Piero Bevilacqua - il manifesto 14 Agosto Fonte: dirittiglobali
Almeno due fenomeni, distinti fra loro, ma fortemente correlati, sgomentano oggi chiunque osservi la turbolenta scena dell'economia e della finanza. Una scena che ormai fa del presente disordine mondiale il nostro pasto mediatico quotidiano. Il primo riguarda lo stolido e pervicace conformismo con cui banche centrali, governi, partiti, economisti, continuano a trovare «soluzioni alla crisi» riproponendo le usurate ricette che hanno l'hanno generato, e ora resa potenzialmente catastrofica.
La seconda riguarda la rapidità con cui la violenza di alcuni potentati finanziari internazionali si trasforma in uno stato di necessità, accettato dai gruppi dirigenti dei vari Paesi come una inaggirabile calamità naturale. La minaccia di declassamento del debito viene vissuta come l'arrivo di un ciclone a cui si può rispondere solo chiedendo ai cittadini di rinserrarsi nelle proprie case. La cultura che non vede altra strada alle difficoltà presenti se non il vecchio e battuto sentiero, è la medesima che, in poco tempo, ha trasformato in senso comune l'impensabile. Uno Stato oggi può perdere la propria sovranità, come ad esempio accade alla Grecia (e accade in parte anche a noi) non per l'invasione di un esercito straniero, ma per il proprio debito pubblico. La ricchezza, il patrimonio artistico, la cultura, il territorio, il frutto di millenni di storia di un popolo può essere saccheggiato e spartito da predoni in giacca e cravatta che siedono dietro una scrivania a migliaia di km di distanza. È una novità storica di devastante violenza, eppure la stampa e gli esperti, con tono impassibile, fanno già l'elenco dei beni da privatizzare, dalle isole al Partenone. Quel che pochi considerano è che quel debito è frutto della medesima politica (e della medesima etica truffaldina) che oggi si erge a inflessibile rigore di razionalità economica. Il debito greco ha ricevuto - come ha ricordato Paolo Berdini su questo giornale - una potente spinta con le grandi opere delle Olimpiadi di Atene del 2004, con 20 miliardi di euro rimasti sul groppone dello Stato. Tutto questo secondo meccanismi ben collaudati, quelli appunto delle grandi opere - tavola imbandita per banche e grandi imprese di costruzione - che lasciano poi alla mano pubblica l'obbligo di accollarsi l'onere delle perdite private. La Tav in Val di Susa e il Ponte di Messina sono perfetti archetipi di queste strategie, che dopo i banchetti di banche e imprese sono destinate a lasciare stremate le finanze pubbliche.
La riproposizione delle ricette neoliberiste, tuttavia, non è solo espressione di un conformismo dottrinario ormai senza più vie d'uscite. È anche una pervicace rivendicazione di interessi di classe. Lo "stato di necessità" è una ghiotta occasione per il capitalismo industriale, che preme per mettere più strettamente al proprio servizio il mercato della forza-lavoro. Esso torna ora utile per nascondere il grande saccheggio dei redditi operai e popolari che è a l'origine del tracollo finanziario. Basti pensare che tra il 1979 e il 2007 la quota della ricchezza prodotta nell'Europa a 15 andata ai salari è passata dal 68% al 57%. L'Italia, i cui salari operai arrancano agli ultimi posti dei 30 Paesi Ocse, è un caso esemplare per osservare gli ottimi profitti conseguiti nel frattempo dalle imprese. E parliamo dell'Italia «che non cresce», «fanalino di coda» e non delle banche, ma del cosiddetto capitalismo produttivo. Ebbene, come hanno ricordato Bertorello e Corradi in Capitalismo tossico, secondo i rapporti di Mediobanca, tra il 1995 e il 2006, le grandi imprese italiane hanno accresciuto i profitti netti per dipendente del 63,5%. Se poi si considera l'insieme dell'industria italiana, comprese le imprese fallite o in perdita, il dato cala al 15,5%, ma è pur sempre tre volte quello delle retribuzioni operaie.
Questi dati e le argomentazioni correlate - peraltro ripetutamente ribadite da tanti collaboratori su questo giornale - devono costituire a mio avviso il più importante fronte di contrapposizione politico alle manovre di «salvezza nazionale» che si stanno orchestrando in questi giorni, e che purtroppo irretiscono settori della Cgil e del centrosinistra. Deve essere chiaro e ripetuto sino alla noia che la causa della crisi è l'impoverimento dei ceti popolari e medi, consumatosi negli ultimi decenni, e che il tracollo finanziario deriva dalla immensa ricchezza che si è accumulata in poche mani. E dunque proseguire per questa via con il taglio dei servizi, l'accrescimento della precarizzazione del lavoro, la privatizzazione di nuovi settori, potrà forse tranquillizzare i cosiddetti mercati, ma produrrà lacerazioni esplosive nel corpo della società. E la macchina economica resterà imballata. È dunque molto importante che il messaggio sia semplice e comprensibile a tutti. Il senso di insostenibile ingiustizia che anima la manovra governativa deve fornire nuova energia ai movimenti politici che si opporranno alle scelte oggi in atto.
