di COLLETTIVO UNINOMADE
1. Non c’era bisogno delle parole di Mario Draghi per capire che la crisi ha ormai raggiunto in Europa una soglia di irreversibilità. Crisi di «dimensioni sistemiche», aveva detto Jean-Claude Trichet un paio di mesi fa. Ora Draghi, suo successore alla guida della Banca Centrale Europea, ci informa che «la situazione è peggiorata» (16 gennaio). Difficile capire che cosa significhi il peggioramento di una crisi di «dimensioni sistemiche». Certo è che gli scenari che si prospettano per i prossimi mesi sono assai cupi, non solo per chi ormai da anni sta pagando la crisi e il farmaco che la alimenta – l’austerità, o più “sobriamente” il rigore. Anche settori consistenti del capitale e delle classi dirigenti europee cominciano a essere assaliti dal dubbio che, nel gigantesco processo di riassestamento globale degli equilibri di potere in atto, corrono il rischio di figurare tra i perdenti. Lo spettro del “declino”, se pur non ha smesso di aggirarsi per le metropoli statunitensi, ha preso a frequentare con maggiore assiduità le strade e le piazze d’Europa – o almeno di intere regioni europee. E non mancano i commentatori che intravedono dietro l’azione delle agenzie di rating una razionalità militare, le prime manovre di una «guerra mondiale del debito» in cui l’obiettivo della sopravvivenza del dollaro come moneta sovrana a livello mondiale (con il conseguente mantenimento degli attuali centri di comando sui mercati finanziari) può giustificare lo sgretolamento dell’euro. Sullo sfondo, le notizie che arrivano dallo Stretto di Hormuz ci ricordano che di fronte a una crisi di questa profondità e durata la guerra può essere una “soluzione” da tentare non soltanto sul terreno della finanza e dei debiti “sovrani”.
Diciamolo chiaramente: l’Unione europea, per come l’abbiamo conosciuta in questi anni, è finita. Non è un fatto di cui rallegrarsi. Noi stessi abbiamo di tanto in tanto pensato che le lotte e i movimenti potessero trovare nell’istituzionalità europea in formazione, sul terreno della cittadinanza e della governance, un quadro di riferimento più duttile rispetto agli assetti politici nazionali, uno spazio dentro e contro il quale costruire campagne e articolare piattaforme rivendicative. Bene, quello spazio non esiste più. È questa la prima lezione da trarre dalla crisi in questa parte del mondo. La seconda, tuttavia, è per noi altrettanto importante: sul terreno nazionale ogni ipotesi di fronteggiamento democratico o socialista della crisi si sta mostrando per quello che è – un’illusione priva di ogni efficacia e tendenzialmente pericolosa. Ce lo insegnano due anni di resistenza durissima, e tuttavia appunto ristretta al terreno nazionale, alle politiche di austerità nei Paesi più colpiti dalla crisi. La Grecia è da questo punto emblematica. Difficile immaginare un dispiegamento più radicale e assortito di lotte di resistenza di quello messo in campo in quel Paese – dall’occupazione delle piazze a scioperi generali durati per giorni e giorni, dai tentativi di assalto al Parlamento al blocco di intere città. E tuttavia l’efficacia di questa mobilitazione permanente, in termini di contrasto alle politiche draconiane di tagli e smantellamento dello Stato sociale e dei diritti, è stata pari a zero.
