Gerhard Schröder: «Merkel pensa in termini elettorali. E sbaglia»
ROMA — «Quello che fa il governo tedesco, cioè dire alla Grecia che bisogna fare contemporaneamente le riforme e la politica di austerità, non ha alcun senso né politico, né economico. È chiaro che hanno bisogno di più tempo. Non posso sottoscrivere in toto la poesia di Günter Grass sulla Grecia, ma ha un argomento forte: non abbiamo dato ad Atene molte chance».
Il giardino dell'Hotel de Russie è un luogo speciale per Gerhard Schröder. Fu qui, alle pendici del Pincio nella primavera del 2005, che l'allora cancelliere tedesco rivelò al suo ministro degli Esteri verde, Joschka Fischer, l'intenzione di voler giocare la carta delle elezioni anticipate. Fu l'inizio della fine per la coalizione rosso-verde: «Joschka era molto deluso, ma io non avevo altra scelta». Schröder perse quella scommessa solo in parte: Angela Merkel divenne cancelliera, ma fu costretta per quattro anni a governare insieme alla Spd.
La ragione di quell'azzardo politico ci riporta direttamente all'oggi. Schröder aveva varato la più radicale e dolorosa riforma del welfare tedesco dai tempi di Bismarck. La base socialdemocratica era in rivolta. La Spd veniva punita in ogni elezione regionale. Per di più la Germania e la Francia, con il permesso dell'Italia, avevano ottenuto di poter violare senza pagar dazio i criteri di Maastricht. «Nessun governo in una democrazia può imporre riforme strutturali e allo stesso tempo attuare una politica di austerità, pena gravi tensioni sociali. Questa fu la situazione tedesca nel 2003. Io avevo appena realizzato l'Agenda, oltre 20 miliardi di euro di tagli e una severa riforma del mercato del lavoro. Ma non potevamo strozzare ulteriormente l'economia. Così abbiamo chiesto un margine più ampio nel rispetto dei criteri. Poi ho perso le elezioni, la signora Merkel ne ha approfittato, l'economia è ripartita, ma questa è un'altra storia. La lezione di allora è che un Paese come la Grecia ha bisogno di più tempo».
Il giardino dell'Hotel de Russie è un luogo speciale per Gerhard Schröder. Fu qui, alle pendici del Pincio nella primavera del 2005, che l'allora cancelliere tedesco rivelò al suo ministro degli Esteri verde, Joschka Fischer, l'intenzione di voler giocare la carta delle elezioni anticipate. Fu l'inizio della fine per la coalizione rosso-verde: «Joschka era molto deluso, ma io non avevo altra scelta». Schröder perse quella scommessa solo in parte: Angela Merkel divenne cancelliera, ma fu costretta per quattro anni a governare insieme alla Spd.
La ragione di quell'azzardo politico ci riporta direttamente all'oggi. Schröder aveva varato la più radicale e dolorosa riforma del welfare tedesco dai tempi di Bismarck. La base socialdemocratica era in rivolta. La Spd veniva punita in ogni elezione regionale. Per di più la Germania e la Francia, con il permesso dell'Italia, avevano ottenuto di poter violare senza pagar dazio i criteri di Maastricht. «Nessun governo in una democrazia può imporre riforme strutturali e allo stesso tempo attuare una politica di austerità, pena gravi tensioni sociali. Questa fu la situazione tedesca nel 2003. Io avevo appena realizzato l'Agenda, oltre 20 miliardi di euro di tagli e una severa riforma del mercato del lavoro. Ma non potevamo strozzare ulteriormente l'economia. Così abbiamo chiesto un margine più ampio nel rispetto dei criteri. Poi ho perso le elezioni, la signora Merkel ne ha approfittato, l'economia è ripartita, ma questa è un'altra storia. La lezione di allora è che un Paese come la Grecia ha bisogno di più tempo».
C'è un reale pericolo che l'euro si disintegri?
