Fonte: nuovaresistenza
La ripetizione, secondo Hegel, svolge un ruolo storico fondamentale: una cosa che accade solo una volta può essere liquidata come un caso, un evento che avrebbe potuto essere evitato se la situazione fosse stata gestita diversamente; ma il suo ripetersi è sintomo di una dinamica storica più profonda. Quando Napoleone fu sconfitto a Lipsia, nel 1813, si pensò a un caso sfortunato; quando perse nuovamente a Waterloo fu chiaro che il suo tempo era finito. Lo stesso vale per la crisi finanziaria in corso. Nel settembre del 2008 fu presentata da alcuni come un’anomalia che poteva essere corretta con nuove regolamentazioni ecc.; ora che si susseguono i segnali di un nuovo tracollo finanziario è evidente che abbiamo a che fare con un fenomeno strutturale.
Continuano a dirci che stiamo attraversando una crisi del debito e che dobbiamo portare tutti insieme questo peso e tirare la cinghia. Tutti insieme con l’eccezione dei (molto) ricchi: l’idea di tassarli di più è un tabù. Se lo facessimo, si dice, i ricchi non sarebbero incentivati a investire, verrebbero creati meno posti di lavoro e tutti noi ne subiremmo le conseguenze. L’unica possibilità di salvezza in questi tempi difficili è che i poveri diventino più poveri e i ricchi più ricchi. Cosa resta da fare ai poveri? Cosa possono fare?
Benché le rivolte nel Regno Unito siano state scatenate dall’omicidio di Mark Duggan in circostanze sospette, tutti vi riconoscono l’espressione di un disagio più profondo. Ma che genere di disagio? Come nel caso delle auto incendiate nelle banlieue parigine nel 2005, i rivoltosi inglesi non avevano messaggi da comunicare. (Qui c’è un netto contrasto con le grandi manifestazioni studentesche del novembre 2010, anch’esse sfociate nella violenza. Gli studenti protestavano chiaramente contro le proposte di riforma universitaria.) Ecco perché è difficile considerare i rivoltosi inglesi in termini marxisti, come un esempio del manifestarsi del soggetto rivoluzionario; sono più simili alla “plebe” in senso hegeliano, alla moltitudine che sta all’esterno dello spazio sociale organizzato e che può esprimere il proprio scontento unicamente per mezzo di sfoghi “irrazionali” di violenza distruttiva – quello che Hegel chiamava “negatività astratta”.
C’è una vecchia barzelletta su un operaio sospettato di rubare: tutte le sere quando esce dalla fabbrica gli perquisiscono minuziosamente la carriola. Le guardie non trovano niente, la carriola è sempre vuota. Alla fine si scopre l’inganno: l’operaio sta rubando proprio le carriole. Le guardie si erano lasciate sfuggire l’ovvio, come gli opinionisti con le rivolte inglesi. Ci dicono che la disintegrazione dei regimi comunisti all’inizio degli anni Novanta ha segnato la fine delle ideologie: l’epoca dei grandi progetti ideologici culminati nella catastrofe totalitaria si è conclusa; siamo entrati in una nuova era fatta di politica razionale e pragmatica. Questa recente esplosione di violenza ci permette di verificare ce ci sia qualcosa di vero nel luogo comune secondo il quale staremmo vivendo in un’epoca post-ideologica. È stata una protesta di grado zero, un’azione violenta priva di rivendicazioni. Nel disperato tentativo di dare un significato alle rivolte, i sociologi e gli editorialisti hanno reso ancora più confuso l’enigma da esse proposto.
I contestatori, benché svantaggiati e di fatto socialmente emarginati, non stavano morendo di fame. Gente che si è ritrovata in difficoltà materiali ben peggiori, per non parlare delle condizioni di repressione fisica e ideologica, è stata capace di organizzarsi in forze politiche con obiettivi chiari e definiti. È il fatto stesso che i rivoltosi non avessero alcun programma a dover essere interpretato: la dice lunga sulla difficile situazione politico-ideologica in cui ci troviamo e sulla società in cui viviamo, una società che celebra la scelta ma nella quale l’unica alternativa possibile al consenso democratico imposto è un cieco acting out [in psicanalisi, insieme di azioni aggressive manifestate dal paziente verso gli altri o verso se stesso per ostacolare il processo di ricordo di fatti passati rimossi, N.d.T.]. L’opposizione al sistema, ormai incapace di articolarsi come alternativa realistica e perfino come progetto utopistico, può solo prendere la forma di un’esplosione di aggressività priva di senso. A cosa serve la nostra libertà di scelta se la sola scelta possibile è tra il rispetto delle regole e la violenza (auto-)distruttiva?
