Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

lunedì 28 gennaio 2013

La lotta ai tempi dell’Ikea

Potere, organizzazione e solidarietà

Clash city workers

Un’analisi a partire dalla lotta all’Ikea che, lungi dall’essere terminata, ha però il merito di averci già fornito un bagaglio enorme e indispensabile di esperienze e spunti di riflessione. Nei paragrafi che seguono, non ci soffermeremo sulle fasi della lotta che è ancora aperta e in aggiornamento (qui potete trovare una ricostruzione tappa per tappa): proveremo a dare un contributo che metta in risalto quelle che consideriamo alcune tendenze dello sviluppo del capitalismo in Italia e gli elementi della lotta interessanti e potenzialmente riproducili nel tempo e nello spazio.

Se vai con la bandiera a fare uno sciopero tradizionale o sali sul tetto puoi stare lì anche tutta la vita, non cambierà niente.
Basta con lo sciopero della fame o cose del genere, perché la fame la deve fare il padrone!
A noi basta già la sofferenza che viviamo tutti i giorni sul posto di lavoro.

Mohamed, operaio alla TNT di Piacenza
Oggi, per molti, guardare ai movimenti sociali e politici in Italia significa andare incontro allo sconforto. Tranne qualche eccezione, sebbene importante, sembra proprio che non siamo all’altezza dello scontro in atto. 
Malgrado ciò, le lotte sui posti di lavoro non sono finite. Anzi, in apparenza paradossalmente, si moltiplicano. Con casi molto rilevanti, almeno in astratto, perché molto dipende da cosa siamo capaci di leggere noi all’interno di quei processi.


Prendiamo la mobilitazione degli operai delle cooperative in appalto presso il deposito IKEA di Piacenza: la si può considerare come una ‘semplice’ vertenza sindacale.
Oppure no.
 Noi vogliamo interpretarla in tutt’altro modo e partire da lì per riflettere sulla nostra prassi politica quotidiana. Perché non bisogna mai esser stanchi di andare alla “scuola della lotta di classe”. E, da questo punto di vista, ciò che è accaduto e accade tuttora all'IKEA e nel settore della logistica, è una vera e propria lectio magistralis.



“Il luogo fisico non conta più”


Negli ultimi vent'anni si è discusso molto della fine – o quanto meno del ridimensionamento – del potere dei lavoratori. L'attacco sferrato dal capitale è stato durissimo, e i lavoratori l'hanno pagato e continuano a pagarlo nei termini di un drastico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, soprattutto in Europa e Stati Uniti. Ma l'attacco ha poggiato non solo sulla volontà e/o necessità dei padroni di abbattere il costo del lavoro: aveva e ha delle basi strutturali.



“È interessante notare come la teoria economica che va per la maggiore sostenga che il luogo fisico non conta più, che le società possono spostarsi ovunque grazie alle telecomunicazioni, che le maggiori imprese oggi sono fondate sull'informatica e quindi indipendenti dalla loro collocazione.”
Sassen S., Le città nell'economia globale, Il Mulino, Bologna 2004
La possibilità di un capitalista di trasferire le attività produttive in un altro angolo del pianeta alla ricerca di migliori condizioni per fare profitti – che significa manodopera a basso costo, assenza di sindacati, regimi fiscali favorevoli, infrastrutture moderne ed efficienti – in tempi di crisi diventa una minaccia fortissima. Eppure la mobilità del capitale non è assoluta. Ci sono settori in cui non è così facile fare armi e bagagli e spostarsi altrove. La geografia non è diventata d'improvviso completamente inutile. Nel settore della logistica, in cui il 'posizionamento' è centrale, ha una rilevanza ancora maggiore. La lotta all'IKEA ci dà un bel po' di materiale da indagare in proposito.


La minaccia della direzione dell'azienda di mandare a casa 107 lavoratori, adducendo come motivazione un presunto, quanto inattuabile, nel breve periodo, riposizionamento dei volumi e la riduzione delle commesse in seguito alla mobilitazione operaia è caduta dopo pochi giorni. Per ora si è dimostrato più il tentativo di utilizzare l'arma del ricatto che un'opzione realmente praticabile nel breve termine. Piacenza risulta infatti centrale per la logistica, tanto è vero che ad investire nella zona e in una superficie di 1.700.000 metri quadri, sono state anche Amazon e Whirpool, non proprio due fabbrichette, oltre a una folta schiera di imprese minori.

L'essere crocevia di traffici commerciali (in particolare verso l’Est europeo e il sud del Mediterraneo), il posizionamento strategico sul corridoio 5 della TAV da Kiev a Lisbona la cui costruzione è in cantiere, essere snodo di importanti infrastrutture per il trasporto delle merci, al centro del traffico autostradale e ferroviario, collegato direttamente con il porto di Genova, con sei aeroporti nel raggio di poche centinaia di chilometri sono fattori che non si possono ignorare e che definiscono la strategicità del “nodo Piacenza” nel sistema della logistica a livello quantomeno europeo.

