di Gianni Ferrara. Fonte: ilmanifesto
Un mese fa Rossana Rossanda riflettendo sulla crisi che attraversa l’Europa, poneva “agli amici economisti e ai padri e padrini (di battesimo cattolico) della Ue” una domanda evidentemente retorica. Questa: “Non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? E come si ripara?”
A rigore, non sarei tenuto a rispondere. Sia perché non sono un economista e, d’altronde, non sulle dottrine economiche dominanti mi sono formato … ma sulla “critica dell’economia politica”. Sia perché nessun rapporto di parentela culturale e politica avrei potuto avere con i “costituenti” dell’Unione europea e con gli sperticati apologeti dell’Ue. Per di più, un certo impegno di studioso lo ho dedicato alle istituzioni europee, da quello di Maastricht in poi, lasciandone su “la rivista del manifesto” alcune tracce, il cui senso, per eleganza, ometto di ricordare (1). Rossana però, riferendosi alla “costituzione” della Ue, quasi mi impone di intervenire.
Inizio con una constatazione che a me pare del tutto evidente. Un fallimento vero e proprio si è avuto, è avanti a noi. È insieme istituzionale, politico, culturale. Può scadere in un catastrofico default finanziario. È il fallimento dell’Unione europea come disegnata dai Trattati. Ne investe il principio politico, quello del neoliberismo cui questi Trattati si ispirano. È quindi il fondamento su cui si erge l’intero e complesso edificio istituzionale denominato Ue che viene travolto dal default. Non lo si dichiara, non lo si vuole ammettere. Anzi, si continua a fingere che siano valide e obbligate le strategie e le tattiche derivanti dal principio fallito, quello di “un’economia di mercato aperta ed in libera concorrenza”. Il Trattato di Maastricht lo pose come primario, fondante, assoluto. I Trattati successivi lo hanno confermato, ma sistemandolo al centro di una corolla espressiva di sentimenti tanto nobili quanto vacui. Per ribadirne il primato, difendendolo dalle eccezioni di qualche giudice costituzionale come il Tribunale costituzionale tedesco di Karlsruhe, il Trattato di Lisbona ha ribattezzato come “sociale” l’economia di mercato cui l’intero ordinamento istituzionale è finalizzato. Le ha imposto però di essere “fortemente competitiva”. Deve trattarsi della stessa competitività che persegue Marchionne. In nome della quale concezione dell’economia, della politica e … del mondo si sta continuando a prescrivere che bisogna privatizzare quanto più si può, strappare i lacci e i laccioli alla libera impresa, adeguare ai mutamenti globali i diritti sociali, perciò limitarli, comprimerli, “riformare” il welfare, svuotandolo.
Fu tale concezione dell’economia che indusse i redattori dei Trattati europei a disegnare, costruire, definire istituzioni, poteri, organi, procedimenti, atti normativi, di indirizzo, amministrativi, giurisdizionali, di controllo senza però che potesse esserci un governo, un governo dell’economia. Si pensava che una Banca garante della sola stabilità dei prezzi bastasse a … non governare. Perchè a governare avrebbe provveduto il mercato. E per attribuirgli questo potere, garantirglielo, perpetuaglielo che si crearono quelle istituzioni, quei poteri, quelle procedure, quelle tipologie normative, quei controlli, l’intero ordinamento fu finalizzato a quel solo obiettivo. Mai una aggregazione umana a forma stato era comparsa nell’esperienza giuspolitica del mondo priva di un organo di governo. La si volle così fatta. Chissà. Si pensò forse di integrare le forme di stato sperimentate nella storia delle istituzioni. Un intento gigantesco, del tutto singolare. Si è rivelato disastroso.
Se ne ebbe la prova già nel corso del processo di costruzione dell’Ue. La spoliticizzazione operata, in nome e per conto dell’autoregolazione del mercato e degli altri corollari del neoliberismo, produceva un effetto del tutto opposto a quello creduto ed esaltato dagli euro-credenti: invece di crescere, il PIL calava clamorosamente in ogni Paese dell’Ue rispetto ai valori pre-Maastricht (2). La crisi attuale ne è l’ulteriore dimostrazione: dietro l’angolo della decrescita si staglia la sagoma della bancarotta. Gli interventi pubblici adottati e richiesti per parare il pericolo e rimuoverne i fattori dimostrano la loro ineluttabilità. Con essa la prova incontestabile del fallimento del neoliberismo realizzato. Apprendo, nello scrivere queste note, che dai colloqui tra Merkel e Sarkozy, è emersa la decisione di creare un governo economico europeo. Una lacuna grave ed assurda verrebbe quindi colmata. Non so se sarà costituito in tempo per prevenire il peggio. Ben venga comunque. Ma a condizione che sia dotata di poteri adeguati e che sappia e voglia difendere la validità del modello sociale europeo stravolto dall’Unione dei mercati e dei mercanti d’Europa. E non soltanto.