Ma la questione delle strategie neoliberistiche quali soluzioni a una crisi neoliberistica meriterebbe considerazioni di vario ordine, su una delle quali, di più immediata prospettiva politica italiana, occorrerà tornare in maniera specifica. Qui vorrei svolgere una breve riflessione di carattere più generale. È evidente a tutti che il neoliberismo, responsabile della crisi, è più vivo che mai nelle proposte dei governi e dei partiti politici, nella cultura delle istituzioni. Tale dato, del resto, riflette i rapporti di forza oggi in campo a livello mondiale. Diversamente che nel corso della grande crisi degli anni Trenta, i gruppi capitalistici non sono minacciati dallo spettro del comunismo. Né Obama né Barroso sono nella condizione di Roosevelt, che aveva di fronte Stalin e l'internazionale comunista. Ed era dunque costretto a una creatività politica che i suoi successori non sentono necessaria. Ma questo evidente vantaggio storico dei nostri contemporanei si accompagna a una stupefacente sterilità di idee, di coazione a ripetere, di conformismo, a una mancanza di prospettive che sembra spingere il capitalismo verso l'abisso. Non è tanto nell'economia reale che il capitale boccheggia, ma è sul piano culturale che oggi, per usare un'immagine di Marx, appare come un «cane morto». Il declassamento del debito Usa è una novità storica di prima grandezza non solo perché una banca privata americana colpisce e umilia agli occhi del mondo il potere politico dell'Impero. Non solo perché gli Usa nel corso del trentennio neoliberista sono stati il modello di crescita a cui economisti e media ci esortavano a guardare. E che ora sono sull'orlo di un nuovo crac. Dobbiamo imitare ancora l'America che fallisce? Ma perché il potere politico appare oggi assolutamente inetto a governare le potenze infernali che esso stesso ha suscitato. L'incapacità di Obama di abbassare le tasse dei ricchi americani, difesi dai repubblicani del Tea Party, chiude perfettamente un cerchio che rivela la continuità e l'essenza stessa del fallimento americano.La deregulation di Ronald Reagan, infatti, comincio nel 1981 con quello che fu definito «il più grande taglio di tasse nella storia fiscale americana». E la storia si è ripetuta, due volte, con Bush jr. I ricchi si sono ulteriormente arricchiti, ma gli altri, com è noto, hanno avuto un diverso destino. E così il cosiddetto «sogno americano» è stato gettato nella soffitta delle patrie retoriche.
È facile dunque immaginare che questa crisi che non finisce, che nel migliore dei casi si trasformerà in una lunga depressione mondiale, che creerà nuove povertà e disuguaglianze, è destinata a infliggere una gigantesca perdita di credibilità ai ceti dominanti e ai loro rappresentanti politici. E questo sta già accadendo. Anche se i fenomeni culturali, la stoffa sotterranea su cui si regge ogni egemonia, sono più lenti a formarsi e manifestarsi. Ma poi generano mutamenti storici profondi. E accade non solo perché la crisi colpisce ora anche ceti sociali prima interni all'orbita del sistema, ma anche perché essa si accompagna all'evidente incapacità dei gruppi che governano da trent'anni di risolvere le sfide globali incombenti: esaurimento delle risorse naturali e distruzione degli habitat del pianeta, permanenza e anzi crescita dei poveri e degli affamati, riscaldamento climatico, guerre costose e disastrosamente perse.
Alle forze di sinistra, pur deboli, divise, frammentate - ma certamente portatrici di idee nuove, capaci realmente, oggi, di elaborare gli elementi di un nuovo progetto di società - spetta il compito di mostrare ai ceti popolari e ai ceti medi le responsabilità storiche del colossale fallimento che sono costretti a sopportare. E indicare anche obiettivi credibili e praticabili che mostrino vie d'uscita, mete conseguibili. È un compito difficile e drammaticamente necessario. Rappresentare politicamente le istanze di chi reggerà il maggior peso della tempesta in corso non è solo la condizione per tentare di spostare i rapporti di forza, ma è l'unica via per evitare che la democrazia venga travolta col vecchio ceto politico che dovrà uscire di scena.