La riorganizzazione spaziale, tradizionale risposta del capitale alle crisi di redditività, insomma, non è un'opzione sempre immediatamente disponibile. Ciò non toglie che, nel tempo, l'impresa possa effettivamente riorganizzarsi e superare quella che, oggi, è una barriera non facilmente sormontabile.


Organizzazione dei lavoratori

Noi non sapevamo neanche cosa volesse dire sindacato: lo conoscevamo solo per il rinnovo del permesso di soggiorno, per i ricongiungimenti famigliari o per compilare un modulo, come un’agenzia di servizi. Non ci siamo mai rivolti a loro per rivendicare diritti, perché quando qualcuno si lamenta dicono ‘lavora e zitto’, hanno dimenticato la lotta.
Mohamed, operaio alla TNT di Piacenza

Potere contrattuale strutturalmente basso


La relativa immobilità del capitale non offre una spiegazione del tutto convincente. O, quanto meno, non può essere l'unico motivo per cui i lavoratori dell'IKEA sono fino ad ora riusciti a strappare importanti vittorie. 


La lotta incontra, infatti, un altro grande problema: il potere strutturale dei lavoratori.

Non si può negare che quello dei lavoratori della logistica sia basso.
Pur situandosi in un anello strategico per l'accumulazione capitalistica, non svolgono un lavoro qualificato, godono spesso di contratti “precari”, senza possibilità di carriera e senza sicurezze occupazionali ed economiche. Per farsi un'idea, basti pensare alla discrezionalità dell'assegnazione dei carichi di lavoro e degli straordinari come meccanismo premiale/punitivo.


Per di più i facchini protagonisti della lotta all'IKEA non lavorano direttamente per la multinazionale del mobile. Sono invece assunti da cooperative, riunite nel consorzio CGS, che operano sostanzialmente in qualità di agenzie di subappalto. In quanto tali permettono al committente di abbattere i costi, gli evitano obblighi contrattuali e costituiscono una barriera per possibili danni di immagine. In fondo, il committente può sempre dire che non sapeva o, com'è accaduto nel caso dell'IKEA, comportarsi da buon padre di famiglia, dichiarando che si procederà a verifiche e, nel caso, si eserciteranno pressioni affinché le agenzie di subappalto trattino un po' meglio i dipendenti.


Infine, i lavoratori del consorzio CGS sono per il 90% immigrati (percentuali simili si registrano in tutto il settore della logistica), sottoposti quindi al ricatto del permesso di soggiorno, “diritto” che si mantiene fin tanto che si mantiene il posto di lavoro. Immigrati che però non provengono dalla stessa comunità, per cui i padroncini sono bravi ad utilizzare le linee di frattura inter-etniche per dividere i lavoratori sulla base del principio del paese d'origine.


Tutto ciò, senza dimenticare che siamo in presenza di un alto livello di disoccupazione generale. In quest’ottica, il dato della composizione della forza lavoro non è solo un dettaglio, ma un aspetto doppiamente importante e il dato sensibile è che a ribellarsi sono “coloro che sono più ricattabili”, a fronte di una passività, in molti casi indotta da decenni di indottrinamento ideologico e coercizione sindacale, dei lavoratori “tutelati dal passaporto”. Anche il ricatto al quale sono sottoposti è doppiamente pressante, laddove siamo in presenza di persone che non solo devono sostenere la propria esistenza col lavoro in Italia, ma in molti casi devono provvedere alle proprie famiglie nei paesi d’origine: da questo punto di vista, la determinazione e assoluta radicalità nelle forme e nella sostanza delle lotte espresse da questa componente di classe in Italia pone la necessità anche di una nostra riflessione sull’approccio quasi “paternalistico e protettivo” che, nella grande maggioranza dei casi, tendiamo ad avere nei confronti della popolazione immigrata (Sulla delimitazione della cittadinanza, attuata soprattutto per mezzo delle leggi dello Stato occorrerebbe, a nostro avviso, ragionare, superando il punto di vista che nella battaglia contro la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini mette al primo posto i 'diritti umani', per comprendere come questi provvedimenti siano parte della strategia del capitale di costruire confini e barriere tra gli appartenenti alla classe lavoratrice).

“Potere associativo”


Un potere contrattuale strutturalmente basso mal si concilia coi successi ottenuti dai lavoratori. Sembrerebbe che decisiva per le vittorie sia stata la capacità organizzativa degli operai delle cooperative, il loro “potere associativo”.