Alain Badiou ha detto che il nostro spazio sociale viene sempre più spesso percepito come “privo di mondo”: in un simile spazio la protesta può assumere solo la forma della violenza insensata. Questo è forse uno dei principali pericoli del capitalismo: anche se in virtù del suo essere globale abbraccia tutto il mondo, esso sorregge una costellazione ideologica “senza mondo” nella quale le persone vengono private della possibilità di edificare senso. La fondamentale lezione della globalizzazione è che il capitalismo può adattarsi a tutte le civiltà, da quella cristiana a quella induista o buddista, da Ovest a Est: non esiste una “visione capitalistica del mondo”, una “civiltà capitalistica” in senso stretto. La dimensione globale del capitalismo rappresenta la verità senza il significato.
La prima conclusione che possiamo trarre dalle rivolte, dunque, è che i conservatori e i progressisti hanno reagito entrambi in modo inadeguato. La reazione conservatrice era prevedibile: questo genere di vandalismo non ha giustificazioni; andrebbero usati tutti i mezzi necessari a ristabilire l’ordine; per impedire future esplosioni di violenza di questo tipo non servono più tolleranza e maggiori aiuti sociali ma più disciplina, rigore e senso di responsabilità. Il problema di questo atteggiamento è che non solo ignora la disperazione sociale che spinge i giovani ad atti di violenza incontrollata, ma – aspetto forse più importante – che ignora il modo in cui queste rivolte fanno eco alle premesse occulte della stessa ideologia conservatrice. Quando, negli anni Novanta, i Conservatori basarono la loro campagna sul “back to basics”, la moralizzazione dei costumi e il ritorno alle origini, Norman Tebbit ne svelò il risvolto osceno: “L’uomo non è solo un animale sociale ma anche un animale territoriale: dobbiamo porre tra i nostri obiettivi la soddisfazione di quegli istinti primordiali, tribali e territoriali”. Ecco in cosa consisteva davvero il “back to basics”: nello scatenare il barbaro che stava in agguato sotto la nostra società apparentemente civile e borghese attraverso l’appagamento degli “istinti primordiali” del barbaro. Negli anni Sessanta Herbert Marcuse introdusse il concetto di “desublimazione repressiva” per spiegare la “rivoluzione sessuale”: le pulsioni umane potevano essere desublimate, sfogate liberamente, e continuare a essere sottoposte al controllo capitalistico – vale a dire l’industria del porno. Quello che abbiamo visto sulle strade britanniche durante le rivolte non era un uomo ridotto a “bestia”, ma la versione denudata della “bestia” prodotta dall’ideologia capitalista.
Nel frattempo i progressisti si sono attenuti ai non meno prevedibili mantra dei programmi sociali e delle iniziative per favorire l’integrazione, ignorati fino a privare gli immigrati di seconda e terza generazione di qualsiasi prospettiva economica e sociale: la violenza è il solo mezzo di cui dispongono per articolare la loro insoddisfazione. Invece di lasciarci andare a fantasie di vendetta, dovremmo fare lo sforzo di capire le cause più profonde delle rivolte. Possiamo anche solo immaginare cosa significa essere un giovane in un quartiere povero e multirazziale, sospettato a priori e assillato dalla polizia, non solo privo di un impiego ma spesso anche della prospettiva di un impiego, senza la speranza di un futuro? Ne consegue che le condizioni di queste persone rendono le rivolte inevitabili. Il problema di questa argomentazione, tuttavia, è che espone solo le condizioni oggettive delle rivolte. Rivoltarsi significa fare un’affermazione soggettiva, dichiarare implicitamente come ci si rapporta con le proprie condizioni oggettive.