Nessuna spocchia da parte nostra, sia chiaro. Quelle lotte andavano fatte, in Grecia come altrove. Ma al loro interno la prospettiva della mera resistenza (della semplice difesa delle conquiste degli scorsi decenni e delle istituzioni che sembravano deputate a incarnarle) si è trovata di fronte a un limite radicale. Nel momento stesso in cui l’Europa si spoglia definitivamente, agli occhi di milioni di cittadini europei, di ogni veste democratica per resuscitare i fantasmi della dittatura commissaria, dell’esclusività della regolazione monetaria e del dominio coloniale di un preteso centro sulle periferie, la dimensione nazionale si è dimostrata impotente a funzionare come estremo argine e bastione difensivo. Troppo in profondità hanno agito negli ultimi decenni i processi di disarticolazione dello Stato nazionale, troppo compromesse con la logica neo-liberale e finanziaria sono ormai le istituzioni di quest’ultimo, troppo mutata è la composizione del lavoro vivo, troppo marcata è la sproporzione tra la violenza del comando finanziario e le dinamiche della rappresentanza perché si possa pensare oggi a un New Deal su basi nazionali. Un programma di uscita in avanti dalla crisi non può che essere oggi un programma costituente: ai due elementi che per definizione qualificano ogni programma costituente – la fissazione di nuovi principi non negoziabili e la costruzione di nuova istituzionalità – deve tuttavia affiancarsi l’invenzione di un nuovo spazio, che per noi non può che essere europeo. È un compito di cui non ci nascondiamo l’enorme difficoltà. E tuttavia l’avvenire della lotta di classe e di una “sinistra” comunque qualificata in Europa dipende dalla capacità che avremo, nell’immediato futuro, di farcene carico.
2. La radicalità e la profondità della crisi, tanto sul piano globale quanto su quello europeo, sono ormai riconosciute anche da molti analisti mainstream, che parlano apertamente di un orizzonte recessivo di medio periodo. Per quanto riguarda l’Europa, se non interverrà nei prossimi anni una radicale soluzione di continuità, questo significa che ci troveremo di fronte a un’ulteriore scomposizione di uno spazio (politico, sociale e culturale oltre che economico) fin da principio profondamente eterogeneo. Le istituzioni europee presentavano questa eterogeneità come uno dei punti di forza dell’Unione. L’incalzare della crisi ha fatto piazza pulita di queste retoriche. Oggi non si tratta neanche più di un’Europa a due o più velocità. Quanto accade oggi attorno alla Gran Bretagna non è meno significativo del precipitare della Grecia verso la constatazione del default: la City di Londra si candida a funzionare come un magnete che attrae capitali dall’intera Europa, distribuendoli sulle piazze finanziarie globali e contribuendo ad approfondire le dinamiche di rottura dell’unità economica degli stessi Paesi “forti” – a cominciare dalla Germania. Le stesse ipotesi di rottura dell’unità monetaria europea, con la secessione tedesca e la formazione di un nuovo blocco attorno al marco (ne ha parlato spesso Christian Marazzi), scontano l’indebolimento della domanda globale per i prodotti manifatturieri di esportazione e le prime crepe nella stabilità sociale da cui dipende il modello tedesco. Il downgrading della Francia non indebolisce soltanto il “Fondo salva Stati”; fa anche definitivamente saltare l’asse Parigi – Berlino, che si era candidato a giocare un ruolo di direttorio europeo nella crisi e apre un’altra linea di frattura nello spazio istituzionale della UE. A est, la rivolta sociale di questi giorni in Romania apre un altro fronte di radicale instabilità, mentre la deriva fascista del governo ungherese – pur contrastata da un movimento in forte crescita – determina la reazione di Bruxelles solo nel momento in cui arriva demagogicamente a toccare l’autonomia della Banca centrale.
Sono questi processi di scomposizione dello spazio europeo che ci fanno affermare che l’UE, per come l’abbiamo conosciuta in questi anni, è finita. Sia chiaro, questo non significa che le istituzioni europee siano destinate a scomparire o che non esistano disegni di una loro “riforma”. Più correttamente qualcuno (ad esempio Étienne Balibar) ha parlato recentemente di una vera e propria “rivoluzione dall’alto”: ovvero di un tentativo di riallineamento complessivo dell’assetto istituzionale dell’Unione attorno alla Banca centrale europea, con effetti di profonda modifica della costituzione materiale e formale tanto sul piano europeo quanto sul piano nazionale (ovvio è qui il riferimento alla parità di bilancio). Il fiscal compact che verrà firmato a marzo indica la cornice di questo vero e proprio tentativo di management della crisi a guida tedesca, dei cui limiti sono consapevoli gli stessi promotori e che potrà avere qualche chance di successo soltanto in presenza di una recessione in qualche modo “controllata” e di un rallentamento dell’attacco ai “debiti sovrani”. Per la Germania (e non solo), come si diceva, l’alternativa è la secessione dall’euro, con effetti difficilmente prevedibili tanto in Europa quanto a livello globale.
