Il discorso sul capitalismo deve diventare subito la «narrazione» condivisa di tutta la sinistra e la base reale delle sue opzioni pratiche. Solo così sarà possibile uscire da quello che sempre più assomiglia a un catastrofico stallo
Di che cosa si può parlare oggi? Di che cosa dovrebbe parlare la politica oggi?
Di solito la politica parla di se stessa. Schieramenti, alleanze, elezioni. Tutt’al più, programmi e decisioni. Questa sembra la materia naturale, questo l’oggetto di un discorso serio della e sulla politica. Infatti di queste cose si continua a parlare, in modo più o meno decente e coerente. Mentre, coerentemente, si persevera in pratiche consuete (nomine e spartizioni varie). E invece questo è precisamente il discorso che non si può più continuare a fare, che non è più possibile fare in questo momento.
Se soltanto si avesse un vago sentore della gravità di quanto sta succedendo e dei rischi che stiamo correndo, si metterebbe da parte l’ordinaria amministrazione per guardarsi seriamente negli occhi. Che cosa ci dice questo scenario esplosivo (crisi sociale, crisi finanziaria degli Stati, distruzione degli apparati produttivi, ripresa dei nazionalismi e delle tensioni internazionali e intercontinentali), mentre le classi dirigenti europee non accennano a ripensare le politiche praticate da trent’anni, responsabili del disastro? Che cosa mostra, se non che questo sistema sociale (modello di sviluppo e gerarchie di classe) ha generato non per caso l’attuale situazione?
In particolare la sinistra – in tutte le sue diramazioni – di che cosa dovrebbe occuparsi, se non del fatto, sin troppo evidente, che sta all’origine di questa crisi generale? Il capitalismo, lasciato solo, a mani libere, senza minacce né avversari, da oltre vent’anni finalmente libero di plasmare il mondo a proprio talento, sta ricreando puntualmente le stesse condizioni di caos e di conflitto ingovernabile che hanno prodotto i conflitti mondiali.
In questi vent’anni, dalla guerra del Golfo alla guerra economica che sta spingendo l’Europa verso un abisso, abbiamo vissuto immersi in un’ininterrotta sequenza di «scontri di civiltà»: contro il Sud del mondo, contro le periferie del mondo capitalistico, contro le classi lavoratrici. Stupefacente non è che di fronte a questo scenario (di fronte al «fallimento dell’ordine economico mondiale», per riprendere parole di Alfredo Reichlin, ormai un estremista nel suo partito) si continui a parlare d’altro. Stupefacente è che si parli soltanto d’altro, forse nell’illusione che tutto spontaneamente rientrerà nei cardini. In fondo non ci si ripete da decenni che il mercato non ha bisogno di governo né di regole, che basta a se stesso, che risolve da sé le crisi che produce?
In realtà, proprio questo rifiuto di occuparsi dei fondamentali (che non sono quelli economici, definiti sulla base dei presupposti ideologici del neoliberismo, bensì le ragioni ordinatrici del rapporto sociale capitalistico), proprio questa rimozione dei problemi-chiave (che riguardano le finalità della cooperazione sociale e le ragioni di fondo che informano i rapporti di classe) è palesemente una concausa del perpetuarsi dell’attuale condizione o, per lo meno, dell’incapacità di individuare una via per sortirne senza correre il rischio di una distruzione generalizzata (mentre la distruzione parziale di intere popolazioni è già nei fatti, oltre che nell’agenda di classi dirigenti ciniche e irresponsabili). Non è forse così?
Questo vale a porre una domanda ai compagni non comunisti della sinistra di alternativa. Oggi (da diversi anni, in verità) è senso comune ritenere che il comunismo sia ormai un residuato bellico. Chi ancora si ostini a definirsi, nonostante tutto, «comunista» e a pensare in termini di classe e di sfruttamento del lavoro salariato è considerato un po’ scemo o stravagante: comunque un tipo da lasciar perdere, perché non ha capito dove siamo e in che mondo viviamo, un po’ come chi oggi andasse in giro coi pantaloni a zampa d’elefante.
Questo senso comune è diffuso anche a sinistra e la cosa non stupisce. Molte ragioni aiutano a spiegarla. La prima è che critiche al capitalismo su basi diverse dal classismo ce ne sono sempre state (anche di destra, del resto). Il capitalismo genera (o eredita ed esaspera) molteplici contraddizioni sistemiche e «strutturali» (non in senso marxiano). Distrugge l’ambiente, per esempio, e radicalizza i conflitti di genere. Benché l’analisi di queste contraddizioni rischi di rimanere monca se enucleata dal quadro di riferimento della «critica dell’economia politica» (cioè dall’analisi del modo di produzione come dispositivo-base della dinamica riproduttiva sociale), non è una novità che ci sia anche una sinistra anticapitalista non marxista né comunista.