Viviamo tempi cinici, ed è facile immaginare un contestatore che – colto a saccheggiare e incendiare un negozio e interrogato sulle proprie motivazioni – risponda con il linguaggio usato dagli operatori sociali e dai sociologi, citando la scarsa mobilità sociale, la crescente insicurezza, la disintegrazione dell’autorità paterna, la mancanza d’affetto materno durante la prima infanzia. Dunque sa cosa sta facendo, eppure lo fa comunque.
Non ha senso chiedersi se sia peggiore la reazione conservatrice o quella progressista: come avrebbe detto Stalin, sono peggiori entrambe, compreso il monito lanciato da ambedue a proposito del fatto che il vero pericolo di queste rivolte sta nella reazione prevedibilmente razzista della “maggioranza silenziosa”. Una delle forme assunte da questa reazione è stata l’attività “tribale” delle comunità locali (turca, caraibica, sikh) che hanno rapidamente organizzato ronde per proteggere i loro esercizi. I negozianti sono una piccola borghesia che difende i propri beni da una vera seppur violenta protesta contro il sistema? O sono rappresentanti della classe lavoratrice che combattono le forze della disintegrazione sociale? Anche qui bisognerebbe evitare di schierarsi. La verità è che il conflitto si è scatenato tra due tipologie di svantaggiati: quelli che sono riusciti a funzionare dentro il sistema e quelli si sono stufati di continuare a provarci. La violenza dei rivoltosi si è indirizzata quasi esclusivamente contro i loro simili. Le auto incendiate e i negozi saccheggiati non si trovavano in zone ricche, ma nei loro stessi quartieri. Non è un conflitto tra diverse parti della società; è, nei suoi aspetti più estremi, un conflitto tra società e società, tra chi ha tutto e chi non ha niente da perdere; tra chi non ha alcuna posta in gioco nella propria comunità e chi ha poste in gioco altissime.
Zygmunt Bauman ha scritto che queste rivolte sono atti di “consumatori deprivati ed esclusi dal mercato”: più di ogni altra cosa sono la manifestazione di un desiderio consumistico messo in atto con violenza nell’incapacità di trovare soddisfazione nel modo “appropriato” – attraverso l’acquisto. In quanto tali, contengono un momento di sincera protesta, che prende la forma di una risposta ironica all’ideologia consumistica: “Ci spingete a consumare e nello stesso tempo ci private dei mezzi con cui farlo adeguatamente – così lo facciamo nell’unico modo che abbiamo a disposizione!”. Le rivolte sono una dimostrazione della forza materiale dell’ideologia: sulla nostra “società post-ideologica” forse non c’è altro da dire. Da un punto di vista rivoluzionario il problema delle rivolte non è la violenza in quanto tale ma il fatto che la violenza non è auto-affermazione. È rabbia impotente e disperazione mascherata da esibizione di forza; è invidia mascherata da carnevalata trionfante.
Bisognerebbe rapportare queste rivolte a un altro tipo di violenza che la maggioranza liberale oggi percepisce come una minaccia al nostro stile di vita: gli attacchi terroristici e gli attentati suicidi. In entrambi i casi la violenza e la reazione a essa restano intrappolate in un circolo vizioso: entrambe generano le forze che cercano di combattere. In ambedue i casi abbiamo a che fare con ciechi passaggi all’atto in cui la violenza è un’implicita ammissione di impotenza. La differenza è che, contrariamente alle rivolte nel Regno Unito o a Parigi, gli attentati terroristici vengono compiuti al servizio di un Significato assoluto fornito dalla religione.
Ma le rivolte arabe non erano un atto collettivo di resistenza che evitava la falsa alternativa della violenza autodistruttiva e del fondamentalismo religioso? Purtroppo l’estate egiziana del 2011 verrà ricordata come la fine della rivoluzione, come il momento in cui è stato soffocato il suo potenziale di emancipazione. A seppellirla sono l’esercito gli islamisti. I contorni del patto tra l’esercito (che è l’esercito di Mubarak) e gli islamisti (che furono emarginati nei primi mesi della sollevazione ma stanno ora riguadagnando terreno) sono sempre più chiari: gli islamisti tollereranno i privilegi dell’esercito e in cambio si assicureranno l’egemonia ideologica. I perdenti saranno i liberali pro-occidentali, troppo deboli – nonostante i finanziamenti della CIA – per “promuovere la democrazia”, nonché i veri agenti della primavera egiziana, la nascente sinistra laica che ha cercato di avviare una rete di organizzazioni della società civile, dai sindacati alle femministe. La situazione economica in rapido peggioramento spingerà prima o poi i poveri, finora largamente assenti dalle proteste, a scendere in piazza. Ci sarà probabilmente una nuova esplosione di violenza, e il principale problema dei soggetti politici egiziani è capire chi riuscirà a dirigere la rabbia dei poveri. Chi la tradurrà in un programma politico: la nuova sinistra egiziana o gli islamisti?