Non ci soffermiamo qui su questo secondo scenario. Più importante ci pare sottolineare che la “rivoluzione dall’alto” attualmente in atto svuota di ogni sostanza democratica, comunque definita, le istituzioni europee e propone anche su questo piano l’urgenza assoluta di un programma costituente. È un’Europa “gotica” quella che si configura, un’Europa dispersa e gerarchica, un’Europa-mercato senza mediazioni democratiche interne efficaci ma investita piuttosto (ed eventualmente ricomposta secondo geometrie e geografie variabili) da un nuovo comando sovrano, quello della Banca – non semplicemente la BCE ma ancora e sempre “i mercati” – che discende dall’alto e si distende diffusamente. Si conclude così brutalmente quel processo cinquantennale di costruzione europea basato su una governance che equilibrava le dissimmetrie e impediva l’apparizione di eventuali sconvolgimenti della gerarchia tradizionale degli Stati. Nel labirinto gotico che si prospetta, con le sue architetture difformi piegate in funzione delle esigenze delle banche e dei “mercati”, a dominare sarà una specie di “pianificazione” dall’alto. È stato notato: una pianificazione quasi-sovietica, non per produrre merci ma per produrre debito – rendendo automatiche le sanzioni contro ogni devianza. È facile prevedere che, contrariamente al sogno federalista e al progetto funzionalista di un’attenuazione della sovranità nel processo di integrazione, attorno a questo assetto prolifereranno sovranismi e nazionalismi. Da una parte nei Paesi “forti”, a protezione di posizioni che già ora il discorso dominante presenta come minacciate dalla debole disciplina fiscale delle “periferie”; dall’altra all’interno di queste ultime, dove la reazione anti-europea comincia ad assumere le forme di una reazione anti-tedesca. Nell’uno e nell’altro caso siamo qui di fronte a fenomeni estremamente pericolosi, che minacciano di diventarlo ogni giorno di più.
3. Questi sovranismi e nazionalismi sono oggi l’altra faccia dell’ipotesi di un’Europa gotica, ovvero di una stabilizzazione “post-neoliberale” del management della crisi. Parliamo di una stabilizzazione post-neoliberale in un senso preciso, sulla base della convinzione che all’interno dello scenario che si va configurando attraverso l’approvazione del fiscal compact assisteremo alla riaffermazione di alcuni dei dogmi essenziali del neoliberalismo senza che si prospettino vie d’uscita effettive dalla crisi. Non vi sono, all’interno di questo scenario, margini effettivi di negoziazione, né sul piano di una modificazione delle politiche della Banca centrale europea né su quello di un’evoluzione del Fondo salva Stati o di un piano di ristrutturazione dei debiti sovrani e di ricapitalizzazione delle banche. Pure illusioni, su queste basi, ci sembrano l’idea di un piano europeo di investimenti per l’occupazione e la prospettiva di una redistribuzione più o meno “equa” della tassazione, e quindi dei redditi da lavoro e della ricchezza. L’Europa della “rivoluzione dall’alto” è costruita per garantire la rendita finanziaria, e tutt’al più ha l’ambizione di garantire un compromesso tra quest’ultima e specifiche frazioni del capitale industriale. I suoi stessi architetti sono consapevoli del fatto che gli attuali assetti globali del capitalismo, con una finanza grande otto volte l’“economia reale”, non sono sopportabili e che ogni politica monetaria (che a questo punto non fa che aiutare la speculazione) può difficilmente reggersi. La stabilizzazione post-neoliberale in Europa è un progetto votato a naufragare, nel lungo periodo. Ma nel lungo periodo, si sa, saremo tutti morti.
