- di Claudio Grassi -
27 novembre, 2012
Dovevano essere lo strumento per gettare lo scompiglio nelle file del Pd, per sparigliare le carte, per cambiare l’agenda politica del centrosinistra, per spostare a sinistra l’asse della futura coalizione di governo. Dovevano. Almeno nelle intenzioni di Vendola che le primarie le ha chieste, le ha rincorse, le ha evocate con insistenza da oltre due anni a questa parte. Invece, le primarie sono state – onore al merito – un potente dispositivo che anziché squadernare, ha finito con il legittimare l’establishment del Pd. Al di là di come andrà a finire la contesa al ballottaggio tra Bersani e Renzi, il vero vincitore è il Partito democratico nel suo complesso. Che è stato capace di riassorbire anche il voto dei propri elettori scontenti e di farlo confluire su un competitor percepito come alternativo a Bersani e al gruppo dirigente, ma in ogni caso interno all’establishment del partito. Se si deve dare un nome al dominus di queste primarie non c’è dubbio che sia proprio quello di Matteo Renzi.
Successo del Partito Democratico
Il sindaco di Firenze sostiene che il suo consenso sia stato più massiccio proprio nelle regioni rosse dove il Pd ha un insediamento di lunga data. L’exploit di Renzi è il sintomo di una mutazione nel corpo sociale del Partito democratico che deve essere ancora in gran parte indagata.Il Pd comunque vince, ha detto Bersani. E anche questo è vero. Il suo partito si è dimostrato capace di tenere assieme il diavolo e l’acqua santa, di sostenere un governo antipopolare come quello guidato da Monti e, al tempo stesso, di mobilitare al voto delle primarie ben tre milioni di persone e di consacrarsi in un bagno di partecipazione. Sono sempre stato contrario alle primarie. Si tratta tutt’altro che di una forma di democrazia diretta. Gli elettori sono chiamati a scegliere tra candidati calati dall’alto, senza avere la possibilità di decidere sulla scelta dei nomi e tantomeno sui contenuti. E’ una torsione personalistica della politica che non mi ha mai convinto. Sarebbe un’ingenuità non cogliere neI voto di domenica il peso della macchina organizzativa del Pd e di una sapiente operazione di marketing elettorale. Nella campagna delle scorse settimane abbiamo assistito a un intenso battage mediatico che fa da contraltare al silenzio dei media riguardo ai referendum sul lavoro – solo per citare un esempio.
Tuttavia, i tre milioni di persone che sono andate a votare non si spiegano solo con il condizionamento esercitato dai media e dai vertici del Pd. Si è trattato comunque di una partecipazione popolare per certi versi insolita in tempi di crisi della politica. E’ un dato su cui riflettere. Nonostante le divisioni interne, le correnti, le guerre di apparato, la litigiosità tra anime contrapposte, nonostante la scelta di votare in parlamento la riforma delle pensioni, la cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, l’introduzione di una tassa socialmente iniqua come l’Imu, nonostante questo e altro, la capacità di tenuta del Pd non si è affatto indebolita. Chi pensava che esso fosse destinato a collidere con la base e col proprio elettorato a causa delle scelte politiche compiute, deve oggi ricredersi. L’idea che le primarie sarebbero state sufficienti a cambiare il volto del Partito democratico e spostare a sinistra l’agenda del centrosinistra si è rivelata inadeguata. Costruita su un’analisi approssimativa della realtà. E in politica le approssimazioni si pagano.
La sconfitta di Vendola
Il risultato di Vendola, se paragonato alle aspettative da lui suscitate, si è dimostrato ampiamente inferiore agli obiettivi dichiarati. Proprio perché le primarie sono state il suo investimento principale, la percentuale ottenuta deve essere giudicata deludente. I consensi raccolti corrispondono più o meno a un sesto degli elettori di centrosinistra che domenica sono andati a votare. E’ irrealistico pensare che con un risultato del genere il leader di Sel possa esercitare un condizionamento sul Pd e, men che mai, sull’azione di un ipotetico futuro governo di centrosinistra. Sia detto senza presunzione: l’unico sconfitto di queste primarie è Vendola. Certo, non Bersani che ottiene un vantaggio consistente e neppure Renzi. Quanto agli altri candidati, Tabacci e Puppato, essi avevano messo in conto le scarse possibilità di successo. La sconfitta di Vendola è avvenuta anche sul terreno che sembrava a lui più congeniale, vale a dire sul piano simbolico della comunicazione e del carisma personale. L’establishment del Pd è riuscito nell’impresa di presentare le primarie agli occhi dell’opinione pubblica come lo scontro tra Bersani e Renzi, tutto interno al partito: da una parte, la tradizione e il gruppo dirigente, dall’altra, il nuovo e la rottamazione. Il governatore della Puglia è rimasto schiacciato tra i due contendenti ed è finito con l’essere sospinto ai margini della scena principale.