La reazione predominante dell’opinione pubblica occidentale al patto tra esercito e islamisti sarà di certo una trionfante esibizione di cinismo: ci sentiremo dire che, come si è capito con l’Iran (non arabo), le sollevazioni popolari nei paesi arabi sfociano sempre nell’islamismo militante. Mubarak apparirà come un male di gran lunga minore – meglio tenersi un male già noto che gingillarsi con l’emancipazione. Contro un simile cinismo bisogna restare incondizionatamente fedeli al nucleo radicale-emancipatore della rivolta egiziana.
Ma bisogna anche evitare di farsi tentare dal narcisismo delle cause perse: è troppo semplice ammirare la bellezza sublime di rivolte condannate a fallire. La sinistra odierna deve affrontare la questione della “negazione determinata”: quale nuovo ordine deve sostituirsi a quello vecchio dopo l’insurrezione, quando si è spento il sublime entusiasmo della prima ora? In questo contesto, il manifesto degli indignados spagnoli, diffuso dopo le manifestazioni di maggio, è rivelatore. La prima cosa che salta all’occhio è il tono fortemente apolitico: “Alcuni di noi si considerano progressisti, altri conservatori. Alcuni sono credenti, altri no. Alcuni di noi hanno ideologie ben chiare, altri sono apolitici. Ma siamo tutti preoccupati e indignati per il panorama politico, economico e sociale che ci circonda: la corruzione dei politici, degli imprenditori e dei banchieri che ci rende impotenti e ci impedisce di avere voce in capitolo”. Con la loro protesta reclamano le “verità inalienabili a cui dovremmo tener fede nella nostra società: il diritto a una casa, al lavoro, alla cultura, alla salute, all’istruzione, alla partecipazione politica, alla libera crescita personale e ai diritti dei consumatori per una vita sana e felice”. Respingendo la violenza, chiedono una “rivoluzione etica. Invece di mettere il denaro al di sopra dell’essere umano, faremo in modo che il denaro torni al nostro servizio. Siamo persone, non prodotti. Io non sono il prodotto di quello che compro, del perché lo compro e da chi”. Quali saranno gli agenti di questa rivoluzione? Gli indignados liquidano l’intera classe politica, di destra e di sinistra, in quanto corrotta e guidata dalla sete di potere. Eppure il manifesto consiste in una serie di richieste rivolte a – a chi? Non alla gente: gli indignados non dicono (ancora) di voler essere gli agenti del cambiamento che reclamano. E questa è la fatale debolezza delle recenti proteste: esprimono una vera rabbia che non è capace di trasformarsi in un concreto programma di cambiamento sociopolitico. Esprimono uno spirito di rivolta senza rivoluzione.
La situazione greca sembra più promettente, probabilmente grazie a una recente tradizione di auto-organizzazione (scomparsa in Spagna dopo la caduta del franchismo). Ma perfino in Grecia il movimento di protesta mostra i limiti dell’auto-organizzazione: i contestatori vogliono uno spazio di libertà comune che non sia regolamentato da un’autorità centrale, uno spazio pubblico in cui ciascuno disponga della stessa quantità di tempo per esprimersi e così via. Quando i contestatori hanno cominciato a parlare delle mosse successive, a discutere di come andare oltre la semplice protesta, la maggioranza ha deciso che non serve un nuovo partito o una presa diretta del potere, ma un movimento che faccia pressione sui partiti politici. Però questo evidentemente non basta a imporre una riorganizzazione della vita sociale. Per farlo serve un organo forte, capace di prendere decisioni rapide e di metterle in atto con tutto il rigore necessario.
