di Antonio Tricarico * su Liberazione del 24/07/2011. Fonte: esserecomunisti
Dieci anni sono trascori dal G8 di Genova, e profondi cambiamenti sono avvenuti nell'economia e nella politica internazionale. In questa transizione accelerata dalla crisi finanziaria del 2007, il cui esito rimane incerto, i paesi emergenti non hanno arrestato la loro crescita e gli Usa, per quanto ormai nella fase argentea del loro dominio globale, ancora sopravvivono grazie alla supremazia incontrastata del dollaro, non ancora sfidata appieno dalla Cina. Al contrario la vera sconfitta ad oggi dalla crisi e dall'evoluzione "turbo" del capitalismo finanziario dell'ultimo decennio è senza dubbio l'Unione europea ed il suo progetto politico a quasi sessant'anni dalla sua nascita. Dopo la riunificazione tedesca e l'allargamento ad est è finita l'era della solidarietà che ha ispirato la nascita dell'Unione ed una volta che la crisi è divenuta del debito sovrano dei paesi della periferia europea, a partire dalla Grecia, è stato chiaro che la Germania e chi poteva permetterselo si è rifiutato questa volta di pagare il prezzo dell'ulteriore integrazione politica ed economica.
Di fronte alla crisi di oggi, a cui i governi europei giovedì hanno risposto con un inadeguato piano di aiuti in cambio di austerità, con costi ridicoli per le banche private, emerge con chiarezza che l'introduzione dell'euro è stato un punto di rottura nel progetto europeo. La creazione di una banca centrale europea indipendente dalla politica con il solo obiettivo di controllare l'inflazione, senza alcuna integrazione economica a livello di politiche fiscali e generazione di risorse comuni - i cosiddetti Eurobond - è stata una follia che soltanto l'invasamento liberista poteva concepire. Oggi è fondamentale che si metta fine a questa indipendenza e ci si riappropri della capacità politica di definire politiche monetarie e fiscali che sostengano l'uscita dalla crisi, la redistribuzione della ricchezza e la creazione di lavoro.
Ma il problema non è solo monetario. Fino a che la Commissione ed il Consiglio europei non capiscono che l'unico modo per regolamentare la finanza, sgonfiando i mercati finanziari per poi subordinarli alle necessità dell'economia reale, è quello di tornare a controllare i movimenti dei capitali in Europa, eventualmente anche tassando le transazioni finanziarie per ridurre ulteriormente i movimenti speculativi, difficilmente ci si potrà riappropriare del controllo politico sulla finanza. Il potere delle lobby finanziarie è ormai sterminato e soltanto togliendo la terra sotto i piedi ai mercati finanziari è possibile indurre un vero cambiamento. L'Europa se lo può permettere, anche da subito - per altro di fronte al ridimensionamento dopo la crisi dell'economia "finanziaria" inglese - avendo un'area economica sufficientemente ampia per progettare uno sviluppo definanziarizzato e diverso.
Però anche questa riconfigurazione del ruolo della finanza non basterà ad aprire lo spazio politico per costruire un'altra Europa sociale e solidale. Il problema di fondo è economico e se non si chiarisce quale modello economico e sociale l'Europa debba perseguire in questa era di evoluzione della globalizzazione, difficilmente si darà una risposta duratura ai problemi. La crisi del debito sovrano trova le sue radici negli enormi squilibri macroeconomici interni all'Unione europea stessa. In breve, la periferia è subordinata al centro "germanico" che persegue un modello di competizione globale, scaricando il suo eccesso di produzione anche sui paesi della periferia così come l'eccesso di liquidità che le banche tedesche e nord europee si ritrovano. Questo rende i paesi della periferia dipendenti dagli investimenti esterni e dall'importazione di beni e servizi, e così li rende sempre più indebitati e deindustrializzati.
Insomma tutti lavorano per rendere la Germania e settori industriali di pochi altri paesi competitivi globalmente. Per altro la politica al ribasso dei salari in Germania genera una sorta di dumping sociale interno alla stessa Unione. L'unico modo per uscire da questo squilibrio strutturale è di rinnegare il mantra della crescita centrata sull'export e costruire un'Europa economica post-liberista che guardi al suo interno isolandosi dalla competizione globale al ribasso. Per altro prima o poi la finanziarizzazione spinta dell'economia globale ridurrebbe anche la potenza della Germania manifatturiera.
In breve l'Unione europea può diventare autosufficiente a meno della questione energetica. Ma proprio questa dovrebbe dare spinta per una urgente transizione verso un'economia a basso impatto di carbonio. Su queste basi sarebbe possibile costruire un new deal "verde", che redistribuisca ricchezza e sostenibilità rifondando un'Unione europea sociale. Quello che il popolo di Genova dal 2001 ha sostenuto inascoltato dai governi.
