- ilmanifesto -
di Daniela Preziosi -Quando alla direzione Pd Matteo Orfini pronuncia la parola «paletti» si alza un vocìo spazientito. Lui insiste: meglio «condizioni»? Comunque: «Sarebbe un errore se il Pd non si assumesse le sua responsabiltà, se vuole essere un partito. Il documento è una cessione di responsabilità». I paletti di Orfini sono tre e servono al Pd «per reggere politicamente»: governo di innovazione, capacità di interloquire con la società e possibilità di sfidare a 360 gradi il parlamento. Tradotto: fuori i 5 stelle e la sinistra sfrantumata fra sfiducia e astensionismo si allontanerà ulteriormente dal Pd arreso a Napolitano e al Pdl. Per questo bisogna fare ancora un tentativo per coinvolgere i 5 stelle. Ma il Pd dei nuovi-vecchi dirigenti post-bersaniani questo discorso non lo vuole sentire mai più: premi il comando cancella, via tutto il vocabolario bersanese, lo «scouting», il «giaguaro», la «ditta».
Poco dopo Stefano Fassina, altro ‘turco’ che però ha detto sì a Franco Marini al Colle, ritenta: «Paletti non ne possiamo mettere, possiamo dare qualche suggerimento. La nostra delegazione non consegnerà un comunicato, interloquirà col presidente». Ma è una speranza mal riposta, lo sa bene. Alle 6 e un quarto dal Nazareno, la sede del Pd, partono Letta, Speranza e Zanda, la delegazione che consegnerà il Pd a Napolitano, in obbedienza alle condizioni che lo stesso presidente ha messo per accettare il rinnovo del mandato. Il documento, cioè la bandiera bianca, è approvato con un mare di sì, 14 astenuti fra turchi (Fausto Raciti, Andrea Orlando, Fassina alla fine vota sì), e prodiani (Rosy Bindi, Sandro Gozi e Sandra Zampa). Si astiene il dalemiano Stefano Esposito. Sette no, fra loro Walter Tocci, che negli ultimi mesi non ha risparmiato critiche a Bersani. Ma è un bottino magro. E il lettiano Francesco Boccia esulta: «Andiamo da Napolitano a dire che saremo con lui e gli daremo la nostra delega per riformare dalle fondamenta questo paese».
Il Pd rovescia la linea politica della campagna elettorale e dei 55 giorni di «tentativo Bersani»; va oltre il muro delle larghe intese senza passare per un congresso, né per un’assemblea nazionale, né per un referendum della base, istituto messo a statuto ma mai regolamentato, per interdirne l’uso. La sinistra interna ne esce acciaccata. «In questo momento dobbiamo ritrovare l’unità e consentire che nasca un governo, è in gioco il paese e il futuro di tutta la sinistra. Non possiamo fare subcomponenti né accodarci a Grillo. Ci metteremo la faccia. Il problema è che ce la metterà anche il Pdl. E il rischio per noi è altissimo», riflette Fassina. Due giorni fa è stato contestato per strada. Allora ha postato un invito su facebook: «Mi piacerebbe incontrare quanti mi hanno insultato. Vorrei provare a ascoltare le loro ragioni, e raccontare le mie». Hanno risposto in quattro. Appuntamento martedì prossimo. Lui, ormai ex responsabile economico Pd, ha passato gli scorsi 16 mesi opporsi alla politica economica del governo Monti. Adesso si ritroverà a votare con il Pdl di Brunetta.
Intanto in giro per l’Italia si moltiplicano i malumori Pd per lo più targate giovani democratici. «C’è un po’ di tutto fra loro», spiega Fausto Raciti, deputato e segretario della giovanile. «Chi era contro Marini, chi contro un governo con Berlusconi. È un segno di vitalità». «Comunque da ora la faccia su queste scelte ce la metterà qualcun altro», ragiona Orfini. In questi giorni si è sottoposto a un vero tour de force mediatico per spiegare e spiegare: perché no a Rodotà, perché sì a Napolitano. Stagione finita. Fuori dal Pd, ormai all’opposizione, Sel corteggia Barca e Cofferati in una rifondazione della «sinistra di governo», accelerando le pratiche per aderire al Pse. «Per me il no al governo con il Pdl resta», ma mai dire scissione: «Non usciremo dal nostro partito, nessuno si illuda», avverte Orfini. Martedì aveva proposto Renzi a Palazzo Chigi. Il sindaco di Firenze aveva detto sì. Napolitano e Berlusconi hanno detto no. Nulla di fatto. E però ormai renziani e dei giovani turchi si avviano al congresso su strade convergenti. Ma prima deve passare la lunga nottata del governissimo. «Vediamo che governo sarà. Se sarà con il Pdl voteremo no nei gruppi. In aula ci adegueremo alla maggioranza. Fatto questo, dovremo darci una gestione collegiale. Enrico Letta non ci garantisce. E subito dopo si va a congresso». La linea del Pd è cambiata di 180 gradi. E di tutto il programma della campagna elettorale il bilancio è «un’Italia un po’ meglio della Grecia, un Pd un po’ peggio del Pasok», ovvero il partito che a Atene governa con il centrodestra di Nea Demokratia.
Il Manifesto – 24.04.13
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