È del tutto evidente infatti che la crisi non è solo europea. Ha una origine più lontana e profonda. È strutturale, incombente, globale. Ebbe come detonatore la scelta operata dagli Stati Uniti nel 1971 di ripudiare il sistema dei cambi fissi a favore della convertibilità delle valute in dollari e dei dollari in oro. Ne conseguì la liberalizzazione dei capitali dagli stati, cioè la liberazione dei capitali dalla democrazia degli stati, qualunque grado, estensione, intensità avesse raggiunto il loro processo di democratizzazione. Iniziò così la “rivoluzione passiva” che il capitale sta compiendo, la controrivoluzione diretta a cancellare le conquiste della lotta secolare del movimento operaio e democratico riassunte nel prodotto virtuoso dei “trenta gloriosi”, lo stato sociale. Si aprì infatti la strada maestra alla finanziarizzazione dell’economia, come immediata contro-spinta alla tendenziale caduta del tasso di profitto del capitale(3). Una finanziarizzazione massiccia, invasiva, pervasiva. Dagli effetti devastanti, determinati dagli stati che nelle istituzioni sopranazionali congiungono l’esercizio dei loro poteri per immunizzare la loro responsabilità e li delegano in via permanente agli attori del sistema finanziario (organizzazioni internazionali, grandi gruppi industriali e finanziari). Attori il cui “scopo preminente… è consistito nell’estrarre valore dalle classi medie e medio-inferiori … non soltanto attraverso lo sfruttamento del lavoro, ma anche mediante il coinvolgimento del maggior numero possibile degli aspetti della loro esistenza nel sistema finanziario” (4). Nel 1980, la ricchezza posseduta dal Paese più ricco del mondo era pari ad 88 volte quella del Paese più povero, oggi “la disparità è salita a 270 volte. I 1000 individui più ricchi del mondo hanno un patrimonio netto di poco inferiore al doppio del patrimonio totale dei 2,5 miliardi di individui più poveri”(5).
Rossana domanda come riparare. So di osare molto ma ci provo. Riprendo una riflessione maturata da tempo. Invoco il Leviatano, il soggetto-stato, titolare per eccellenza del potere normativo. Innanzitutto per denunziarne la responsabilità. Quella di un’abdicazione concertata tra tutti gli stati per insieme delegare al mercato la regolazione del mercato. Una delega senza limiti e senza criteri direttivi che ha così privilegiato, tra tutti gli esseri umani e contro tutti gli esseri umani, gli attori del mercato finanziario. Attori che si sono rivelati per quello che erano e che potevano essere: responsabili dello spostamento più consistente della ricchezza prodotta dai salari ai profitti e della più massiccia ed estesa compressione dei bisogni elementari delle donne e degli uomini del mondo. Hanno realizzato questa compressione attraverso la produzione senza fine dei più vari prodotti finanziari, incontrollabili per quantità e qualità e con l’aggiunta di un mercato finanziario ombra. Questi prodotti hanno avvolto milioni e milioni di persone non soltanto nel rapporto specifico del prodotto finanziario che li ha vincolati, ma nell’ideologia complessiva del capitalismo finanziario, quella per cui ciascuno poteva essere imprenditore di se stesso. Allo stesso titolo, con le stesse possibilità di successo, chi erediterà il patrimonio di Soros e il precario alla ricerca di un contratto purchessia.
Sia chiaro. Che l’economia reale abbia bisogno del sistema finanziario per poter adeguatamente funzionare è più che ovvio. È disastrosa invece la rottura del rapporto di funzionalità dell’uno nei confronti dell’altra, è il distacco dell’uno rispetto all’altra che determina effetti perversi, specie se il valore dell’uno aumenta vertiginosamente ed enormemente rispetto a quello verso cui è, e dovrebbe essere servente. Il che, se dipende in primo luogo dall’avidità sconfinata, irresponsabile e certamente criminale degli agenti del sistema finanziario, è da imputare soprattutto alla deregulation, all’abdicazione degli stati a favore del mercato.