*Campagna per la riforma della Banca Mondiale
Dieci anni sono trascori dal G8 di Genova, e profondi cambiamenti sono avvenuti nell'economia e nella politica internazionale. In questa transizione accelerata dalla crisi finanziaria del 2007, il cui esito rimane incerto, i paesi emergenti non hanno arrestato la loro crescita e gli Usa, per quanto ormai nella fase argentea del loro dominio globale, ancora sopravvivono grazie alla supremazia incontrastata del dollaro, non ancora sfidata appieno dalla Cina. Al contrario la vera sconfitta ad oggi dalla crisi e dall'evoluzione "turbo" del capitalismo finanziario dell'ultimo decennio è senza dubbio l'Unione europea ed il suo progetto politico a quasi sessant'anni dalla sua nascita. Dopo la riunificazione tedesca e l'allargamento ad est è finita l'era della solidarietà che ha ispirato la nascita dell'Unione ed una volta che la crisi è divenuta del debito sovrano dei paesi della periferia europea, a partire dalla Grecia, è stato chiaro che la Germania e chi poteva permetterselo si è rifiutato questa volta di pagare il prezzo dell'ulteriore integrazione politica ed economica.
Di fronte alla crisi di oggi, a cui i governi europei giovedì hanno risposto con un inadeguato piano di aiuti in cambio di austerità, con costi ridicoli per le banche private, emerge con chiarezza che l'introduzione dell'euro è stato un punto di rottura nel progetto europeo. La creazione di una banca centrale europea indipendente dalla politica con il solo obiettivo di controllare l'inflazione, senza alcuna integrazione economica a livello di politiche fiscali e generazione di risorse comuni - i cosiddetti Eurobond - è stata una follia che soltanto l'invasamento liberista poteva concepire. Oggi è fondamentale che si metta fine a questa indipendenza e ci si riappropri della capacità politica di definire politiche monetarie e fiscali che sostengano l'uscita dalla crisi, la redistribuzione della ricchezza e la creazione di lavoro.
Ma il problema non è solo monetario. Fino a che la Commissione ed il Consiglio europei non capiscono che l'unico modo per regolamentare la finanza, sgonfiando i mercati finanziari per poi subordinarli alle necessità dell'economia reale, è quello di tornare a controllare i movimenti dei capitali in Europa, eventualmente anche tassando le transazioni finanziarie per ridurre ulteriormente i movimenti speculativi, difficilmente ci si potrà riappropriare del controllo politico sulla finanza. Il potere delle lobby finanziarie è ormai sterminato e soltanto togliendo la terra sotto i piedi ai mercati finanziari è possibile indurre un vero cambiamento. L'Europa se lo può permettere, anche da subito - per altro di fronte al ridimensionamento dopo la crisi dell'economia "finanziaria" inglese - avendo un'area economica sufficientemente ampia per progettare uno sviluppo definanziarizzato e diverso.
Però anche questa riconfigurazione del ruolo della finanza non basterà ad aprire lo spazio politico per costruire un'altra Europa sociale e solidale. Il problema di fondo è economico e se non si chiarisce quale modello economico e sociale l'Europa debba perseguire in questa era di evoluzione della globalizzazione, difficilmente si darà una risposta duratura ai problemi. La crisi del debito sovrano trova le sue radici negli enormi squilibri macroeconomici interni all'Unione europea stessa. In breve, la periferia è subordinata al centro "germanico" che persegue un modello di competizione globale, scaricando il suo eccesso di produzione anche sui paesi della periferia così come l'eccesso di liquidità che le banche tedesche e nord europee si ritrovano. Questo rende i paesi della periferia dipendenti dagli investimenti esterni e dall'importazione di beni e servizi, e così li rende sempre più indebitati e deindustrializzati.
Insomma tutti lavorano per rendere la Germania e settori industriali di pochi altri paesi competitivi globalmente. Per altro la politica al ribasso dei salari in Germania genera una sorta di dumping sociale interno alla stessa Unione. L'unico modo per uscire da questo squilibrio strutturale è di rinnegare il mantra della crescita centrata sull'export e costruire un'Europa economica post-liberista che guardi al suo interno isolandosi dalla competizione globale al ribasso. Per altro prima o poi la finanziarizzazione spinta dell'economia globale ridurrebbe anche la potenza della Germania manifatturiera.
In breve l'Unione europea può diventare autosufficiente a meno della questione energetica. Ma proprio questa dovrebbe dare spinta per una urgente transizione verso un'economia a basso impatto di carbonio. Su queste basi sarebbe possibile costruire un new deal "verde", che redistribuisca ricchezza e sostenibilità rifondando un'Unione europea sociale. Quello che il popolo di Genova dal 2001 ha sostenuto inascoltato dai governi.
*Campagna per la riforma della Banca Mondiale
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