Intendiamoci, non che il quindici e passa di consensi ottenuto da Vendola sia da buttar via, tutt’altro. Nelle condizioni in cui il governatore della Puglia si è ritrovato a giocare le proprie carte difficilmente avrebbe potuto fare di più. La sfida con l’apparato organizzativo del Pd era impari. Ma questo era ampiamente prevedibile. E il principale errore di Vendola è stata proprio l’aver sottovalutato le condizioni oggettive o, comunque, di aver sottaciuto i rapporti di forza. Errore che in politica non è concesso.
A torto o a ragione, Vendola ha sempre invocato le primarie come il punto d’approdo di un movimento diffuso nella società. C’è chi in buonafede ha ritenuto che il popolo della sinistra potesse ritrovarsi per la prima volta unito sotto il nome della sua candidatura alle primarie, sottraendosi all’azione nefasta e divisoria dei ceti politici. Così però non è stato. Anzi, nei fatti Vendola, nel percorso fin qui compiuto, ha perso per strada pezzi importanti. La stessa scelta di guidare una scissione nel Prc (comunque, all’epoca, la principale forza alternativa al Pd) e fondare un altro partito, ha reso più difficile il progetto di una riunificazione della sinistra antagonista in Italia. Lungo il cammino Vendola ha abbandonato al suo destino anche l’Idv di Di Pietro, estromessa dalla coalizione perché incompatibile con l’agenda politico-economica di un futuro governo di centrosinistra. Infine, la carta d’intenti sottoscritta con il Pd ha provocato il raffreddamento dei rapporti della Fiom con il leader di Sel. L’alleanza di centrosinistra è stata avvertita come una gabbia anche dagli intellettuali che hanno fondato il movimento di Alba. I risultati sono sotto gli occhi. Le primarie non hanno unito la sinistra, ma l’hanno divisa. Un prezzo troppo alto. Ne è valsa la pena? La domanda non è retorica. Se Vendola si è ritrovato a giocarsi le primarie in rapporti di forza sfavorevoli, questo è dovuto non solo alla potenza di fuoco sprigionata dal Pd, ma anche alla scelta compiuta di andare avanti senza porsi l’obiettivo prioritario di riunificare tutto ciò che sta a sinistra del Partito democratico. Si è ritenuto erroneamente che bastasse mettere in campo la propria immagine carismatica e una buona strategia comunicativa nel web per dare la spallata decisiva. Elementi importanti in una competizione personalizzata come le primarie. Ma insufficienti se, anziché costruire alle proprie spalle una massa critica, si trascurano le relazioni che possano mobilitare il proprio campo. Se Vendola si fosse messo a disposizione per la costruzione di un polo della sinistra alternativa, forse, la partita sarebbe andata diversamente.
La partita non è chiusa
Guai però a pensare che la partita sia finita qui. Non può finire così. I compagni di Sel che generosamente si sono gettati nella sfida delle primarie – a prescindere dal giudizio che se ne può dare – possono ambire a ben altro che non rimanere spettatori alla finestra di una competizione tutta giocata in casa del Pd. Il futuro di cambiamento del Paese non può essere demandato a un’improbabile, irrealistica opera di condizionamento di un futuro governo guidato da Bersani e pesantemente zavorrato alla sua destra da Renzi – per non parlare di un’eventuale alleanza con l’Udc di Casini. Le stesse speranze di rinnovamento che Vendola ha comunque suscitato in una parte non marginale di elettorato di sinistra, sospeso tra il Pd così com’è oggi e la sinistra che vorrebbe, meritano un approdo diverso. Questo è il momento in cui tutti gli attori in campo devono superare i personalismi e mettersi al servizio della costruzione di un polo di sinistra alternativo, non marginale, in grado di incidere davvero nella politica nazionale. L’alternativa è rimanere alla finestra, spettatori delle gesta altrui o – il risultato non cambia – attori embedded in un futuro governo a guida Pd e dal profilo fortemente centrista. Il primo dicembre, a Roma, si riuniscono tutte le forze che rispondono all’appello del documento “Cambiare si può” promosso, tra agli altri, da Luciano Gallino, Marco Revelli, Gianni Rinaldini e Livio Pepino. Il 12 dicembre seguirà un appuntamento altrettanto importante con il movimento lanciato da De Magistris. Il 15 dicembre si riunirà l’Italia dei Valori. Di tempo, per rompere gli indugi, ne è rimasto poco, pochissimo. Lo spazio per costruire una lista di sinistra che diventi punto di riferimento per chi non si sente rappresentato, da un lato, da un centrosinistra sempre più condizionato dalla componente centrista e, dall’altro, da Beppe Grillo è molto vasto. Lavoriamoci, tutti assieme.
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