Una cosa è certa: se nell’Europa gotica qualcuno sta pensando a comporre gli interessi di diverse frazioni di capitale, nessun riconoscimento viene tributato al lavoro. Tutt’al più, dove ancora ve ne sono le condizioni (ad esempio in Germania) questo riconoscimento trova qualche spazio all’interno delle strutture di concertazione nazionale. Ma da queste strutture sono escluse quote sempre più significative (tanto quantitativamente quanto qualitativamente) di lavoratrici e lavoratori ormai definitivamente precarizzati, mentre la stessa posizione del lavoro “garantito” comincia a essere minacciata da una crisi che non risparmia nessuno. Altrove, nella grande maggioranza dei Paesi europei, l’attacco alle condizioni del lavoro (di quello cognitivo come di quello operaio, di quello migrante come di quello autoctono, di quello dipendente come di quello formalmente autonomo) non sembra conoscere confini. I “debiti sovrani” sono scaricati su donne e uomini sempre più indebitati “privatamente”, l’attacco al salario si combina con quello ai servizi, la disoccupazione con l’erosione dei risparmi familiari e dunque con il dilagare della povertà. Un aumento vertiginoso delle disuguaglianze sociali, già cresciute a dismisura con i processi di finanziarizzazione del capitalismo, è la prima conseguenza di tutto questo.
Torniamo a ripetere quanto abbiamo scritto all’inizio: la resistenza a questi veri e propri processi di spossessamento è non solo sacrosanta, ma indispensabile. È solo dentro lo sviluppo della resistenza che possono prendere forma nuove modalità di cooperazione e una nuova piattaforma rivendicativa che possa unificare soggetti sociali diversi nell’orizzonte di una lotta comune. Questa lotta, secondo l’indicazione di Piazza Tahrir, rilanciata dagli indignados spagnoli e dal movimento occupy negli USA, deve conquistare i propri spazi nelle città europee scosse dalla crisi. Ma perché la lotta diventi costituente, e apra finalmente la prospettiva di un superamento in avanti della crisi, la convergenza tra le diverse forme di resistenza sul terreno metropolitano non è sufficiente. È solo in uno spazio più ampio, che non possiamo fare a meno di definire europeo, che sarà possibile la stesura di un nuovo programma per la conquista del comune, inteso come base materiale di costruzione di una nuova modalità di convivenza, cooperazione e produzione tra liberi e uguali.
È una consapevolezza, questa, ampiamente diffusa all’interno del movimento spagnolo degli indignados, che può trovare un momento di importante consolidamento nella proposta di una mobilitazione europea per cingere d’assedio la Banca centrale europea a Francoforte. il prossimo maggio (nell’anniversario del 15M). Riprendiamoci l’Europa deve diventare la parola d’ordine di quella mobilitazione. Se la crisi minaccia di segnare le nostre vite nei prossimi anni, è per fronteggiare questa temporalità che dobbiamo attrezzarci. Non partiamo da zero: le lotte hanno sedimentato uno straordinario patrimonio di esperienze in molti Paesi europei, mentre le stesse rivolte nel Maghreb e nel Mashreq sono entrate nell’immaginario e nei linguaggi dei movimenti europei. Una grande campagna transnazionale per liberare la vita dal debito (e l’immaginazione politica dal ricatto del default) può oggi segnare l’apertura di uno spazio di movimento a livello europeo. Mentre si moltiplicano su un piano molecolare gli atti e le iniziative di resistenza al debito, si tratta di costruire una sponda politica europea per le lotte, nella prospettiva di costruire elementi di contropotere e di programma. Senza nessuna nostalgia per gli Stati nazionali, senza nessun compromesso con l’Europa gotica.