Traduzione: Manuela Vittorelli
testo originale: http://www.lrb.co.uk/2011/08/19/slavoj-zizek/shoplifters-of-the-world-unite
La ripetizione, secondo Hegel, svolge un ruolo storico fondamentale: una cosa che accade solo una volta può essere liquidata come un caso, un evento che avrebbe potuto essere evitato se la situazione fosse stata gestita diversamente; ma il suo ripetersi è sintomo di una dinamica storica più profonda. Quando Napoleone fu sconfitto a Lipsia, nel 1813, si pensò a un caso sfortunato; quando perse nuovamente a Waterloo fu chiaro che il suo tempo era finito. Lo stesso vale per la crisi finanziaria in corso. Nel settembre del 2008 fu presentata da alcuni come un’anomalia che poteva essere corretta con nuove regolamentazioni ecc.; ora che si susseguono i segnali di un nuovo tracollo finanziario è evidente che abbiamo a che fare con un fenomeno strutturale.
Continuano a dirci che stiamo attraversando una crisi del debito e che dobbiamo portare tutti insieme questo peso e tirare la cinghia. Tutti insieme con l’eccezione dei (molto) ricchi: l’idea di tassarli di più è un tabù. Se lo facessimo, si dice, i ricchi non sarebbero incentivati a investire, verrebbero creati meno posti di lavoro e tutti noi ne subiremmo le conseguenze. L’unica possibilità di salvezza in questi tempi difficili è che i poveri diventino più poveri e i ricchi più ricchi. Cosa resta da fare ai poveri? Cosa possono fare?
Benché le rivolte nel Regno Unito siano state scatenate dall’omicidio di Mark Duggan in circostanze sospette, tutti vi riconoscono l’espressione di un disagio più profondo. Ma che genere di disagio? Come nel caso delle auto incendiate nelle banlieue parigine nel 2005, i rivoltosi inglesi non avevano messaggi da comunicare. (Qui c’è un netto contrasto con le grandi manifestazioni studentesche del novembre 2010, anch’esse sfociate nella violenza. Gli studenti protestavano chiaramente contro le proposte di riforma universitaria.) Ecco perché è difficile considerare i rivoltosi inglesi in termini marxisti, come un esempio del manifestarsi del soggetto rivoluzionario; sono più simili alla “plebe” in senso hegeliano, alla moltitudine che sta all’esterno dello spazio sociale organizzato e che può esprimere il proprio scontento unicamente per mezzo di sfoghi “irrazionali” di violenza distruttiva – quello che Hegel chiamava “negatività astratta”.
C’è una vecchia barzelletta su un operaio sospettato di rubare: tutte le sere quando esce dalla fabbrica gli perquisiscono minuziosamente la carriola. Le guardie non trovano niente, la carriola è sempre vuota. Alla fine si scopre l’inganno: l’operaio sta rubando proprio le carriole. Le guardie si erano lasciate sfuggire l’ovvio, come gli opinionisti con le rivolte inglesi. Ci dicono che la disintegrazione dei regimi comunisti all’inizio degli anni Novanta ha segnato la fine delle ideologie: l’epoca dei grandi progetti ideologici culminati nella catastrofe totalitaria si è conclusa; siamo entrati in una nuova era fatta di politica razionale e pragmatica. Questa recente esplosione di violenza ci permette di verificare ce ci sia qualcosa di vero nel luogo comune secondo il quale staremmo vivendo in un’epoca post-ideologica. È stata una protesta di grado zero, un’azione violenta priva di rivendicazioni. Nel disperato tentativo di dare un significato alle rivolte, i sociologi e gli editorialisti hanno reso ancora più confuso l’enigma da esse proposto.
I contestatori, benché svantaggiati e di fatto socialmente emarginati, non stavano morendo di fame. Gente che si è ritrovata in difficoltà materiali ben peggiori, per non parlare delle condizioni di repressione fisica e ideologica, è stata capace di organizzarsi in forze politiche con obiettivi chiari e definiti. È il fatto stesso che i rivoltosi non avessero alcun programma a dover essere interpretato: la dice lunga sulla difficile situazione politico-ideologica in cui ci troviamo e sulla società in cui viviamo, una società che celebra la scelta ma nella quale l’unica alternativa possibile al consenso democratico imposto è un cieco acting out [in psicanalisi, insieme di azioni aggressive manifestate dal paziente verso gli altri o verso se stesso per ostacolare il processo di ricordo di fatti passati rimossi, N.d.T.]. L’opposizione al sistema, ormai incapace di articolarsi come alternativa realistica e perfino come progetto utopistico, può solo prendere la forma di un’esplosione di aggressività priva di senso. A cosa serve la nostra libertà di scelta se la sola scelta possibile è tra il rispetto delle regole e la violenza (auto-)distruttiva?