Una seconda ragione la indica lo stesso Marx quando sostiene che «le idee dominanti sono quelle delle classi dominanti». È il nòcciolo un po’ ruvido di quella problematica che Gramsci indagherà in tutte le sue complesse articolazioni sotto il titolo di «egemonia». Insomma, nel rifiuto del comunismo pesa, forse, anche la subalternità all’ideologia dominante, che da vent’anni (dalla caduta del Muro) o trenta (dall’imporsi dell’egemonia neoliberista) viene trionfalmente dichiarando obsoleta la prospettiva della trasformazione nel segno della liberazione del lavoro dallo sfruttamento capitalistico. Un’altra ragione – senza offesa per nessuno, ma senza nemmeno eccedere in diplomazia – è l’opportunismo.
In generale il ceto politico evita il rischio di apparire poco attraente, o addirittura respingente, a causa di riferimenti ideologici caduti in disgrazia (in questo caso anche – occorre riconoscerlo – per le responsabilità gravissime, storiche, delle leadership che li hanno assunti come base o a pretesto delle proprie decisioni). Tanto più i politici tengono a evitare tale rischio se attestarsi sul terreno cruciale della critica del modello di sviluppo (cioè fondare la critica del presente sul terreno costitutivo dei rapporti di produzione) porta inevitabilmente a toccare nervi scoperti negli interlocutori con i quali si tratta di ragionare in vista di alleanze di governo o di coalizioni elettorali. Il discorso non è moralistico. Ma ci si dovrà pur chiedere, prima o poi, per che cosa si lavora.
È assai probabile che, muovendosi in questo modo, escludendo dal proprio orizzonte intellettuale e politico la critica del capitalismo, una parte della sinistra di alternativa riuscirà a salvarsi dallo sterminio politico al quale molti dei suoi attuali interlocutori l’hanno da lungo tempo destinata. Tutta l’operazione della Bolognina nacque dalla convinzione che i comunisti fossero ormai fuori dal tempo, una zavorra per la sinistra italiana ed europea. A maggior ragione le vicende ulteriori, sino al trionfo del «voto utile» cinque anni fa, si comprendono agevolmente solo considerando che per buona parte della dirigenza del centrosinistra l’eliminazione della sinistra è un valore in sé. Ma, stando così le cose, che cosa significa «salvarsi»? È, per la sinistra, un fine in sé o serve per fare qualcosa? Con quali prospettive ci si cimenta in questa partita?
Occorre un salto di qualità. Non si tratta di condannare le aspirazioni del ceto politico. Né di scandalizzarsi – com’è di moda – per il fatto che anche chi fa politica di professione (e soltanto gli ingenui o gli ipocriti negano che debbano esistere politici professionisti) nutre ambizioni e preoccupazioni, in particolare per la propria sicurezza. Ma le aspirazioni dei politici non dovrebbero mai prevalere sull’interesse sociale che essi intendono (e dichiarano di) rappresentare. E dovrebbero essere concepite in modo razionale (cioè non sul breve o brevissimo periodo). Un soggetto politico degno di questo nome non può, in altri termini, traguardarsi alla scadenza di una legislatura, decidendo il da farsi in base al calcolo delle probabilità di mandare in Parlamento qualcuno dei propri dirigenti. Sarebbe la più miope delle operazioni, mentre la società viene prendendo coscienza della radicalità della crisi in atto e dei pericoli che la sovrastano.
I segnali di questa presa di coscienza si moltiplicano. In tutta Europa (la forza di Syriza, e dei movimenti in Spagna, la crescita del fronte anti-fiscal compact in Irlanda, persino la vittoria di Hollande e le sconfitte elettorali della Merkel) e anche in Italia. Di questo parlano l’esplosione del fenomeno Grillo, il dilagare dell’astensionismo, le vittorie dei movimenti contro le privatizzazioni, la coraggiosa presa di parola della Fiom, alla quale i politici hanno risposto in modo ipertattico, reticente e omissivo.
Lo si è detto tante volte: siamo seduti su una polveriera, viaggiamo sul Titanic a poca distanza dall’iceberg. Ma ormai non c’è bisogno di Cassandre per sapere che non si tratta di esagerazioni. Per questo il discorso sul capitalismo – discorso concretamente politico, che evoca un’agenda di misure tese a ribaltare il dominio dei capitali sul lavoro e sulla società, e a restituire alla moneta la funzione di mediare socialmente la redistribuzione della ricchezza in modo da ridurre progressivamente la sottomissione del lavoro e di allargare la sfera della cittadinanza – deve diventare subito la «narrazione» condivisa di tutta la sinistra e la base reale delle sue opzioni pratiche. Solo così sarà possibile uscire da quello che sempre più assomiglia a un catastrofico stallo. Diversamente, non ci sarà scampo per nessuno. E nessuno, di fronte al disastro annunciato, potrà un domani rivendicare la propria pretesa innocenza.