1. Non c’era bisogno delle parole di Mario Draghi per capire che la crisi ha ormai raggiunto in Europa una soglia di irreversibilità. Crisi di «dimensioni sistemiche», aveva detto Jean-Claude Trichet un paio di mesi fa. Ora Draghi, suo successore alla guida della Banca Centrale Europea, ci informa che «la situazione è peggiorata» (16 gennaio). Difficile capire che cosa significhi il peggioramento di una crisi di «dimensioni sistemiche». Certo è che gli scenari che si prospettano per i prossimi mesi sono assai cupi, non solo per chi ormai da anni sta pagando la crisi e il farmaco che la alimenta – l’austerità, o più “sobriamente” il rigore. Anche settori consistenti del capitale e delle classi dirigenti europee cominciano a essere assaliti dal dubbio che, nel gigantesco processo di riassestamento globale degli equilibri di potere in atto, corrono il rischio di figurare tra i perdenti. Lo spettro del “declino”, se pur non ha smesso di aggirarsi per le metropoli statunitensi, ha preso a frequentare con maggiore assiduità le strade e le piazze d’Europa – o almeno di intere regioni europee. E non mancano i commentatori che intravedono dietro l’azione delle agenzie di rating una razionalità militare, le prime manovre di una «guerra mondiale del debito» in cui l’obiettivo della sopravvivenza del dollaro come moneta sovrana a livello mondiale (con il conseguente mantenimento degli attuali centri di comando sui mercati finanziari) può giustificare lo sgretolamento dell’euro. Sullo sfondo, le notizie che arrivano dallo Stretto di Hormuz ci ricordano che di fronte a una crisi di questa profondità e durata la guerra può essere una “soluzione” da tentare non soltanto sul terreno della finanza e dei debiti “sovrani”.
Diciamolo chiaramente: l’Unione europea, per come l’abbiamo conosciuta in questi anni, è finita. Non è un fatto di cui rallegrarsi. Noi stessi abbiamo di tanto in tanto pensato che le lotte e i movimenti potessero trovare nell’istituzionalità europea in formazione, sul terreno della cittadinanza e della governance, un quadro di riferimento più duttile rispetto agli assetti politici nazionali, uno spazio dentro e contro il quale costruire campagne e articolare piattaforme rivendicative. Bene, quello spazio non esiste più. È questa la prima lezione da trarre dalla crisi in questa parte del mondo. La seconda, tuttavia, è per noi altrettanto importante: sul terreno nazionale ogni ipotesi di fronteggiamento democratico o socialista della crisi si sta mostrando per quello che è – un’illusione priva di ogni efficacia e tendenzialmente pericolosa. Ce lo insegnano due anni di resistenza durissima, e tuttavia appunto ristretta al terreno nazionale, alle politiche di austerità nei Paesi più colpiti dalla crisi. La Grecia è da questo punto emblematica. Difficile immaginare un dispiegamento più radicale e assortito di lotte di resistenza di quello messo in campo in quel Paese – dall’occupazione delle piazze a scioperi generali durati per giorni e giorni, dai tentativi di assalto al Parlamento al blocco di intere città. E tuttavia l’efficacia di questa mobilitazione permanente, in termini di contrasto alle politiche draconiane di tagli e smantellamento dello Stato sociale e dei diritti, è stata pari a zero.
