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di Guido Rossi, da Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2013 -Lo scorso martedì una Commissione del Senato americano ha ascoltato Tim Cook, amministratore delegato della Apple, accusata di evasione fiscale per mancato pagamento delle imposte sugli enormi profitti realizzati, attraverso una pianificazione fiscale di una rete di società controllate irlandesi. Il senatore Levin, presidente della Commissione, ha sottolineato durante il dibattito che trenta delle maggiori multinazionali americane, con più di 160 miliardi di dollari di profitti negli ultimi tre anni, non hanno pagato nessuna imposta federale. Il commento significativo di Tim Cook è stato: «Sfortunatamente il sistema fiscale americano (Tax Code) non si è adeguato all’era digitale».
Siamo di fronte all’inquietante ossimoro “evasione fiscale legale”? Paradossalmente, l’Unione Europea, con l’Irlanda, l’Olanda, il Lussemburgo e l’Austria, è diventata essa stessa paradiso fiscale. Le varie legislazioni interne, in mancanza di una legge comunitaria adeguata, fanno perdere al bilancio dell’Unione un gettito di mille miliardi, cioè una somma cento volte superiore ai dieci miliardi mobilizzati per venire in soccorso a Cipro.
È pur vero che a Bruxelles si vanno preparando proposte di direttive per imporre trasparenza alle multinazionali e scambi di informazioni fra Paesi, ma purtroppo finora queste iniziative e le concordanti autorevoli dichiarazioni appaiono tutte asseverare la pesante definizione apparsa sulla copertina dell’ultimo numero dell’Economist: “i sonnambuli” (The sleepwalkers), a proposito dei maggiori responsabili della politica europea. Infatti, il rischio che alcuni importanti Paesi dell’Unione Europea blocchino o limitino tali riforme rimane assai elevato, mentre per il degrado istituzionale e politico la stessa frode e l’evasione fiscale palesemente “illegali” rimangono perseguite in modi assai discutibili dai vari poteri del singolo Stato, sovente in conflitto fra loro.
Da questo complesso e confuso quadro risultano definitivamente crollate tutte le tesi sbandierate sulla verità e l’efficienza dei mercati, sulla necessità delle politiche di austerità e di tagli alla spesa pubblica, e soprattutto sui rimedi solo economici prospettati per la soluzione di una crisi che la civiltà occidentale sta attraversando a livello non solo economico, ma ormai soprattutto politico e sociale.
L’estrema gravità del problema è dovuta al fatto – come più volte ho sottolineato – che la globalizzazione economica del capitalismo finanziario dell’era digitale non è stata accompagnata da un’adeguata globalizzazione giuridica. Le grandi multinazionali si sono dotate di un loro privato ordinamento interno che, proprio in assenza di un diritto globale, tende a favorire la legalità della frode e dell’evasione fiscale.
A questo fenomeno, non si può non collegare una povertà sempre più diffusa, la concentrazione di enormi ricchezze in pochissimi, quell’uno per cento, oggi indicato come privilegiato da Manuel Castells (Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di internet, Milano, 2012), rispetto a quel 99 per cento degli esclusi, vittime di ineguaglianze che mettono a repentaglio le stesse istituzioni politiche che, con la democrazia e il diritto, avevano finora accompagnato le varie fasi dello sviluppo del capitalismo.
Il “conflitto di interessi” che sembrava alla fine del secolo scorso costituire il vero malanno epidemico del sistema economico, si è oggi decisamente trasformato in un “conflitto di poteri” fra le grandi corporations e gli Stati, i quali vanno via via palesando in vari modi la loro sconfitta rispetto ai grandi gruppi societari multinazionali che li hanno superati, persino nella classifica delle maggiori economie mondiali. La sovranità degli Stati si è di fatto trasferita altrove e l’impotenza della politica ne è a sua volta sia la causa sia la conseguenza, quasi a confermare che ormai lo Stato – nazione, per conservare la propria sovranità come comunità politica, si deve chiudere al libero commercio con qualsivoglia altra comunità vicina. Così la descrisse già nel 1800 l’insigne filosofo J.G. Fichte (Die Geschlossene Handelstaadt), che pur forse aveva, come rilevò Benedetto Croce, «lo statalismo nelle ossa». Insomma, la globalizzazione equivarrebbe necessariamente alla perdita della sovranità statale. E questa perdita ha peraltro prodotto già in molti Paesi, come l’Italia, un esasperato conflitto di potere fra i vari organi dello Stato, dove o l’indifferenza o una sorta di dominio direttamente o indirettamente repressivo, ha stroncato attività imprenditoriali aumentando disoccupazione e disagio sociale.
A tutto ciò corrisponde poi una metodologia di fuga dell’economia globalizzata dall’effettività di un diritto applicabile solo all’interno dei confini dello Stato, in due modi che quello stesso diritto ha comunque legalizzato. Il primo, con la creazione di nuovi enti, dalle shadow banks, agli hedge funds, agli equity funds e ad altri ancora, che hanno ormai decisamente superato la dimensione delle attività dei sistemi bancari tradizionali vigilati. Il secondo, col moltiplicarsi di strumenti finanziari, spesso opachi, scambiati a velocità incontrollabili (high speed trading), che sfuggono a qualsivoglia possibilità di individuazione dei guadagni a fini di trasparenza e di tassazione.
Gli animal spirits keynesiani sono così sostituiti dagli algoritmi o in analogia, come già avevo osservato, da accreditate zingare che predicono il futuro con i tarocchi.
È così che il vincolo fra il potere politico e il diritto viene dissolto e il problema della legalità cede di fronte al potere economico delle multinazionali globalizzate, che si sottraggono agli obblighi del proprio ordinamento naturale applicando il cosiddetto “jurisdiction shopping” o “forum shopping” di cui Apple è il più recente esempio, per sfuggire alle imposizioni sugli utili.
La sola conclusione possibile è che poiché il problema della frode e dell’evasione fiscale è diventato mondiale, esso può essere risolto solo a livello globale, con la creazione di una autorità sovranazionale che abbia il potere di imposizione fiscale e di regolamentazione di molte attività economiche, secondo concrete soluzioni, che già sta predisponendo l’Ocse e da adottare dal G20. La questione che assume per il futuro dell’umanità la stessa importanza del problema del clima del pianeta e della difesa dei diritti umani, può trovare soluzione soltanto in quella auspicata da Immanuel Kant con lo Ius Cosmopoliticum, quel diritto cosmopolitico dello Stato universale, ripreso poi – coi modi suoi – nelle tesi della “civitas maxima” dal più grande giurista del secolo scorso, Hans Kelsen.
L’organizzazione della giustizia di ogni singola nazione deve oggi essere adeguatamente preparata a questa visione politica globale, predisponendo norme dell’ordinamento interno e accordi internazionali (ad iniziare, per quanto ci riguarda, con la Svizzera), che garantiscano in modo corretto già all’interno la lotta all’evasione fiscale, che è sempre illegale.
da Micromega online
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