Alain Badiou ha detto che il nostro spazio sociale viene sempre più spesso percepito come “privo di mondo”: in un simile spazio la protesta può assumere solo la forma della violenza insensata. Questo è forse uno dei principali pericoli del capitalismo: anche se in virtù del suo essere globale abbraccia tutto il mondo, esso sorregge una costellazione ideologica “senza mondo” nella quale le persone vengono private della possibilità di edificare senso. La fondamentale lezione della globalizzazione è che il capitalismo può adattarsi a tutte le civiltà, da quella cristiana a quella induista o buddista, da Ovest a Est: non esiste una “visione capitalistica del mondo”, una “civiltà capitalistica” in senso stretto. La dimensione globale del capitalismo rappresenta la verità senza il significato.
La prima conclusione che possiamo trarre dalle rivolte, dunque, è che i conservatori e i progressisti hanno reagito entrambi in modo inadeguato. La reazione conservatrice era prevedibile: questo genere di vandalismo non ha giustificazioni; andrebbero usati tutti i mezzi necessari a ristabilire l’ordine; per impedire future esplosioni di violenza di questo tipo non servono più tolleranza e maggiori aiuti sociali ma più disciplina, rigore e senso di responsabilità. Il problema di questo atteggiamento è che non solo ignora la disperazione sociale che spinge i giovani ad atti di violenza incontrollata, ma – aspetto forse più importante – che ignora il modo in cui queste rivolte fanno eco alle premesse occulte della stessa ideologia conservatrice. Quando, negli anni Novanta, i Conservatori basarono la loro campagna sul “back to basics”, la moralizzazione dei costumi e il ritorno alle origini, Norman Tebbit ne svelò il risvolto osceno: “L’uomo non è solo un animale sociale ma anche un animale territoriale: dobbiamo porre tra i nostri obiettivi la soddisfazione di quegli istinti primordiali, tribali e territoriali”. Ecco in cosa consisteva davvero il “back to basics”: nello scatenare il barbaro che stava in agguato sotto la nostra società apparentemente civile e borghese attraverso l’appagamento degli “istinti primordiali” del barbaro. Negli anni Sessanta Herbert Marcuse introdusse il concetto di “desublimazione repressiva” per spiegare la “rivoluzione sessuale”: le pulsioni umane potevano essere desublimate, sfogate liberamente, e continuare a essere sottoposte al controllo capitalistico – vale a dire l’industria del porno. Quello che abbiamo visto sulle strade britanniche durante le rivolte non era un uomo ridotto a “bestia”, ma la versione denudata della “bestia” prodotta dall’ideologia capitalista.
Nel frattempo i progressisti si sono attenuti ai non meno prevedibili mantra dei programmi sociali e delle iniziative per favorire l’integrazione, ignorati fino a privare gli immigrati di seconda e terza generazione di qualsiasi prospettiva economica e sociale: la violenza è il solo mezzo di cui dispongono per articolare la loro insoddisfazione. Invece di lasciarci andare a fantasie di vendetta, dovremmo fare lo sforzo di capire le cause più profonde delle rivolte. Possiamo anche solo immaginare cosa significa essere un giovane in un quartiere povero e multirazziale, sospettato a priori e assillato dalla polizia, non solo privo di un impiego ma spesso anche della prospettiva di un impiego, senza la speranza di un futuro? Ne consegue che le condizioni di queste persone rendono le rivolte inevitabili. Il problema di questa argomentazione, tuttavia, è che espone solo le condizioni oggettive delle rivolte. Rivoltarsi significa fare un’affermazione soggettiva, dichiarare implicitamente come ci si rapporta con le proprie condizioni oggettive.