Nessuna spocchia da parte nostra, sia chiaro. Quelle lotte andavano fatte, in Grecia come altrove. Ma al loro interno la prospettiva della mera resistenza (della semplice difesa delle conquiste degli scorsi decenni e delle istituzioni che sembravano deputate a incarnarle) si è trovata di fronte a un limite radicale. Nel momento stesso in cui l’Europa si spoglia definitivamente, agli occhi di milioni di cittadini europei, di ogni veste democratica per resuscitare i fantasmi della dittatura commissaria, dell’esclusività della regolazione monetaria e del dominio coloniale di un preteso centro sulle periferie, la dimensione nazionale si è dimostrata impotente a funzionare come estremo argine e bastione difensivo. Troppo in profondità hanno agito negli ultimi decenni i processi di disarticolazione dello Stato nazionale, troppo compromesse con la logica neo-liberale e finanziaria sono ormai le istituzioni di quest’ultimo, troppo mutata è la composizione del lavoro vivo, troppo marcata è la sproporzione tra la violenza del comando finanziario e le dinamiche della rappresentanza perché si possa pensare oggi a un New Deal su basi nazionali. Un programma di uscita in avanti dalla crisi non può che essere oggi un programma costituente: ai due elementi che per definizione qualificano ogni programma costituente – la fissazione di nuovi principi non negoziabili e la costruzione di nuova istituzionalità – deve tuttavia affiancarsi l’invenzione di un nuovo spazio, che per noi non può che essere europeo. È un compito di cui non ci nascondiamo l’enorme difficoltà. E tuttavia l’avvenire della lotta di classe e di una “sinistra” comunque qualificata in Europa dipende dalla capacità che avremo, nell’immediato futuro, di farcene carico.
2. La radicalità e la profondità della crisi, tanto sul piano globale quanto su quello europeo, sono ormai riconosciute anche da molti analisti mainstream, che parlano apertamente di un orizzonte recessivo di medio periodo. Per quanto riguarda l’Europa, se non interverrà nei prossimi anni una radicale soluzione di continuità, questo significa che ci troveremo di fronte a un’ulteriore scomposizione di uno spazio (politico, sociale e culturale oltre che economico) fin da principio profondamente eterogeneo. Le istituzioni europee presentavano questa eterogeneità come uno dei punti di forza dell’Unione. L’incalzare della crisi ha fatto piazza pulita di queste retoriche. Oggi non si tratta neanche più di un’Europa a due o più velocità. Quanto accade oggi attorno alla Gran Bretagna non è meno significativo del precipitare della Grecia verso la constatazione del default: la City di Londra si candida a funzionare come un magnete che attrae capitali dall’intera Europa, distribuendoli sulle piazze finanziarie globali e contribuendo ad approfondire le dinamiche di rottura dell’unità economica degli stessi Paesi “forti” – a cominciare dalla Germania. Le stesse ipotesi di rottura dell’unità monetaria europea, con la secessione tedesca e la formazione di un nuovo blocco attorno al marco (ne ha parlato spesso Christian Marazzi), scontano l’indebolimento della domanda globale per i prodotti manifatturieri di esportazione e le prime crepe nella stabilità sociale da cui dipende il modello tedesco. Il downgrading della Francia non indebolisce soltanto il “Fondo salva Stati”; fa anche definitivamente saltare l’asse Parigi – Berlino, che si era candidato a giocare un ruolo di direttorio europeo nella crisi e apre un’altra linea di frattura nello spazio istituzionale della UE. A est, la rivolta sociale di questi giorni in Romania apre un altro fronte di radicale instabilità, mentre la deriva fascista del governo ungherese – pur contrastata da un movimento in forte crescita – determina la reazione di Bruxelles solo nel momento in cui arriva demagogicamente a toccare l’autonomia della Banca centrale.
Sono questi processi di scomposizione dello spazio europeo che ci fanno affermare che l’UE, per come l’abbiamo conosciuta in questi anni, è finita. Sia chiaro, questo non significa che le istituzioni europee siano destinate a scomparire o che non esistano disegni di una loro “riforma”. Più correttamente qualcuno (ad esempio Étienne Balibar) ha parlato recentemente di una vera e propria “rivoluzione dall’alto”: ovvero di un tentativo di riallineamento complessivo dell’assetto istituzionale dell’Unione attorno alla Banca centrale europea, con effetti di profonda modifica della costituzione materiale e formale tanto sul piano europeo quanto sul piano nazionale (ovvio è qui il riferimento alla parità di bilancio). Il fiscal compact che verrà firmato a marzo indica la cornice di questo vero e proprio tentativo di management della crisi a guida tedesca, dei cui limiti sono consapevoli gli stessi promotori e che potrà avere qualche chance di successo soltanto in presenza di una recessione in qualche modo “controllata” e di un rallentamento dell’attacco ai “debiti sovrani”. Per la Germania (e non solo), come si diceva, l’alternativa è la secessione dall’euro, con effetti difficilmente prevedibili tanto in Europa quanto a livello globale.
