico, ed offre ad essa Nazione una base solida, determinata e perenne per il suo credito interno ed esteriore. L’alienabilità dei beni demaniali è la più cattiva e improduttiva operazione finanziaria che può fare uno Stato, se astretto da necessità, dopo aver esaurito tutte le pratiche per conservarli utilmente. La vendita è un ripiego di finanza rivoluzionaria, ma non una misura di utilità stabile, e le sue conseguenze saranno irrimediabili». E anche continuando nella lettura si coglie una lungimiranza fuori dal comune. L’irreversibilità e il sollievo solo momentaneo degli atti di vendita, la funzione sociale che demani saggiamente amministrati svolgono in un Paese in crisi, il vantaggio finanziario che lo Stato otterrebbe da una rendita stabile, la possibilità di concedere le terre anche a chi non dispone di grandi capitali attraverso affitti a lungo termine sono tutte idee che circolano inascoltate da un secolo e mezzo e che stanno acquistando sempre più forza ultimamente.
A oggi però non esiste un esatto Conto patrimoniale di ciò che lo Stato possiede e le valutazioni della Corte dei Conti oscillano tra i 500 e gli 800 miliardi di euro. Se tutto ciò rendesse solo l’1% del proprio valore si coprirebbe la metà delle spese ordinarie della macchina statale e se rendesse appena il 2% tutti gli idonei dei concorsi universitari potrebbero tranquillamente entrare di ruolo.
Sono dati su cui varrebbe la pena riflettere e che imporrebbero un’inversione di tendenza nelle politiche pubbliche. Dai tempi dell’Unità questa emorragia continua, e per lo più silenziosa, ha impoverito tutti e anche l’erario pubblico. Qualche dato? Quintino Sella alla fine del 1872 arrivava a dire alla Camera che dalla privatizzazione di beni il cui valore era 700.798.613 di lire si erano ricavati solo 277 milioni; dalle ultime due operazioni di cartolarizzazione del Governo Tremonti, Scip1 e Scip2 , a fronte di una privatizzazione di beni per 16 miliardi di euro, alle casse dello Stato ne sono arrivati solo 2. Siamo sicuri che siano solo coincidenze? Oppure dovremmo essere pronti ad accettare l’idea che alcune teorie economiche possano essere smentite dalla pratica? La diffusione del dibattito sui beni comuni e il risveglio che si è avuto nella società civile attorno a questo tema sembrano fornire nuovi elementi teorici e nuove proposte pratiche non solo alla secolare questione demaniale ma anche alla emergenza democratica in cui viviamo.
Roberta Basilio - il manifesto
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