Di solito la politica parla di se stessa. Schieramenti, alleanze, elezioni. Tutt’al più, programmi e decisioni. Questa sembra la materia naturale, questo l’oggetto di un discorso serio della e sulla politica. Infatti di queste cose si continua a parlare, in modo più o meno decente e coerente. Mentre, coerentemente, si persevera in pratiche consuete (nomine e spartizioni varie). E invece questo è precisamente il discorso che non si può più continuare a fare, che non è più possibile fare in questo momento.
Se soltanto si avesse un vago sentore della gravità di quanto sta succedendo e dei rischi che stiamo correndo, si metterebbe da parte l’ordinaria amministrazione per guardarsi seriamente negli occhi. Che cosa ci dice questo scenario esplosivo (crisi sociale, crisi finanziaria degli Stati, distruzione degli apparati produttivi, ripresa dei nazionalismi e delle tensioni internazionali e intercontinentali), mentre le classi dirigenti europee non accennano a ripensare le politiche praticate da trent’anni, responsabili del disastro? Che cosa mostra, se non che questo sistema sociale (modello di sviluppo e gerarchie di classe) ha generato non per caso l’attuale situazione?
In particolare la sinistra – in tutte le sue diramazioni – di che cosa dovrebbe occuparsi, se non del fatto, sin troppo evidente, che sta all’origine di questa crisi generale? Il capitalismo, lasciato solo, a mani libere, senza minacce né avversari, da oltre vent’anni finalmente libero di plasmare il mondo a proprio talento, sta ricreando puntualmente le stesse condizioni di caos e di conflitto ingovernabile che hanno prodotto i conflitti mondiali.
In questi vent’anni, dalla guerra del Golfo alla guerra economica che sta spingendo l’Europa verso un abisso, abbiamo vissuto immersi in un’ininterrotta sequenza di «scontri di civiltà»: contro il Sud del mondo, contro le periferie del mondo capitalistico, contro le classi lavoratrici. Stupefacente non è che di fronte a questo scenario (di fronte al «fallimento dell’ordine economico mondiale», per riprendere parole di Alfredo Reichlin, ormai un estremista nel suo partito) si continui a parlare d’altro. Stupefacente è che si parli soltanto d’altro, forse nell’illusione che tutto spontaneamente rientrerà nei cardini. In fondo non ci si ripete da decenni che il mercato non ha bisogno di governo né di regole, che basta a se stesso, che risolve da sé le crisi che produce?
In realtà, proprio questo rifiuto di occuparsi dei fondamentali (che non sono quelli economici, definiti sulla base dei presupposti ideologici del neoliberismo, bensì le ragioni ordinatrici del rapporto sociale capitalistico), proprio questa rimozione dei problemi-chiave (che riguardano le finalità della cooperazione sociale e le ragioni di fondo che informano i rapporti di classe) è palesemente una concausa del perpetuarsi dell’attuale condizione o, per lo meno, dell’incapacità di individuare una via per sortirne senza correre il rischio di una distruzione generalizzata (mentre la distruzione parziale di intere popolazioni è già nei fatti, oltre che nell’agenda di classi dirigenti ciniche e irresponsabili). Non è forse così?
Questo vale a porre una domanda ai compagni non comunisti della sinistra di alternativa. Oggi (da diversi anni, in verità) è senso comune ritenere che il comunismo sia ormai un residuato bellico. Chi ancora si ostini a definirsi, nonostante tutto, «comunista» e a pensare in termini di classe e di sfruttamento del lavoro salariato è considerato un po’ scemo o stravagante: comunque un tipo da lasciar perdere, perché non ha capito dove siamo e in che mondo viviamo, un po’ come chi oggi andasse in giro coi pantaloni a zampa d’elefante.
Questo senso comune è diffuso anche a sinistra e la cosa non stupisce. Molte ragioni aiutano a spiegarla. La prima è che critiche al capitalismo su basi diverse dal classismo ce ne sono sempre state (anche di destra, del resto). Il capitalismo genera (o eredita ed esaspera) molteplici contraddizioni sistemiche e «strutturali» (non in senso marxiano). Distrugge l’ambiente, per esempio, e radicalizza i conflitti di genere. Benché l’analisi di queste contraddizioni rischi di rimanere monca se enucleata dal quadro di riferimento della «critica dell’economia politica» (cioè dall’analisi del modo di produzione come dispositivo-base della dinamica riproduttiva sociale), non è una novità che ci sia anche una sinistra anticapitalista non marxista né comunista.