«No, non credo. Analizziamo i termini del problema. Abbiamo un fiscal compact sottoscritto dai Paesi dell'eurozona. C'è stata un'elezione in Francia, con la vittoria di Hollande che chiede di rinegoziarlo. C'è qualche passo in direzione della politica economica comune, cioè verso l'unione politica. Cosa può ottenere in più il nuovo presidente francese? Probabilmente un completamento, non formale ma di sostanza, in direzione di un patto per la crescita, senza bisogno di rimettere in discussione il patto fiscale. Con il che potrà dire che la sua rivendicazione è stata recepita. Di questo faranno parte tre elementi: una concentrazione dei fondi strutturali e di coesione verso i Paesi che ne hanno più bisogno: ci sono ancora risorse significative disponibili per infrastrutture, ricerca, sviluppo. L'aumento della dotazione della Bei, attraverso i cosiddetti project bond, oppure l'aumento del suo capitale. Poi verranno gli eurobond, cioè il primo passo verso l'europeizzazione del debito…».
Ma è ciò che la Germania non vuole…
«È vero, la Germania in questo momento non lo vuole. Ma la questione è che contemporaneamente bisogna fare passi concreti verso il coordinamento delle politiche economiche e finanziarie. Non si possono fare gli eurobond, senza portare a termine le riforme strutturali di cui ogni Paese ha bisogno e senza muoversi allo stesso tempo verso l'unione politica. Queste cose devono marciare insieme. E a queste condizioni, la Germania non avrebbe più argomenti per dire di no».
Vuole dire che a queste condizioni, il governo tedesco potrebbe dire sì agli eurobond?
«Non posso affermarlo con certezza. Ma la cancelliera si è mostrata flessibile quando è stato necessario. Il punto è che non avrebbe più argomenti razionali per opporsi»
Però Frau Merkel è sempre apparsa in ritardo sugli avvenimenti. Perché ogni volta ci mette tanto a fare passo in avanti?
«Merkel pensa prima di tutto in categorie elettorali, cioè in termini di potere politico interno. E sbaglia».
Perché sbaglia?
«Io non credo che possa vincere le prossime elezioni in Germania. È possibile che la Cdu resti più forte della Spd. Ma anche se la Fdp superasse di poco la soglia del 5% questo non basterebbe più per governare insieme. Resterebbero per la Cdu la possibilità di una coalizione con i Verdi (che questi non faranno) oppure una Grande Coalizione, che la Spd rifiuterebbe. Quindi l'unica prospettiva rimarrebbe un governo rosso-verde, con una sorta di appoggio della Sinistra o dei Pirati. Non penso cioè che la cancelliera Merkel rimanga al potere dopo il 2013».
Ma alle elezioni manca ancora quasi un anno e mezzo. E l'Europa ha molto meno tempo a disposizione…
«Per questo sostengo che bisogna implementare subito questo pacchetto. Per i mercati è essenziale che i Paesi dell'eurozona indichino con chiarezza la linea e dicano: andiamo verso l'unione politica, con tutto ciò che comporta, indicando i passi concreti a breve, medio e lungo termine. Un commissario deve diventare una sorta di ministro delle Finanze dell'eurozona. O si fa questa riforma istituzionale o la moneta unica è a rischio».
Quindi a suo avviso la crisi è sostanzialmente politica?
«È chiaro. All'inizio abbiamo creduto con l'euro di poter fare un progetto politico, forse anche contro la razionalità economica, sperando che poi questo ci costringesse all'unione politica. Purtroppo non è successo. Adesso o ci arriviamo, o la moneta cadrà. Se la crisi prova qualcosa, è che non si può avere una moneta unica senza una politica economica, finanziaria (e aggiungerei sociale) comuni».
Ma tra la crisi e l'unione politica, c'è un problema immediato da risolvere di nome Grecia. Siamo ancora in tempo per salvarla?
«Sì. Dipende molto da loro, da come voteranno tra due settimane, se vogliono essere salvati. Se ci sarà un governo disposto a fare le riforme necessarie, possiamo salvarla. Come dicevo, occorrerà però dare più tempo al nuovo governo greco. L'errore più grave che abbiamo fatto è aver lasciato in bilico Papandreu. Lui era stato chiaro: datemi più tempo. Ora, i greci devono capire che le riforme strutturali vanno fatte, ma gli europei devono capire che queste cose non si fanno in una notte. Dovremmo dire subito che vogliamo salvare la Grecia, che questo può avvenire solo se loro riformano il Paese, ma anche che devono poterlo fare gradualmente. Al momento purtroppo esercitiamo su Atene soltanto pressione».