Va detto senz’ambagi. Non è vero che i mercati hanno espropriato gli stati. È vero, invece, che gli stati hanno abdicato a favore dei mercati. Non è vero che la globalizzazione ha esautorato gli stati. Li ha solo indotti ad esercitare congiuntamente il loro potere per corrispondere alle esigenze della globalizzazione. Le cui istituzioni sono infatti gestite dai commissari che rappresentano in esse gli stati ed agiscono sulla base delle attribuzioni che, mediante specifici Trattati, gli stati conferiscono a tali istituzioni, internazionali o sovranazionali che siano.
A decidere le deregolazioni degli anni ’80 non fu certo la spontaneità delle masse degli sfruttati e degli oppressi. Furono gli stati governati dai credenti di vecchia e nuova ortodossia liberistica. A porre norme, a farle eseguire non ci sono che gli stati. Nessun altro soggetto, nessun altro sistema è emerso per sostituirli. Se qualcuno pensa che invece ci sia, per cortesia, lo indichi.
Si racconta che fu chiesto ad un economista, come si diventa proprietari di capitali, come si diventa proprietari dei prodotti creati per mezzo di questi capitali. Gli fu risposto: “Mediante il diritto positivo” (6). È mediante il diritto positivo, mediante gli stati, titolari del potere di porre le norme del diritto positivo, che i detentori di capitali e i loro agenti devono essere regolati, limitati, civilizzati per quanto possibile, condotti a giustizia e a ragione. La crisi che, dal 2007, con varia intensità, tormenta non soltanto l’Occidente, non è un evento derivante … da movimenti del cosmo. Ha alla sua origine la liberalizzazione dei capitali, la deregolazione permanente imposta da trenta anni dall’ideologia neoliberista. Ne è derivata la devoluzione del potere di governo agli attori del mercato. Non è un sospetto diffuso dai critici del capitalismo. Lo si ricava da una indagine dell’ONU (7). Viene spontaneo domandarsi quanti possano essere gli attori dei mercati finanziari. Pare che non superino i dieci milioni (8). Dieci milioni di individui hanno nelle loro mani le condizioni di vita di miliardi di donne e di uomini. Gliele hanno affidate gli stati in nome del neoliberismo, del totem dell’economia di mercato aperta ed in libera concorrenza.
Qualche ragione quindi c’è per chiedere agli stati che così come hanno congiuntamente abdicato, così congiuntamente devono riacquisire i poteri per i quali furono inventati, esercitandoli con sapienza e con rigore. Tra questi poteri, quello di attribuire alle entità istituzionali che hanno creato e che creano gli strumenti istituzionali adeguati ai compiti che assegnano a tali entità. Non lasciando, come ad esempio in Europa, senza regole e senza organi, il governo dell’economia. Ma dettando regole ed istituendo organi che il mercato lo governino e lo governino in funzione di quegli interessi che hanno un valore non misurabile in termini di profitto.
Vanno quindi richiamati ai loro doveri, gli stati, a quelli che sono esattamente i loro compiti. A richiamarli, sostituendo gli attori del sistema finanziario che finora li hanno dominati, devono essere i milioni, milioni e milioni di donne e di uomini che ne sono state e ne sono le vittime.
A chiederlo agli stati è la democrazia, la fonte della loro legittimazione. Ad imporlo deve essere la politica, se non ha dissolto la sua ragion d’essere.
(1) Sono comunque riassunte in G. Ferrara, Il fallimento del trattato costituzionale europeo, AA. VV. , Costituzione europea: quale futuro? Ediesse, 2006, 93 e ss.
(2) Sulle conseguenze perverse della mancanza di un’autorità politica che governi l’economia dell’Ue, e per un quadro analitico e ricostruttivo esaustivo dei limiti dell’ordinamento europeo cfr. G. Guarino, L’Europa imperfetta. Ue: problemi, analisi, prospettive, in corso di pubblicazione ma v. già in ID., Ratificare Lisbona? Passigli ed., 2008.
(3) Marx, Il Capitale, III, Editori Riuniti, 1974, 264, spec. 290.
(4) Così L. Gallino, Finanzcapitalismo, La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, 2011, 106.
(5) Gallino, op. cit., 160.
(6) Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, 1973, 29.
(7) Cfr. Conferenze on Social Political Dimensions of the Global Crisis: Implications for Developing Countries, Ginevra, nov. 2009, citato da L. Gallino, op. cit. loc. ult. cit.