Viviamo tempi cinici, ed è facile immaginare un contestatore che – colto a saccheggiare e incendiare un negozio e interrogato sulle proprie motivazioni – risponda con il linguaggio usato dagli operatori sociali e dai sociologi, citando la scarsa mobilità sociale, la crescente insicurezza, la disintegrazione dell’autorità paterna, la mancanza d’affetto materno durante la prima infanzia. Dunque sa cosa sta facendo, eppure lo fa comunque.
Non ha senso chiedersi se sia peggiore la reazione conservatrice o quella progressista: come avrebbe detto Stalin, sono peggiori entrambe, compreso il monito lanciato da ambedue a proposito del fatto che il vero pericolo di queste rivolte sta nella reazione prevedibilmente razzista della “maggioranza silenziosa”. Una delle forme assunte da questa reazione è stata l’attività “tribale” delle comunità locali (turca, caraibica, sikh) che hanno rapidamente organizzato ronde per proteggere i loro esercizi. I negozianti sono una piccola borghesia che difende i propri beni da una vera seppur violenta protesta contro il sistema? O sono rappresentanti della classe lavoratrice che combattono le forze della disintegrazione sociale? Anche qui bisognerebbe evitare di schierarsi. La verità è che il conflitto si è scatenato tra due tipologie di svantaggiati: quelli che sono riusciti a funzionare dentro il sistema e quelli si sono stufati di continuare a provarci. La violenza dei rivoltosi si è indirizzata quasi esclusivamente contro i loro simili. Le auto incendiate e i negozi saccheggiati non si trovavano in zone ricche, ma nei loro stessi quartieri. Non è un conflitto tra diverse parti della società; è, nei suoi aspetti più estremi, un conflitto tra società e società, tra chi ha tutto e chi non ha niente da perdere; tra chi non ha alcuna posta in gioco nella propria comunità e chi ha poste in gioco altissime.
Zygmunt Bauman ha scritto che queste rivolte sono atti di “consumatori deprivati ed esclusi dal mercato”: più di ogni altra cosa sono la manifestazione di un desiderio consumistico messo in atto con violenza nell’incapacità di trovare soddisfazione nel modo “appropriato” – attraverso l’acquisto. In quanto tali, contengono un momento di sincera protesta, che prende la forma di una risposta ironica all’ideologia consumistica: “Ci spingete a consumare e nello stesso tempo ci private dei mezzi con cui farlo adeguatamente – così lo facciamo nell’unico modo che abbiamo a disposizione!”. Le rivolte sono una dimostrazione della forza materiale dell’ideologia: sulla nostra “società post-ideologica” forse non c’è altro da dire. Da un punto di vista rivoluzionario il problema delle rivolte non è la violenza in quanto tale ma il fatto che la violenza non è auto-affermazione. È rabbia impotente e disperazione mascherata da esibizione di forza; è invidia mascherata da carnevalata trionfante.
Bisognerebbe rapportare queste rivolte a un altro tipo di violenza che la maggioranza liberale oggi percepisce come una minaccia al nostro stile di vita: gli attacchi terroristici e gli attentati suicidi. In entrambi i casi la violenza e la reazione a essa restano intrappolate in un circolo vizioso: entrambe generano le forze che cercano di combattere. In ambedue i casi abbiamo a che fare con ciechi passaggi all’atto in cui la violenza è un’implicita ammissione di impotenza. La differenza è che, contrariamente alle rivolte nel Regno Unito o a Parigi, gli attentati terroristici vengono compiuti al servizio di un Significato assoluto fornito dalla religione.
Ma le rivolte arabe non erano un atto collettivo di resistenza che evitava la falsa alternativa della violenza autodistruttiva e del fondamentalismo religioso? Purtroppo l’estate egiziana del 2011 verrà ricordata come la fine della rivoluzione, come il momento in cui è stato soffocato il suo potenziale di emancipazione. A seppellirla sono l’esercito gli islamisti. I contorni del patto tra l’esercito (che è l’esercito di Mubarak) e gli islamisti (che furono emarginati nei primi mesi della sollevazione ma stanno ora riguadagnando terreno) sono sempre più chiari: gli islamisti tollereranno i privilegi dell’esercito e in cambio si assicureranno l’egemonia ideologica. I perdenti saranno i liberali pro-occidentali, troppo deboli – nonostante i finanziamenti della CIA – per “promuovere la democrazia”, nonché i veri agenti della primavera egiziana, la nascente sinistra laica che ha cercato di avviare una rete di organizzazioni della società civile, dai sindacati alle femministe. La situazione economica in rapido peggioramento spingerà prima o poi i poveri, finora largamente assenti dalle proteste, a scendere in piazza. Ci sarà probabilmente una nuova esplosione di violenza, e il principale problema dei soggetti politici egiziani è capire chi riuscirà a dirigere la rabbia dei poveri. Chi la tradurrà in un programma politico: la nuova sinistra egiziana o gli islamisti?