Con l'elezione di Hollande il binomio franco-tedesco è in crisi?
«No. Ogni presidente francese e ogni cancelliere tedesco imparano in breve tempo che in Europa nulla avanza se Berlino e Parigi non lavorano insieme. E sarà così anche con Hollande e Merkel, come fu tra me e Chirac, tra Schmidt e Giscard, tra Kohl e Mitterrand. È semplicemente un fatto della costruzione europea, anche se quando interagiscono gli altri si lamentano e parlano di direttorio, ma quando non lo fanno è pericoloso».
Ma un'eventuale uscita della Grecia dalla moneta unica secondo lei causerebbe il crollo dell'intera eurozona?
«Sarebbe una vittoria dei mercati sulla politica».
E sarebbe in grado l'Ue di contenerne gli effetti?
«In generale, non amo discutere situazioni ipotetiche. Sinceramente non credo che Atene uscirà dall'euro. La Grecia rappresenta il 3% del Pil dell'Ue. E a quelli che predicono l'effetto domino, rispondo che basterebbe una forte presa di posizione politica per impedirlo».
Lei comunque non è pessimista. Su quali basi?
«L'Europa è sempre avanzata come la processione del martedì di Pentecoste a Echternach: due passi avanti uno indietro, ogni tanto addirittura uno avanti due indietro. È vero che questa crisi ha una qualità diversa, è probabilmente la più seria che abbiamo mai vissuto, perché a essere minacciata è la base economica. E si può risolvere solamente se ci sarà unità d'intenti e d'azione tra i grandi Paesi, a condizione che capiscano e dicano che la direzione sia quella dell'unione politica».
«No, non credo. Analizziamo i termini del problema. Abbiamo un fiscal compact sottoscritto dai Paesi dell'eurozona. C'è stata un'elezione in Francia, con la vittoria di Hollande che chiede di rinegoziarlo. C'è qualche passo in direzione della politica economica comune, cioè verso l'unione politica. Cosa può ottenere in più il nuovo presidente francese? Probabilmente un completamento, non formale ma di sostanza, in direzione di un patto per la crescita, senza bisogno di rimettere in discussione il patto fiscale. Con il che potrà dire che la sua rivendicazione è stata recepita. Di questo faranno parte tre elementi: una concentrazione dei fondi strutturali e di coesione verso i Paesi che ne hanno più bisogno: ci sono ancora risorse significative disponibili per infrastrutture, ricerca, sviluppo. L'aumento della dotazione della Bei, attraverso i cosiddetti project bond, oppure l'aumento del suo capitale. Poi verranno gli eurobond, cioè il primo passo verso l'europeizzazione del debito…».
Ma è ciò che la Germania non vuole…
«È vero, la Germania in questo momento non lo vuole. Ma la questione è che contemporaneamente bisogna fare passi concreti verso il coordinamento delle politiche economiche e finanziarie. Non si possono fare gli eurobond, senza portare a termine le riforme strutturali di cui ogni Paese ha bisogno e senza muoversi allo stesso tempo verso l'unione politica. Queste cose devono marciare insieme. E a queste condizioni, la Germania non avrebbe più argomenti per dire di no».
Vuole dire che a queste condizioni, il governo tedesco potrebbe dire sì agli eurobond?
«Non posso affermarlo con certezza. Ma la cancelliera si è mostrata flessibile quando è stato necessario. Il punto è che non avrebbe più argomenti razionali per opporsi»
Però Frau Merkel è sempre apparsa in ritardo sugli avvenimenti. Perché ogni volta ci mette tanto a fare passo in avanti?
«Merkel pensa prima di tutto in categorie elettorali, cioè in termini di potere politico interno. E sbaglia».
Perché sbaglia?