(8) La stima è di L. Gallino, Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia
Un mese fa Rossana Rossanda riflettendo sulla crisi che attraversa l’Europa, poneva “agli amici economisti e ai padri e padrini (di battesimo cattolico) della Ue” una domanda evidentemente retorica. Questa: “Non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? E come si ripara?”
A rigore, non sarei tenuto a rispondere. Sia perché non sono un economista e, d’altronde, non sulle dottrine economiche dominanti mi sono formato … ma sulla “critica dell’economia politica”. Sia perché nessun rapporto di parentela culturale e politica avrei potuto avere con i “costituenti” dell’Unione europea e con gli sperticati apologeti dell’Ue. Per di più, un certo impegno di studioso lo ho dedicato alle istituzioni europee, da quello di Maastricht in poi, lasciandone su “la rivista del manifesto” alcune tracce, il cui senso, per eleganza, ometto di ricordare (1). Rossana però, riferendosi alla “costituzione” della Ue, quasi mi impone di intervenire.
Inizio con una constatazione che a me pare del tutto evidente. Un fallimento vero e proprio si è avuto, è avanti a noi. È insieme istituzionale, politico, culturale. Può scadere in un catastrofico default finanziario. È il fallimento dell’Unione europea come disegnata dai Trattati. Ne investe il principio politico, quello del neoliberismo cui questi Trattati si ispirano. È quindi il fondamento su cui si erge l’intero e complesso edificio istituzionale denominato Ue che viene travolto dal default. Non lo si dichiara, non lo si vuole ammettere. Anzi, si continua a fingere che siano valide e obbligate le strategie e le tattiche derivanti dal principio fallito, quello di “un’economia di mercato aperta ed in libera concorrenza”. Il Trattato di Maastricht lo pose come primario, fondante, assoluto. I Trattati successivi lo hanno confermato, ma sistemandolo al centro di una corolla espressiva di sentimenti tanto nobili quanto vacui. Per ribadirne il primato, difendendolo dalle eccezioni di qualche giudice costituzionale come il Tribunale costituzionale tedesco di Karlsruhe, il Trattato di Lisbona ha ribattezzato come “sociale” l’economia di mercato cui l’intero ordinamento istituzionale è finalizzato. Le ha imposto però di essere “fortemente competitiva”. Deve trattarsi della stessa competitività che persegue Marchionne. In nome della quale concezione dell’economia, della politica e … del mondo si sta continuando a prescrivere che bisogna privatizzare quanto più si può, strappare i lacci e i laccioli alla libera impresa, adeguare ai mutamenti globali i diritti sociali, perciò limitarli, comprimerli, “riformare” il welfare, svuotandolo.
Fu tale concezione dell’economia che indusse i redattori dei Trattati europei a disegnare, costruire, definire istituzioni, poteri, organi, procedimenti, atti normativi, di indirizzo, amministrativi, giurisdizionali, di controllo senza però che potesse esserci un governo, un governo dell’economia. Si pensava che una Banca garante della sola stabilità dei prezzi bastasse a … non governare. Perchè a governare avrebbe provveduto il mercato. E per attribuirgli questo potere, garantirglielo, perpetuaglielo che si crearono quelle istituzioni, quei poteri, quelle procedure, quelle tipologie normative, quei controlli, l’intero ordinamento fu finalizzato a quel solo obiettivo. Mai una aggregazione umana a forma stato era comparsa nell’esperienza giuspolitica del mondo priva di un organo di governo. La si volle così fatta. Chissà. Si pensò forse di integrare le forme di stato sperimentate nella storia delle istituzioni. Un intento gigantesco, del tutto singolare. Si è rivelato disastroso.
Se ne ebbe la prova già nel corso del processo di costruzione dell’Ue. La spoliticizzazione operata, in nome e per conto dell’autoregolazione del mercato e degli altri corollari del neoliberismo, produceva un effetto del tutto opposto a quello creduto ed esaltato dagli euro-credenti: invece di crescere, il PIL calava clamorosamente in ogni Paese dell’Ue rispetto ai valori pre-Maastricht (2). La crisi attuale ne è l’ulteriore dimostrazione: dietro l’angolo della decrescita si staglia la sagoma della bancarotta. Gli interventi pubblici adottati e richiesti per parare il pericolo e rimuoverne i fattori dimostrano la loro ineluttabilità. Con essa la prova incontestabile del fallimento del neoliberismo realizzato. Apprendo, nello scrivere queste note, che dai colloqui tra Merkel e Sarkozy, è emersa la decisione di creare un governo economico europeo. Una lacuna grave ed assurda verrebbe quindi colmata. Non so se sarà costituito in tempo per prevenire il peggio. Ben venga comunque. Ma a condizione che sia dotata di poteri adeguati e che sappia e voglia difendere la validità del modello sociale europeo stravolto dall’Unione dei mercati e dei mercanti d’Europa. E non soltanto.