Almeno due fenomeni, distinti fra loro, ma fortemente correlati, sgomentano oggi chiunque osservi la turbolenta scena dell'economia e della finanza. Una scena che ormai fa del presente disordine mondiale il nostro pasto mediatico quotidiano. Il primo riguarda lo stolido e pervicace conformismo con cui banche centrali, governi, partiti, economisti, continuano a trovare «soluzioni alla crisi» riproponendo le usurate ricette che hanno l'hanno generato, e ora resa potenzialmente catastrofica.
La seconda riguarda la rapidità con cui la violenza di alcuni potentati finanziari internazionali si trasforma in uno stato di necessità, accettato dai gruppi dirigenti dei vari Paesi come una inaggirabile calamità naturale. La minaccia di declassamento del debito viene vissuta come l'arrivo di un ciclone a cui si può rispondere solo chiedendo ai cittadini di rinserrarsi nelle proprie case. La cultura che non vede altra strada alle difficoltà presenti se non il vecchio e battuto sentiero, è la medesima che, in poco tempo, ha trasformato in senso comune l'impensabile. Uno Stato oggi può perdere la propria sovranità, come ad esempio accade alla Grecia (e accade in parte anche a noi) non per l'invasione di un esercito straniero, ma per il proprio debito pubblico. La ricchezza, il patrimonio artistico, la cultura, il territorio, il frutto di millenni di storia di un popolo può essere saccheggiato e spartito da predoni in giacca e cravatta che siedono dietro una scrivania a migliaia di km di distanza. È una novità storica di devastante violenza, eppure la stampa e gli esperti, con tono impassibile, fanno già l'elenco dei beni da privatizzare, dalle isole al Partenone. Quel che pochi considerano è che quel debito è frutto della medesima politica (e della medesima etica truffaldina) che oggi si erge a inflessibile rigore di razionalità economica. Il debito greco ha ricevuto - come ha ricordato Paolo Berdini su questo giornale - una potente spinta con le grandi opere delle Olimpiadi di Atene del 2004, con 20 miliardi di euro rimasti sul groppone dello Stato. Tutto questo secondo meccanismi ben collaudati, quelli appunto delle grandi opere - tavola imbandita per banche e grandi imprese di costruzione - che lasciano poi alla mano pubblica l'obbligo di accollarsi l'onere delle perdite private. La Tav in Val di Susa e il Ponte di Messina sono perfetti archetipi di queste strategie, che dopo i banchetti di banche e imprese sono destinate a lasciare stremate le finanze pubbliche.
La riproposizione delle ricette neoliberiste, tuttavia, non è solo espressione di un conformismo dottrinario ormai senza più vie d'uscite. È anche una pervicace rivendicazione di interessi di classe. Lo "stato di necessità" è una ghiotta occasione per il capitalismo industriale, che preme per mettere più strettamente al proprio servizio il mercato della forza-lavoro. Esso torna ora utile per nascondere il grande saccheggio dei redditi operai e popolari che è a l'origine del tracollo finanziario. Basti pensare che tra il 1979 e il 2007 la quota della ricchezza prodotta nell'Europa a 15 andata ai salari è passata dal 68% al 57%. L'Italia, i cui salari operai arrancano agli ultimi posti dei 30 Paesi Ocse, è un caso esemplare per osservare gli ottimi profitti conseguiti nel frattempo dalle imprese. E parliamo dell'Italia «che non cresce», «fanalino di coda» e non delle banche, ma del cosiddetto capitalismo produttivo. Ebbene, come hanno ricordato Bertorello e Corradi in Capitalismo tossico, secondo i rapporti di Mediobanca, tra il 1995 e il 2006, le grandi imprese italiane hanno accresciuto i profitti netti per dipendente del 63,5%. Se poi si considera l'insieme dell'industria italiana, comprese le imprese fallite o in perdita, il dato cala al 15,5%, ma è pur sempre tre volte quello delle retribuzioni operaie.
Questi dati e le argomentazioni correlate - peraltro ripetutamente ribadite da tanti collaboratori su questo giornale - devono costituire a mio avviso il più importante fronte di contrapposizione politico alle manovre di «salvezza nazionale» che si stanno orchestrando in questi giorni, e che purtroppo irretiscono settori della Cgil e del centrosinistra. Deve essere chiaro e ripetuto sino alla noia che la causa della crisi è l'impoverimento dei ceti popolari e medi, consumatosi negli ultimi decenni, e che il tracollo finanziario deriva dalla immensa ricchezza che si è accumulata in poche mani. E dunque proseguire per questa via con il taglio dei servizi, l'accrescimento della precarizzazione del lavoro, la privatizzazione di nuovi settori, potrà forse tranquillizzare i cosiddetti mercati, ma produrrà lacerazioni esplosive nel corpo della società. E la macchina economica resterà imballata. È dunque molto importante che il messaggio sia semplice e comprensibile a tutti. Il senso di insostenibile ingiustizia che anima la manovra governativa deve fornire nuova energia ai movimenti politici che si opporranno alle scelte oggi in atto.