Da questo punto di vista il ciclo di lotte nel settore della logistica avviatosi alla Bennet di Origgio nel 2008 (il 28 gennaio ci sarà peraltro la sentenza del tribunale contro alcuni dei lavoratori e dei compagni impegnati in quella lotta) costituisce un'esperienza non rimovibile, pena l'assoluta incapacità di comprendere le dinamiche cui assistiamo oggi. Nel corso di questi cinque anni, infatti, sono emersi prepotentemente sulla scena un piccolo ma assai combattivo sindacato, il S.I. Cobas, e il Coordinamento di solidarietà con i lavoratori della logistica, una struttura composta da altri lavoratori, da compagne e compagni, sempre in prima linea nei picchetti, nei blocchi, nelle manifestazioni. La diffusione delle esperienze di lotta, per lo più vincenti, è stata resa possibile anche dai canali di comunicazione interni alle comunità immigrate che – è bene ribadirlo – sono la grande maggioranza della forza lavoro del settore. La presenza di molti lavoratori di origine Nord-africana ha inoltre dato una spinta ulteriore alla lotta: il sentirsi parte di un processo rivoluzionario che, soprattutto in Egitto, dopo una prima visibilità concessagli dai media, assolutamente distorta rispetto ai soggetti sociali sul terreno dello scontro, sta mettendo in evidenza la presenza e il protagonismo dei lavoratori (leggi qui e qui), rafforza fuori dai confini nazionali la consapevolezza della propria condizione e della forza nell’organizzarsi in maniera radicale per abbattere le barriere che si incontrano, di qualunque tipo siano. Insomma, per dirla con parole semplici “se si è riusciti ad abbattere un regime longevo e monolitico come quello di Mubarak, si può abbattere qualsiasi oppressione padronale”.

In ogni caso, attorno a S.I. Cobas e Coordinamento si sono coagulati i lavoratori alla Bennet, alla Esselunga, alla TNT, solo per citare i casi delle aziende più famose. E così, quando all'IKEA è partita la lotta, gli operai hanno avuto un punto di riferimento, uno strumento immediatamente utilizzabile. Per chi ritiene che il sindacato, così come più in generale le strutture organizzate, siano un retaggio del passato da abbandonare, con o senza rimpianti, le lotte deli operai della logistica impongono una seria riflessione.


La lotta all'IKEA ci dice anche che il primo punto ineludibile per un'azione veramente efficace dei lavoratori è il sapere operaio.
La precisa conoscenza del ciclo produttivo e, al suo interno, di ogni singolo passaggio, è indispensabile nell'ottica della riduzione del danno (per sé) e della massimizzazione delle perdite (per la controparte). Come ha sostenuto Mohamed, operaio della TNT, in una recente intervista a Il Manifesto:
Quando facciamo un blocco scegliamo i giorni in cui l'impresa avrà più danni. Bisogna scegliere i momenti e i punti in cui si toccano davvero gli interessi del padrone, in cui non riescono a recuperare il danno che facciamo.
Dalla cognizione precisa del ciclo produttivo deriva anche un aspetto della lotta all'IKEA che va tenuto in considerazione pure per quelle lotte che si sviluppano in settori diversi. Rispetto alla tradizionale tattica di un'organizzazione sindacale che rimane coi piedi ben piantati nel luogo di lavoro ove sussiste il rapporto con il diretto “datore di lavoro”, i lavoratori del consorzio CGS, sulla scorta dell'esempio della mobilitazione alla Esselunga, hanno compreso che il potere di influire sulle loro condizioni non era tanto nelle mani delle cooperative – in quanto agenzie di subappalto – bensì dell'IKEA stessa, che utilizza un sistema bizantino di subappalti ed esternalizzazioni per occultare le responsabilità.


Non a caso, oggi la lotta di questi operai è conosciuta come 'lotta contro l'IKEA' e non contro il consorzio CGS, che in molti nemmeno sanno cosa sia.

Additare la controparte con chiarezza, smascherando l'opaco sistema dei subappalti, ha permesso anche che la costruzione di reti di solidarietà avesse un obiettivo tangibile sul quale misurarsi.
Immaginiamo se le azioni di chi voleva mostrare la propria vicinanza agli operai in lotta a Piacenza si fossero dovute indirizzare esclusivamente contro le cooperative. Avremmo avuto una freccia spuntata al nostro arco. E invece abbiamo potuto attaccare l'IKEA, i veri responsabili.


La solidarietà ai tempi dell'IKEA

La lotta ha potuto contare sul sostegno attivo di alleati negli strati sociali non immediatamente coinvolti nella contesa. Si tratta di centinaia di persone che a livello diverso hanno dato il loro contributo affinché la mobilitazione avesse un esito positivo.

