Dino Greco (Liberazione del 29/07/2011) Fonte
Il più bizzarro dei sodalizi immaginabili da mente sobria si è alla fine materializzato al capezzale dell'economia italiana. Banche, imprese, sindacati hanno sottoscritto un surreale documento comune. Un testo che è un appello accorato a «mettere da parte le divisioni e gli interessi di parte, facendosi carico di un atto di volontà nell'interesse di tutti». In parole povere, di fronte ad Annibale alle porte, ci raccontano che servirebbe una sorta di afflato corale, un interclassismo operoso capace di proteggere il Paese da un nemico potente e indomabile, quella speculazione che - discesa dai cieli della metafisica - sta abbattendosi come un ciclone sulle fibre sderenate di un'Italia senza guida. La parola d'ordine, manco a dirlo, è «rassicurare i mercati», incuranti delle misure placebo sino ad ora adottate per arginare la crisi, considerato che, come nei peggiori incubi onirici, ad ogni giro di giostra si torna al punto di partenza, un pò più poveri e indifesi di prima. La circostanza che fra i terapeuti d'occasione, fra i sottoscrittori dell'accoratissimo appello figurino anche gli "untori", non ha impedito alla stampa "per bene", la Repubblica in prima linea, di salutare con entusiasmo la ritrovata coesione fra le parti sociali, come solennemente auspicato da Giorgio Napolitano. Per fare cosa e per andare dove non è dato - per il momento - sapere. La sola cosa che si capisce, sebbene espressa in linguaggio criptato, è che bisogna liberare l'Italia dal fattore B., da un governo in coma apallico e quindi incapace di tutto, se non di fare danni. Quanto a chi dovrebbe salire in plancia di comando e a quale debba essere la direzione di marcia, ciascuno è libero di tirare la coperta dove vuole. Almeno in apparenza, perché gli ideologhi che supportano questa chiamata alla solidarietà nazionale un riferimento l'hanno ben chiaro. E' lo spirito del '92, quando Giuliano Amato impose una terrificante manovra finanziaria, che in una sola mossa assestò un colpo poderoso ai salari, alle pensioni, al welfare, e distrusse l'intero sistema delle relazioni industriali a quel tempo vigente, abolendo definitivamente ciò che restava del meccanismo di indicizzazione delle retribuzioni, la scala mobile. Poi, come è noto, Amato aggiunse al pacco la svalutazione della lira che uscì dal Serpente monetario europeo determinando un'ulteriore, formidabile contrazione dei redditi da lavoro. Quel combinato disposto riplasmò dalle fondamenta le relazioni sociali nel Paese, razionalizzando l'attacco all'autonomia del sindacato e preparando la strada a quel sistema concertativo che l'anno successivo avrebbe imbrigliato drasticamente l'azione rivendicativa delle organizzazioni dei lavoratori.
La competitività delle merci italiane sui mercati esteri e le esportazioni, drogate dalla svalutazione, ripresero fiato e i profitti d'impresa tornarono a crescere, in ragione inversamente proporzionale alla quota di pil appannaggio del lavoro. Così, mentre la dinamica delle retribuzioni disegnava una parabola che avrebbe sprofondato i salari ai livelli in valore assoluto più bassi d'Europa, i profitti non venivano reinvestiti, se non in minima parte, in ricerca e innovazione. Che ne è stato? Semplicemente, essi sono stati "patrimonializzati", trasformati cioè in immobili e beni di lusso, in prodotti finanziari e, in parte cospicua, in capitali che hanno preso la strada dei paradisi fiscali. La bassa produttività dell'industria nostrana, l'odierna "crescita zero" del Paese non ha dunque la sua origine soltanto nel liberismo d'accatto, nell'euforia mercatista delle sue classi dirigenti politiche, responsabili di avere liquidato qualsiasi pur labile idea di poltica industriale e di avere abbandonato il Mezzogiorno. Essa ha le sue persistenti radici nel congenito nananismo del nostro apparato produttivo, nel carattere usurario di un sistema d'impresa che ha puntato le sue carte sulla compressione del lavoro, trasformando il rischio d'impresa in un reperto archeologico da consegnare ai manuali di economia classica.
Quel rutilante richiamo alla discontinuità che il documento tripartito rivendica ad un governo il default di credibilità è perciò del tutto reticente, in un Paese che detiene il record delle fatturazioni false, dove il venti per cento del pil lo si genera in "nero", dove l'evasione fiscale vale qualcosa come 230 miliardi su base annua e dove all'impoverimento di massa corrisponde, specularmente, l'arricchimento di pochi.