Una seconda ragione la indica lo stesso Marx quando sostiene che «le idee dominanti sono quelle delle classi dominanti». È il nòcciolo un po’ ruvido di quella problematica che Gramsci indagherà in tutte le sue complesse articolazioni sotto il titolo di «egemonia». Insomma, nel rifiuto del comunismo pesa, forse, anche la subalternità all’ideologia dominante, che da vent’anni (dalla caduta del Muro) o trenta (dall’imporsi dell’egemonia neoliberista) viene trionfalmente dichiarando obsoleta la prospettiva della trasformazione nel segno della liberazione del lavoro dallo sfruttamento capitalistico. Un’altra ragione – senza offesa per nessuno, ma senza nemmeno eccedere in diplomazia – è l’opportunismo.
In generale il ceto politico evita il rischio di apparire poco attraente, o addirittura respingente, a causa di riferimenti ideologici caduti in disgrazia (in questo caso anche – occorre riconoscerlo – per le responsabilità gravissime, storiche, delle leadership che li hanno assunti come base o a pretesto delle proprie decisioni). Tanto più i politici tengono a evitare tale rischio se attestarsi sul terreno cruciale della critica del modello di sviluppo (cioè fondare la critica del presente sul terreno costitutivo dei rapporti di produzione) porta inevitabilmente a toccare nervi scoperti negli interlocutori con i quali si tratta di ragionare in vista di alleanze di governo o di coalizioni elettorali. Il discorso non è moralistico. Ma ci si dovrà pur chiedere, prima o poi, per che cosa si lavora.
È assai probabile che, muovendosi in questo modo, escludendo dal proprio orizzonte intellettuale e politico la critica del capitalismo, una parte della sinistra di alternativa riuscirà a salvarsi dallo sterminio politico al quale molti dei suoi attuali interlocutori l’hanno da lungo tempo destinata. Tutta l’operazione della Bolognina nacque dalla convinzione che i comunisti fossero ormai fuori dal tempo, una zavorra per la sinistra italiana ed europea. A maggior ragione le vicende ulteriori, sino al trionfo del «voto utile» cinque anni fa, si comprendono agevolmente solo considerando che per buona parte della dirigenza del centrosinistra l’eliminazione della sinistra è un valore in sé. Ma, stando così le cose, che cosa significa «salvarsi»? È, per la sinistra, un fine in sé o serve per fare qualcosa? Con quali prospettive ci si cimenta in questa partita?
Occorre un salto di qualità. Non si tratta di condannare le aspirazioni del ceto politico. Né di scandalizzarsi – com’è di moda – per il fatto che anche chi fa politica di professione (e soltanto gli ingenui o gli ipocriti negano che debbano esistere politici professionisti) nutre ambizioni e preoccupazioni, in particolare per la propria sicurezza. Ma le aspirazioni dei politici non dovrebbero mai prevalere sull’interesse sociale che essi intendono (e dichiarano di) rappresentare. E dovrebbero essere concepite in modo razionale (cioè non sul breve o brevissimo periodo). Un soggetto politico degno di questo nome non può, in altri termini, traguardarsi alla scadenza di una legislatura, decidendo il da farsi in base al calcolo delle probabilità di mandare in Parlamento qualcuno dei propri dirigenti. Sarebbe la più miope delle operazioni, mentre la società viene prendendo coscienza della radicalità della crisi in atto e dei pericoli che la sovrastano.
I segnali di questa presa di coscienza si moltiplicano. In tutta Europa (la forza di Syriza, e dei movimenti in Spagna, la crescita del fronte anti-fiscal compact in Irlanda, persino la vittoria di Hollande e le sconfitte elettorali della Merkel) e anche in Italia. Di questo parlano l’esplosione del fenomeno Grillo, il dilagare dell’astensionismo, le vittorie dei movimenti contro le privatizzazioni, la coraggiosa presa di parola della Fiom, alla quale i politici hanno risposto in modo ipertattico, reticente e omissivo.
Lo si è detto tante volte: siamo seduti su una polveriera, viaggiamo sul Titanic a poca distanza dall’iceberg. Ma ormai non c’è bisogno di Cassandre per sapere che non si tratta di esagerazioni. Per questo il discorso sul capitalismo – discorso concretamente politico, che evoca un’agenda di misure tese a ribaltare il dominio dei capitali sul lavoro e sulla società, e a restituire alla moneta la funzione di mediare socialmente la redistribuzione della ricchezza in modo da ridurre progressivamente la sottomissione del lavoro e di allargare la sfera della cittadinanza – deve diventare subito la «narrazione» condivisa di tutta la sinistra e la base reale delle sue opzioni pratiche. Solo così sarà possibile uscire da quello che sempre più assomiglia a un catastrofico stallo. Diversamente, non ci sarà scampo per nessuno. E nessuno, di fronte al disastro annunciato, potrà un domani rivendicare la propria pretesa innocenza.
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