Non ci soffermiamo qui su questo secondo scenario. Più importante ci pare sottolineare che la “rivoluzione dall’alto” attualmente in atto svuota di ogni sostanza democratica, comunque definita, le istituzioni europee e propone anche su questo piano l’urgenza assoluta di un programma costituente. È un’Europa “gotica” quella che si configura, un’Europa dispersa e gerarchica, un’Europa-mercato senza mediazioni democratiche interne efficaci ma investita piuttosto (ed eventualmente ricomposta secondo geometrie e geografie variabili) da un nuovo comando sovrano, quello della Banca – non semplicemente la BCE ma ancora e sempre “i mercati” – che discende dall’alto e si distende diffusamente. Si conclude così brutalmente quel processo cinquantennale di costruzione europea basato su una governance che equilibrava le dissimmetrie e impediva l’apparizione di eventuali sconvolgimenti della gerarchia tradizionale degli Stati. Nel labirinto gotico che si prospetta, con le sue architetture difformi piegate in funzione delle esigenze delle banche e dei “mercati”, a dominare sarà una specie di “pianificazione” dall’alto. È stato notato: una pianificazione quasi-sovietica, non per produrre merci ma per produrre debito – rendendo automatiche le sanzioni contro ogni devianza. È facile prevedere che, contrariamente al sogno federalista e al progetto funzionalista di un’attenuazione della sovranità nel processo di integrazione, attorno a questo assetto prolifereranno sovranismi e nazionalismi. Da una parte nei Paesi “forti”, a protezione di posizioni che già ora il discorso dominante presenta come minacciate dalla debole disciplina fiscale delle “periferie”; dall’altra all’interno di queste ultime, dove la reazione anti-europea comincia ad assumere le forme di una reazione anti-tedesca. Nell’uno e nell’altro caso siamo qui di fronte a fenomeni estremamente pericolosi, che minacciano di diventarlo ogni giorno di più.
3. Questi sovranismi e nazionalismi sono oggi l’altra faccia dell’ipotesi di un’Europa gotica, ovvero di una stabilizzazione “post-neoliberale” del management della crisi. Parliamo di una stabilizzazione post-neoliberale in un senso preciso, sulla base della convinzione che all’interno dello scenario che si va configurando attraverso l’approvazione del fiscal compact assisteremo alla riaffermazione di alcuni dei dogmi essenziali del neoliberalismo senza che si prospettino vie d’uscita effettive dalla crisi. Non vi sono, all’interno di questo scenario, margini effettivi di negoziazione, né sul piano di una modificazione delle politiche della Banca centrale europea né su quello di un’evoluzione del Fondo salva Stati o di un piano di ristrutturazione dei debiti sovrani e di ricapitalizzazione delle banche. Pure illusioni, su queste basi, ci sembrano l’idea di un piano europeo di investimenti per l’occupazione e la prospettiva di una redistribuzione più o meno “equa” della tassazione, e quindi dei redditi da lavoro e della ricchezza. L’Europa della “rivoluzione dall’alto” è costruita per garantire la rendita finanziaria, e tutt’al più ha l’ambizione di garantire un compromesso tra quest’ultima e specifiche frazioni del capitale industriale. I suoi stessi architetti sono consapevoli del fatto che gli attuali assetti globali del capitalismo, con una finanza grande otto volte l’“economia reale”, non sono sopportabili e che ogni politica monetaria (che a questo punto non fa che aiutare la speculazione) può difficilmente reggersi. La stabilizzazione post-neoliberale in Europa è un progetto votato a naufragare, nel lungo periodo. Ma nel lungo periodo, si sa, saremo tutti morti.