Colpire la disuguaglianza e l'accumulazione perversa di ricchezza, redistribuire drasticamente il plusvalore estratto dal lavoro sono le prime e più impotanti misure economiche da adottare, la vera discontinuità da affermare.
Qualcuno ha ragione di credere che i sottoscrittori dell'appello, la più parte dei quali ha salutato come buona e opportuna la manovra appena varata dal governo a carico dei ceti più deboli, pensino a questo? Arduo immaginarlo. Ne fa fede la levata di scudi contro l'ipotesi di una tassa sui grandi patrimoni. Con più che disinvolta ipocrisia si è detto che una simile misura non avrebbe un carattere strutturale, ma servirebbe soltanto a fare cassa. Per questo, invece, vanno benissimo salari e pensioni. Del resto, come ricordava l'ineffabile Giuliano Cazzola - uno di quelli che per spudoratezza o poca scaltrezza dicono apertis verbis ciò che altri nascondono - come si fa ad accertare l'autentica consistenza della ricchezza patrimoniale, al di là di ciò che rivelano le formali denunce dei redditi? Già, come si fa? Come a dire che alle tradizionali ricette fondate sulla macelleria sociale non c'è vera alternativa. Ed infatti alternativa non c'è, restando nel perimetro dei rapporti sociali e politici dati.
Per fare saltare il tappo servirebbe una scossa molto profonda, tale da rompere gli inossidabili equilibri entro i quali si definisce l'ordine delle cose possibili. E anche solo pensabili. Solo un imponente movimento di lotta potrebbe dettare condizioni nuove e costringere il capitale e i poteri forti a venire a patti. Se l'alternativa a Berlusconi rimarrà invece inscritta nel consunto ricettario liberale, potremo - forse - affrancarci dal caudillo e da qualcuno dei suoi più corrotti cortigiani, ma i cittadini, i lavoratori, la democrazia rimarranno sotto schiaffo e nulla salverà il Paese da una caduta rovinosa.
Ecco perché quell'ecumenico appello che sembra anticipare una questua di fedi da donare alla patria non è soltanto inutile, bensì nocivo, perché consegna la ricerca delle soluzioni a coloro che dello stato di cose presente sono la causa e dai quali non è lecito attendersi nulla di buono.
Il più bizzarro dei sodalizi immaginabili da mente sobria si è alla fine materializzato al capezzale dell'economia italiana. Banche, imprese, sindacati hanno sottoscritto un surreale documento comune. Un testo che è un appello accorato a «mettere da parte le divisioni e gli interessi di parte, facendosi carico di un atto di volontà nell'interesse di tutti». In parole povere, di fronte ad Annibale alle porte, ci raccontano che servirebbe una sorta di afflato corale, un interclassismo operoso capace di proteggere il Paese da un nemico potente e indomabile, quella speculazione che - discesa dai cieli della metafisica - sta abbattendosi come un ciclone sulle fibre sderenate di un'Italia senza guida. La parola d'ordine, manco a dirlo, è «rassicurare i mercati», incuranti delle misure placebo sino ad ora adottate per arginare la crisi, considerato che, come nei peggiori incubi onirici, ad ogni giro di giostra si torna al punto di partenza, un pò più poveri e indifesi di prima. La circostanza che fra i terapeuti d'occasione, fra i sottoscrittori dell'accoratissimo appello figurino anche gli "untori", non ha impedito alla stampa "per bene", la Repubblica in prima linea, di salutare con entusiasmo la ritrovata coesione fra le parti sociali, come solennemente auspicato da Giorgio Napolitano. Per fare cosa e per andare dove non è dato - per il momento - sapere. La sola cosa che si capisce, sebbene espressa in linguaggio criptato, è che bisogna liberare l'Italia dal fattore B., da un governo in coma apallico e quindi incapace di tutto, se non di fare danni. Quanto a chi dovrebbe salire in plancia di comando e a quale debba essere la direzione di marcia, ciascuno è libero di tirare la coperta dove vuole. Almeno in apparenza, perché gli ideologhi che supportano questa chiamata alla solidarietà nazionale un riferimento l'hanno ben chiaro. E' lo spirito del '92, quando Giuliano Amato impose una terrificante manovra finanziaria, che in una sola mossa assestò un colpo poderoso ai salari, alle pensioni, al welfare, e distrusse l'intero sistema delle relazioni industriali a quel tempo vigente, abolendo definitivamente ciò che restava del meccanismo di indicizzazione delle retribuzioni, la scala mobile. Poi, come è noto, Amato aggiunse al pacco la svalutazione della lira che uscì dal Serpente monetario europeo determinando un'ulteriore, formidabile contrazione dei redditi da lavoro. Quel combinato disposto riplasmò dalle fondamenta le relazioni sociali nel Paese, razionalizzando l'attacco all'autonomia del sindacato e preparando la strada a quel sistema concertativo che l'anno successivo avrebbe imbrigliato drasticamente l'azione rivendicativa delle organizzazioni dei lavoratori.