È del tutto evidente infatti che la crisi non è solo europea. Ha una origine più lontana e profonda. È strutturale, incombente, globale. Ebbe come detonatore la scelta operata dagli Stati Uniti nel 1971 di ripudiare il sistema dei cambi fissi a favore della convertibilità delle valute in dollari e dei dollari in oro. Ne conseguì la liberalizzazione dei capitali dagli stati, cioè la liberazione dei capitali dalla democrazia degli stati, qualunque grado, estensione, intensità avesse raggiunto il loro processo di democratizzazione. Iniziò così la “rivoluzione passiva” che il capitale sta compiendo, la controrivoluzione diretta a cancellare le conquiste della lotta secolare del movimento operaio e democratico riassunte nel prodotto virtuoso dei “trenta gloriosi”, lo stato sociale. Si aprì infatti la strada maestra alla finanziarizzazione dell’economia, come immediata contro-spinta alla tendenziale caduta del tasso di profitto del capitale(3). Una finanziarizzazione massiccia, invasiva, pervasiva. Dagli effetti devastanti, determinati dagli stati che nelle istituzioni sopranazionali congiungono l’esercizio dei loro poteri per immunizzare la loro responsabilità e li delegano in via permanente agli attori del sistema finanziario (organizzazioni internazionali, grandi gruppi industriali e finanziari). Attori il cui “scopo preminente… è consistito nell’estrarre valore dalle classi medie e medio-inferiori … non soltanto attraverso lo sfruttamento del lavoro, ma anche mediante il coinvolgimento del maggior numero possibile degli aspetti della loro esistenza nel sistema finanziario” (4). Nel 1980, la ricchezza posseduta dal Paese più ricco del mondo era pari ad 88 volte quella del Paese più povero, oggi “la disparità è salita a 270 volte. I 1000 individui più ricchi del mondo hanno un patrimonio netto di poco inferiore al doppio del patrimonio totale dei 2,5 miliardi di individui più poveri”(5).
Rossana domanda come riparare. So di osare molto ma ci provo. Riprendo una riflessione maturata da tempo. Invoco il Leviatano, il soggetto-stato, titolare per eccellenza del potere normativo. Innanzitutto per denunziarne la responsabilità. Quella di un’abdicazione concertata tra tutti gli stati per insieme delegare al mercato la regolazione del mercato. Una delega senza limiti e senza criteri direttivi che ha così privilegiato, tra tutti gli esseri umani e contro tutti gli esseri umani, gli attori del mercato finanziario. Attori che si sono rivelati per quello che erano e che potevano essere: responsabili dello spostamento più consistente della ricchezza prodotta dai salari ai profitti e della più massiccia ed estesa compressione dei bisogni elementari delle donne e degli uomini del mondo. Hanno realizzato questa compressione attraverso la produzione senza fine dei più vari prodotti finanziari, incontrollabili per quantità e qualità e con l’aggiunta di un mercato finanziario ombra. Questi prodotti hanno avvolto milioni e milioni di persone non soltanto nel rapporto specifico del prodotto finanziario che li ha vincolati, ma nell’ideologia complessiva del capitalismo finanziario, quella per cui ciascuno poteva essere imprenditore di se stesso. Allo stesso titolo, con le stesse possibilità di successo, chi erediterà il patrimonio di Soros e il precario alla ricerca di un contratto purchessia.
Sia chiaro. Che l’economia reale abbia bisogno del sistema finanziario per poter adeguatamente funzionare è più che ovvio. È disastrosa invece la rottura del rapporto di funzionalità dell’uno nei confronti dell’altra, è il distacco dell’uno rispetto all’altra che determina effetti perversi, specie se il valore dell’uno aumenta vertiginosamente ed enormemente rispetto a quello verso cui è, e dovrebbe essere servente. Il che, se dipende in primo luogo dall’avidità sconfinata, irresponsabile e certamente criminale degli agenti del sistema finanziario, è da imputare soprattutto alla deregulation, all’abdicazione degli stati a favore del mercato.