Innanzitutto tutte e tutti quelli che hanno percorso decine e a volte centinaia di chilometri per essere presenti ad una manifestazione o ad un picchetto alle 5 del mattino, al freddo e al gelo. Altri lavoratori che, magari, dopo un paio d'ore ai cancelli, erano costretti ad andar via per recarsi sui loro posti di lavoro. Ma non sono stati i soli.


Aver individuato l'IKEA come principale controparte ha permesso l'”attivizzazione” anche di quanti non potevano essere presenti fisicamente a Piacenza.
Fin da subito è partita una campagna contro l'IKEA che va considerata come un altro tassello della lotta. O, meglio, come un altro fronte aperto contro lo stesso nemico. Alla comprensione delle principali contraddizioni della multinazionale ha fatto seguito la predisposizione degli strumenti più utili per colpire con efficacia.


Ad esempio, la capillarità della diffusione degli store IKEA sul territorio nazionale italiano, simbolo della forza dell'azienda, si è prestata all'organizzazione di volantinaggi, presidi e, in alcuni casi, di veri e propri picchetti, capaci di interferire con le vendite in un periodo, quello pre-natalizio, in cui gli introiti per gli esercizi commerciali sono massimi (e quindi c'è massima sensibilità rispetto a qualsivoglia azione disturbatrice, dimostrata dalle cariche della polizia prima e dalle denunce piovute poi sugli attivisti).


La principale contraddizione nella quale abbiamo cercato però di inserirci è stata quella relativa all'immagine che l'IKEA cerca di dare di sé un po' ovunque.


Se “oggi Ikea è sinonimo di simpatia, impegno sociale, convenienza e solidità” (come riporta il Der Spiegel, nella traduzione italiana preparata da Internazionale nel numero dell'11 gennaio 2013) e se “il concept Ikea ha contribuito alla democratizzazione del mondo più di molti movimenti politici”, come ha affermato un dirigente aziendale, allora è subito evidente che se si riesce a colpire lì si può avere un impatto enorme.

Abbiamo deciso di puntare su quest'aspetto, individuando le piattaforme virtuali messe in piedi dall'IKEA stessa come campo di battaglia. In primis invitandoal 'bombardamento' del sito internet spazioalcambiamento.it in cui l'impresa invitava a dire la propria sui prodotti e sull'“IKEA way of life”. Abbiamo allora preso alla lettera le parole della multinazionale. In fondo - ci siamo detti - anche noi siamo parte di quella comunità globale di cui l'IKEA vuole che ci sentiamo parte! E, utilizzando il canale 'democratico' predisposto dall'azienda stessa, le abbiamo fatto sapere che migliaia di persone hanno a cuore la dignità, i diritti e le condizioni di lavoro degli operai. Allargando agli occhi di tutti la distanza tra messaggio e realtà, tra decaloghi aziendali e trattamento della manodopera. Abbiamo giocato sulla politica dei bassi costi, vanto dell'IKEA. Abbiamo, in sostanza, cercato di agire su quello che ci sembrava un nervo scoperto del colosso del mobile, alla luce della mobilitazione a Piacenza.


Tra le altre cose, il fronte “mediatico” ha permesso il coinvolgimento di tante persone che a causa delle disponibilità minime di tempo, dell'isolamento che vivono, o della semplice distanza che le separa da un IKEA store, sarebbero state costrette a limitarsi a qualche parola di solidarietà e di vicinanza. Così invece hanno potuto dare anch'esse un 'colpetto' e contribuire alla costruzione di una posizione di forza dei lavoratori a Piacenza.


Le reazioni aziendali hanno dimostrato che non si è trattato di un'operazione inutile. La chiusura di spazioalcambiamento.it, l'aver impedito a numerosi profili facebook di apporre commenti sulle proprie pagine (ne erano arrivati migliaia e migliaia che dire negativi è dire poco), e l'esser stati costretti a rilasciare dichiarazioni pubbliche in merito al trattamento della forza lavoro da parte dell'IKEA (sempre su social network), mostrano inequivocabilmente che l'obiettivo che ci eravamo prefissi siamo riusciti a raggiungerlo, almeno in gran parte. L'azienda ha subito un danno di immagine non trascurabile.

Ed è stato per merito di quell'embrione di reti sociali che si sono create in maniera informale, a partire soprattutto dal mese di novembre. che dei passi in avanti su questo fronte della battaglia sono stati possibili. Ognuna ed ognuno, diffondendo la conoscenza di ciò che stava accadendo al deposito IKEA di Piacenza, distribuendo un volantino, postando un commento sotto la pubblicità di Billy o delle altre migliaia di prodotti IKEA, dando libero sfogo alla propria creatività con un subvertising, ha contribuito a questa lotta. E quindi può sentire anche come frutto della propria attività i successi ottenuti dai lavoratori.


Senza dimenticare però quella che è la grande lezione che ci arriva da Piacenza: l'imprescindibilità dell'azione dei lavoratori stessi.

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