La competitività delle merci italiane sui mercati esteri e le esportazioni, drogate dalla svalutazione, ripresero fiato e i profitti d'impresa tornarono a crescere, in ragione inversamente proporzionale alla quota di pil appannaggio del lavoro. Così, mentre la dinamica delle retribuzioni disegnava una parabola che avrebbe sprofondato i salari ai livelli in valore assoluto più bassi d'Europa, i profitti non venivano reinvestiti, se non in minima parte, in ricerca e innovazione. Che ne è stato? Semplicemente, essi sono stati "patrimonializzati", trasformati cioè in immobili e beni di lusso, in prodotti finanziari e, in parte cospicua, in capitali che hanno preso la strada dei paradisi fiscali. La bassa produttività dell'industria nostrana, l'odierna "crescita zero" del Paese non ha dunque la sua origine soltanto nel liberismo d'accatto, nell'euforia mercatista delle sue classi dirigenti politiche, responsabili di avere liquidato qualsiasi pur labile idea di poltica industriale e di avere abbandonato il Mezzogiorno. Essa ha le sue persistenti radici nel congenito nananismo del nostro apparato produttivo, nel carattere usurario di un sistema d'impresa che ha puntato le sue carte sulla compressione del lavoro, trasformando il rischio d'impresa in un reperto archeologico da consegnare ai manuali di economia classica.
Quel rutilante richiamo alla discontinuità che il documento tripartito rivendica ad un governo il default di credibilità è perciò del tutto reticente, in un Paese che detiene il record delle fatturazioni false, dove il venti per cento del pil lo si genera in "nero", dove l'evasione fiscale vale qualcosa come 230 miliardi su base annua e dove all'impoverimento di massa corrisponde, specularmente, l'arricchimento di pochi.
Colpire la disuguaglianza e l'accumulazione perversa di ricchezza, redistribuire drasticamente il plusvalore estratto dal lavoro sono le prime e più impotanti misure economiche da adottare, la vera discontinuità da affermare.
Qualcuno ha ragione di credere che i sottoscrittori dell'appello, la più parte dei quali ha salutato come buona e opportuna la manovra appena varata dal governo a carico dei ceti più deboli, pensino a questo? Arduo immaginarlo. Ne fa fede la levata di scudi contro l'ipotesi di una tassa sui grandi patrimoni. Con più che disinvolta ipocrisia si è detto che una simile misura non avrebbe un carattere strutturale, ma servirebbe soltanto a fare cassa. Per questo, invece, vanno benissimo salari e pensioni. Del resto, come ricordava l'ineffabile Giuliano Cazzola - uno di quelli che per spudoratezza o poca scaltrezza dicono apertis verbis ciò che altri nascondono - come si fa ad accertare l'autentica consistenza della ricchezza patrimoniale, al di là di ciò che rivelano le formali denunce dei redditi? Già, come si fa? Come a dire che alle tradizionali ricette fondate sulla macelleria sociale non c'è vera alternativa. Ed infatti alternativa non c'è, restando nel perimetro dei rapporti sociali e politici dati.
Per fare saltare il tappo servirebbe una scossa molto profonda, tale da rompere gli inossidabili equilibri entro i quali si definisce l'ordine delle cose possibili. E anche solo pensabili. Solo un imponente movimento di lotta potrebbe dettare condizioni nuove e costringere il capitale e i poteri forti a venire a patti. Se l'alternativa a Berlusconi rimarrà invece inscritta nel consunto ricettario liberale, potremo - forse - affrancarci dal caudillo e da qualcuno dei suoi più corrotti cortigiani, ma i cittadini, i lavoratori, la democrazia rimarranno sotto schiaffo e nulla salverà il Paese da una caduta rovinosa.
Ecco perché quell'ecumenico appello che sembra anticipare una questua di fedi da donare alla patria non è soltanto inutile, bensì nocivo, perché consegna la ricerca delle soluzioni a coloro che dello stato di cose presente sono la causa e dai quali non è lecito attendersi nulla di buono.
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