«Io non credo che possa vincere le prossime elezioni in Germania. È possibile che la Cdu resti più forte della Spd. Ma anche se la Fdp superasse di poco la soglia del 5% questo non basterebbe più per governare insieme. Resterebbero per la Cdu la possibilità di una coalizione con i Verdi (che questi non faranno) oppure una Grande Coalizione, che la Spd rifiuterebbe. Quindi l'unica prospettiva rimarrebbe un governo rosso-verde, con una sorta di appoggio della Sinistra o dei Pirati. Non penso cioè che la cancelliera Merkel rimanga al potere dopo il 2013».
Ma alle elezioni manca ancora quasi un anno e mezzo. E l'Europa ha molto meno tempo a disposizione…
«Per questo sostengo che bisogna implementare subito questo pacchetto. Per i mercati è essenziale che i Paesi dell'eurozona indichino con chiarezza la linea e dicano: andiamo verso l'unione politica, con tutto ciò che comporta, indicando i passi concreti a breve, medio e lungo termine. Un commissario deve diventare una sorta di ministro delle Finanze dell'eurozona. O si fa questa riforma istituzionale o la moneta unica è a rischio».
Quindi a suo avviso la crisi è sostanzialmente politica?
«È chiaro. All'inizio abbiamo creduto con l'euro di poter fare un progetto politico, forse anche contro la razionalità economica, sperando che poi questo ci costringesse all'unione politica. Purtroppo non è successo. Adesso o ci arriviamo, o la moneta cadrà. Se la crisi prova qualcosa, è che non si può avere una moneta unica senza una politica economica, finanziaria (e aggiungerei sociale) comuni».
Ma tra la crisi e l'unione politica, c'è un problema immediato da risolvere di nome Grecia. Siamo ancora in tempo per salvarla?
«Sì. Dipende molto da loro, da come voteranno tra due settimane, se vogliono essere salvati. Se ci sarà un governo disposto a fare le riforme necessarie, possiamo salvarla. Come dicevo, occorrerà però dare più tempo al nuovo governo greco. L'errore più grave che abbiamo fatto è aver lasciato in bilico Papandreu. Lui era stato chiaro: datemi più tempo. Ora, i greci devono capire che le riforme strutturali vanno fatte, ma gli europei devono capire che queste cose non si fanno in una notte. Dovremmo dire subito che vogliamo salvare la Grecia, che questo può avvenire solo se loro riformano il Paese, ma anche che devono poterlo fare gradualmente. Al momento purtroppo esercitiamo su Atene soltanto pressione».
Con l'elezione di Hollande il binomio franco-tedesco è in crisi?
«No. Ogni presidente francese e ogni cancelliere tedesco imparano in breve tempo che in Europa nulla avanza se Berlino e Parigi non lavorano insieme. E sarà così anche con Hollande e Merkel, come fu tra me e Chirac, tra Schmidt e Giscard, tra Kohl e Mitterrand. È semplicemente un fatto della costruzione europea, anche se quando interagiscono gli altri si lamentano e parlano di direttorio, ma quando non lo fanno è pericoloso».
Ma un'eventuale uscita della Grecia dalla moneta unica secondo lei causerebbe il crollo dell'intera eurozona?
«Sarebbe una vittoria dei mercati sulla politica».
E sarebbe in grado l'Ue di contenerne gli effetti?
«In generale, non amo discutere situazioni ipotetiche. Sinceramente non credo che Atene uscirà dall'euro. La Grecia rappresenta il 3% del Pil dell'Ue. E a quelli che predicono l'effetto domino, rispondo che basterebbe una forte presa di posizione politica per impedirlo».
Lei comunque non è pessimista. Su quali basi?
«L'Europa è sempre avanzata come la processione del martedì di Pentecoste a Echternach: due passi avanti uno indietro, ogni tanto addirittura uno avanti due indietro. È vero che questa crisi ha una qualità diversa, è probabilmente la più seria che abbiamo mai vissuto, perché a essere minacciata è la base economica. E si può risolvere solamente se ci sarà unità d'intenti e d'azione tra i grandi Paesi, a condizione che capiscano e dicano che la direzione sia quella dell'unione politica».
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