Una cosa è certa: se nell’Europa gotica qualcuno sta pensando a comporre gli interessi di diverse frazioni di capitale, nessun riconoscimento viene tributato al lavoro. Tutt’al più, dove ancora ve ne sono le condizioni (ad esempio in Germania) questo riconoscimento trova qualche spazio all’interno delle strutture di concertazione nazionale. Ma da queste strutture sono escluse quote sempre più significative (tanto quantitativamente quanto qualitativamente) di lavoratrici e lavoratori ormai definitivamente precarizzati, mentre la stessa posizione del lavoro “garantito” comincia a essere minacciata da una crisi che non risparmia nessuno. Altrove, nella grande maggioranza dei Paesi europei, l’attacco alle condizioni del lavoro (di quello cognitivo come di quello operaio, di quello migrante come di quello autoctono, di quello dipendente come di quello formalmente autonomo) non sembra conoscere confini. I “debiti sovrani” sono scaricati su donne e uomini sempre più indebitati “privatamente”, l’attacco al salario si combina con quello ai servizi, la disoccupazione con l’erosione dei risparmi familiari e dunque con il dilagare della povertà. Un aumento vertiginoso delle disuguaglianze sociali, già cresciute a dismisura con i processi di finanziarizzazione del capitalismo, è la prima conseguenza di tutto questo.
Torniamo a ripetere quanto abbiamo scritto all’inizio: la resistenza a questi veri e propri processi di spossessamento è non solo sacrosanta, ma indispensabile. È solo dentro lo sviluppo della resistenza che possono prendere forma nuove modalità di cooperazione e una nuova piattaforma rivendicativa che possa unificare soggetti sociali diversi nell’orizzonte di una lotta comune. Questa lotta, secondo l’indicazione di Piazza Tahrir, rilanciata dagli indignados spagnoli e dal movimento occupy negli USA, deve conquistare i propri spazi nelle città europee scosse dalla crisi. Ma perché la lotta diventi costituente, e apra finalmente la prospettiva di un superamento in avanti della crisi, la convergenza tra le diverse forme di resistenza sul terreno metropolitano non è sufficiente. È solo in uno spazio più ampio, che non possiamo fare a meno di definire europeo, che sarà possibile la stesura di un nuovo programma per la conquista del comune, inteso come base materiale di costruzione di una nuova modalità di convivenza, cooperazione e produzione tra liberi e uguali.
È una consapevolezza, questa, ampiamente diffusa all’interno del movimento spagnolo degli indignados, che può trovare un momento di importante consolidamento nella proposta di una mobilitazione europea per cingere d’assedio la Banca centrale europea a Francoforte. il prossimo maggio (nell’anniversario del 15M). Riprendiamoci l’Europa deve diventare la parola d’ordine di quella mobilitazione. Se la crisi minaccia di segnare le nostre vite nei prossimi anni, è per fronteggiare questa temporalità che dobbiamo attrezzarci. Non partiamo da zero: le lotte hanno sedimentato uno straordinario patrimonio di esperienze in molti Paesi europei, mentre le stesse rivolte nel Maghreb e nel Mashreq sono entrate nell’immaginario e nei linguaggi dei movimenti europei. Una grande campagna transnazionale per liberare la vita dal debito (e l’immaginazione politica dal ricatto del default) può oggi segnare l’apertura di uno spazio di movimento a livello europeo. Mentre si moltiplicano su un piano molecolare gli atti e le iniziative di resistenza al debito, si tratta di costruire una sponda politica europea per le lotte, nella prospettiva di costruire elementi di contropotere e di programma. Senza nessuna nostalgia per gli Stati nazionali, senza nessun compromesso con l’Europa gotica.
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