La reazione predominante dell’opinione pubblica occidentale al patto tra esercito e islamisti sarà di certo una trionfante esibizione di cinismo: ci sentiremo dire che, come si è capito con l’Iran (non arabo), le sollevazioni popolari nei paesi arabi sfociano sempre nell’islamismo militante. Mubarak apparirà come un male di gran lunga minore – meglio tenersi un male già noto che gingillarsi con l’emancipazione. Contro un simile cinismo bisogna restare incondizionatamente fedeli al nucleo radicale-emancipatore della rivolta egiziana.
Ma bisogna anche evitare di farsi tentare dal narcisismo delle cause perse: è troppo semplice ammirare la bellezza sublime di rivolte condannate a fallire. La sinistra odierna deve affrontare la questione della “negazione determinata”: quale nuovo ordine deve sostituirsi a quello vecchio dopo l’insurrezione, quando si è spento il sublime entusiasmo della prima ora? In questo contesto, il manifesto degli indignados spagnoli, diffuso dopo le manifestazioni di maggio, è rivelatore. La prima cosa che salta all’occhio è il tono fortemente apolitico: “Alcuni di noi si considerano progressisti, altri conservatori. Alcuni sono credenti, altri no. Alcuni di noi hanno ideologie ben chiare, altri sono apolitici. Ma siamo tutti preoccupati e indignati per il panorama politico, economico e sociale che ci circonda: la corruzione dei politici, degli imprenditori e dei banchieri che ci rende impotenti e ci impedisce di avere voce in capitolo”. Con la loro protesta reclamano le “verità inalienabili a cui dovremmo tener fede nella nostra società: il diritto a una casa, al lavoro, alla cultura, alla salute, all’istruzione, alla partecipazione politica, alla libera crescita personale e ai diritti dei consumatori per una vita sana e felice”. Respingendo la violenza, chiedono una “rivoluzione etica. Invece di mettere il denaro al di sopra dell’essere umano, faremo in modo che il denaro torni al nostro servizio. Siamo persone, non prodotti. Io non sono il prodotto di quello che compro, del perché lo compro e da chi”. Quali saranno gli agenti di questa rivoluzione? Gli indignados liquidano l’intera classe politica, di destra e di sinistra, in quanto corrotta e guidata dalla sete di potere. Eppure il manifesto consiste in una serie di richieste rivolte a – a chi? Non alla gente: gli indignados non dicono (ancora) di voler essere gli agenti del cambiamento che reclamano. E questa è la fatale debolezza delle recenti proteste: esprimono una vera rabbia che non è capace di trasformarsi in un concreto programma di cambiamento sociopolitico. Esprimono uno spirito di rivolta senza rivoluzione.
La situazione greca sembra più promettente, probabilmente grazie a una recente tradizione di auto-organizzazione (scomparsa in Spagna dopo la caduta del franchismo). Ma perfino in Grecia il movimento di protesta mostra i limiti dell’auto-organizzazione: i contestatori vogliono uno spazio di libertà comune che non sia regolamentato da un’autorità centrale, uno spazio pubblico in cui ciascuno disponga della stessa quantità di tempo per esprimersi e così via. Quando i contestatori hanno cominciato a parlare delle mosse successive, a discutere di come andare oltre la semplice protesta, la maggioranza ha deciso che non serve un nuovo partito o una presa diretta del potere, ma un movimento che faccia pressione sui partiti politici. Però questo evidentemente non basta a imporre una riorganizzazione della vita sociale. Per farlo serve un organo forte, capace di prendere decisioni rapide e di metterle in atto con tutto il rigore necessario.
Traduzione: Manuela Vittorelli
testo originale: http://www.lrb.co.uk/2011/08/19/slavoj-zizek/shoplifters-of-the-world-unite
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