Va detto senz’ambagi. Non è vero che i mercati hanno espropriato gli stati. È vero, invece, che gli stati hanno abdicato a favore dei mercati. Non è vero che la globalizzazione ha esautorato gli stati. Li ha solo indotti ad esercitare congiuntamente il loro potere per corrispondere alle esigenze della globalizzazione. Le cui istituzioni sono infatti gestite dai commissari che rappresentano in esse gli stati ed agiscono sulla base delle attribuzioni che, mediante specifici Trattati, gli stati conferiscono a tali istituzioni, internazionali o sovranazionali che siano.
A decidere le deregolazioni degli anni ’80 non fu certo la spontaneità delle masse degli sfruttati e degli oppressi. Furono gli stati governati dai credenti di vecchia e nuova ortodossia liberistica. A porre norme, a farle eseguire non ci sono che gli stati. Nessun altro soggetto, nessun altro sistema è emerso per sostituirli. Se qualcuno pensa che invece ci sia, per cortesia, lo indichi.
Si racconta che fu chiesto ad un economista, come si diventa proprietari di capitali, come si diventa proprietari dei prodotti creati per mezzo di questi capitali. Gli fu risposto: “Mediante il diritto positivo” (6). È mediante il diritto positivo, mediante gli stati, titolari del potere di porre le norme del diritto positivo, che i detentori di capitali e i loro agenti devono essere regolati, limitati, civilizzati per quanto possibile, condotti a giustizia e a ragione. La crisi che, dal 2007, con varia intensità, tormenta non soltanto l’Occidente, non è un evento derivante … da movimenti del cosmo. Ha alla sua origine la liberalizzazione dei capitali, la deregolazione permanente imposta da trenta anni dall’ideologia neoliberista. Ne è derivata la devoluzione del potere di governo agli attori del mercato. Non è un sospetto diffuso dai critici del capitalismo. Lo si ricava da una indagine dell’ONU (7). Viene spontaneo domandarsi quanti possano essere gli attori dei mercati finanziari. Pare che non superino i dieci milioni (8). Dieci milioni di individui hanno nelle loro mani le condizioni di vita di miliardi di donne e di uomini. Gliele hanno affidate gli stati in nome del neoliberismo, del totem dell’economia di mercato aperta ed in libera concorrenza.
Qualche ragione quindi c’è per chiedere agli stati che così come hanno congiuntamente abdicato, così congiuntamente devono riacquisire i poteri per i quali furono inventati, esercitandoli con sapienza e con rigore. Tra questi poteri, quello di attribuire alle entità istituzionali che hanno creato e che creano gli strumenti istituzionali adeguati ai compiti che assegnano a tali entità. Non lasciando, come ad esempio in Europa, senza regole e senza organi, il governo dell’economia. Ma dettando regole ed istituendo organi che il mercato lo governino e lo governino in funzione di quegli interessi che hanno un valore non misurabile in termini di profitto.
Vanno quindi richiamati ai loro doveri, gli stati, a quelli che sono esattamente i loro compiti. A richiamarli, sostituendo gli attori del sistema finanziario che finora li hanno dominati, devono essere i milioni, milioni e milioni di donne e di uomini che ne sono state e ne sono le vittime.
A chiederlo agli stati è la democrazia, la fonte della loro legittimazione. Ad imporlo deve essere la politica, se non ha dissolto la sua ragion d’essere.
(1) Sono comunque riassunte in G. Ferrara, Il fallimento del trattato costituzionale europeo, AA. VV. , Costituzione europea: quale futuro? Ediesse, 2006, 93 e ss.
(2) Sulle conseguenze perverse della mancanza di un’autorità politica che governi l’economia dell’Ue, e per un quadro analitico e ricostruttivo esaustivo dei limiti dell’ordinamento europeo cfr. G. Guarino, L’Europa imperfetta. Ue: problemi, analisi, prospettive, in corso di pubblicazione ma v. già in ID., Ratificare Lisbona? Passigli ed., 2008.
(3) Marx, Il Capitale, III, Editori Riuniti, 1974, 264, spec. 290.
(4) Così L. Gallino, Finanzcapitalismo, La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, 2011, 106.
(5) Gallino, op. cit., 160.
(6) Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, 1973, 29.
(7) Cfr. Conferenze on Social Political Dimensions of the Global Crisis: Implications for Developing Countries, Ginevra, nov. 2009, citato da L. Gallino, op. cit. loc. ult. cit.
(8) La stima è di L. Gallino, Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia
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