Ma la questione delle strategie neoliberistiche quali soluzioni a una crisi neoliberistica meriterebbe considerazioni di vario ordine, su una delle quali, di più immediata prospettiva politica italiana, occorrerà tornare in maniera specifica. Qui vorrei svolgere una breve riflessione di carattere più generale. È evidente a tutti che il neoliberismo, responsabile della crisi, è più vivo che mai nelle proposte dei governi e dei partiti politici, nella cultura delle istituzioni. Tale dato, del resto, riflette i rapporti di forza oggi in campo a livello mondiale. Diversamente che nel corso della grande crisi degli anni Trenta, i gruppi capitalistici non sono minacciati dallo spettro del comunismo. Né Obama né Barroso sono nella condizione di Roosevelt, che aveva di fronte Stalin e l'internazionale comunista. Ed era dunque costretto a una creatività politica che i suoi successori non sentono necessaria. Ma questo evidente vantaggio storico dei nostri contemporanei si accompagna a una stupefacente sterilità di idee, di coazione a ripetere, di conformismo, a una mancanza di prospettive che sembra spingere il capitalismo verso l'abisso. Non è tanto nell'economia reale che il capitale boccheggia, ma è sul piano culturale che oggi, per usare un'immagine di Marx, appare come un «cane morto». Il declassamento del debito Usa è una novità storica di prima grandezza non solo perché una banca privata americana colpisce e umilia agli occhi del mondo il potere politico dell'Impero. Non solo perché gli Usa nel corso del trentennio neoliberista sono stati il modello di crescita a cui economisti e media ci esortavano a guardare. E che ora sono sull'orlo di un nuovo crac. Dobbiamo imitare ancora l'America che fallisce? Ma perché il potere politico appare oggi assolutamente inetto a governare le potenze infernali che esso stesso ha suscitato. L'incapacità di Obama di abbassare le tasse dei ricchi americani, difesi dai repubblicani del Tea Party, chiude perfettamente un cerchio che rivela la continuità e l'essenza stessa del fallimento americano.La deregulation di Ronald Reagan, infatti, comincio nel 1981 con quello che fu definito «il più grande taglio di tasse nella storia fiscale americana». E la storia si è ripetuta, due volte, con Bush jr. I ricchi si sono ulteriormente arricchiti, ma gli altri, com è noto, hanno avuto un diverso destino. E così il cosiddetto «sogno americano» è stato gettato nella soffitta delle patrie retoriche.
È facile dunque immaginare che questa crisi che non finisce, che nel migliore dei casi si trasformerà in una lunga depressione mondiale, che creerà nuove povertà e disuguaglianze, è destinata a infliggere una gigantesca perdita di credibilità ai ceti dominanti e ai loro rappresentanti politici. E questo sta già accadendo. Anche se i fenomeni culturali, la stoffa sotterranea su cui si regge ogni egemonia, sono più lenti a formarsi e manifestarsi. Ma poi generano mutamenti storici profondi. E accade non solo perché la crisi colpisce ora anche ceti sociali prima interni all'orbita del sistema, ma anche perché essa si accompagna all'evidente incapacità dei gruppi che governano da trent'anni di risolvere le sfide globali incombenti: esaurimento delle risorse naturali e distruzione degli habitat del pianeta, permanenza e anzi crescita dei poveri e degli affamati, riscaldamento climatico, guerre costose e disastrosamente perse.
Alle forze di sinistra, pur deboli, divise, frammentate - ma certamente portatrici di idee nuove, capaci realmente, oggi, di elaborare gli elementi di un nuovo progetto di società - spetta il compito di mostrare ai ceti popolari e ai ceti medi le responsabilità storiche del colossale fallimento che sono costretti a sopportare. E indicare anche obiettivi credibili e praticabili che mostrino vie d'uscita, mete conseguibili. È un compito difficile e drammaticamente necessario. Rappresentare politicamente le istanze di chi reggerà il maggior peso della tempesta in corso non è solo la condizione per tentare di spostare i rapporti di forza, ma è l'unica via per evitare che la democrazia venga travolta col vecchio ceto politico che dovrà uscire di scena.
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