di Gennaro Carotenuto, giovedì 14 ottobre 2010, Fonte QUI
Che bel paese sarebbe il Cile se anche domani continuasse a interessarsi alla sorte e ai diritti negati di tutti i suoi minatori, anche dopo la fine del reality show mondiale del salvataggio dei 33 minatori dalla miniera di rame di San José, in quel nord dove quello che non è deserto è rame.
Che bel paese sarebbe il Cile se anche domani continuasse a interessarsi alla sorte e ai diritti negati di tutti i suoi minatori, anche dopo la fine del reality show mondiale del salvataggio dei 33 minatori dalla miniera di rame di San José, in quel nord dove quello che non è deserto è rame.
Che meraviglia di paese sarebbe il Cile se quel tripudio di bandiere e quella logorrea patriottica non fosse pura propaganda e non fosse anche una macchina del “olvido”, una macchina per dimenticare la realtà.
I minatori, ricordiamolo, sono vivi per caso ma non sono rimasti vittime per caso. Il riscatto è stato un dovere ineludibile e un dividendo politico per il governo nei giorni del bicentenario.
I minatori, ricordiamolo, sono vivi per caso ma non sono rimasti vittime per caso. Il riscatto è stato un dovere ineludibile e un dividendo politico per il governo nei giorni del bicentenario.
E in questa storia i concessionari (un eufemismo pinochetista che nasconde la piena proprietà) della miniera restano sullo sfondo ma sono i cattivi della pellicola e il governo, che capitalizza mediaticamente è loro complice.
Bohn e Kemeny, prima di dichiararsi falliti e quindi insolventi, sono stati sistematicamente e criminalmente negligenti rispetto alla sicurezza dei minatori. Come praticamente tutti i concessionari di miniere, anche Bohn e Kemeny sono colpevoli del "dolo eventuale" di aver giocato con la vita dei minatori, pretendendo di arricchirsi ancora di più, risparmiando sistematicamente sulla sicurezza di questi.
Bohn e Kemeny, prima di dichiararsi falliti e quindi insolventi, sono stati sistematicamente e criminalmente negligenti rispetto alla sicurezza dei minatori. Come praticamente tutti i concessionari di miniere, anche Bohn e Kemeny sono colpevoli del "dolo eventuale" di aver giocato con la vita dei minatori, pretendendo di arricchirsi ancora di più, risparmiando sistematicamente sulla sicurezza di questi.
Adesso che celebriamo la salvezza dei minatori, possiamo dimenticare che solo a San José ci sono stati 80 incidenti con morti e feriti in dieci anni senza che Bohn e Kemeny, che molti descrivono “accecati dall’avidità”, investissero in sicurezza?
Possiamo dimenticare che il Cile, che i media descrivono come moderno ed efficiente, resta un paese dove i Bohn e Kemenny sono sempre sicuri di trovare dei disgraziati disposti a sfidare la sorte per 6-7 Euro al giorno, sapendo di avere dalla loro parte leggi e governo?
Non possiamo dimenticare che il Cile, dall’11 settembre 1973 in avanti, è l’allievo modello di quella deregolamentazione radicale del mondo del lavoro chiamata neoliberismo, per la quale minatori come quelli dei quali oggi tutto il mondo conosce i nomi e le storie, ma che a malapena guadagnano tra i 2 e i 300 Euro al mese (altro dettaglio sottaciuto), dovrebbero avere la forza di trattare e difendere la loro sicurezza con squali che abitano a Seattle o a Montreal piuttosto che a Las Condes o Vitacura, i quartieri per ricchi di Santiago.
La verità è che ancor di più oggi, che è in vigore il trattato di libero commercio con gli Stati Uniti, firmato dai governi di centro-sinistra della Concertazione, che stabilisce a chiare lettere che il lucro viene prima della sicurezza e dell’equità, il governo cileno, quantunque volesse, ha le mani legate per obbligare i concessionari a garantire la sicurezza di quelle che sono e resteranno vite a perdere.
In queste settimane abbiamo visto il ridicolo ministro delle miniere Laurence Golborne piagnucolare ripetutamente al bordo della miniera. Per quei piagnucolii è passato in due mesi ad essere il più conosciuto di tutto l’esecutivo. Ma da domani il ministro Golborne tornerà a fare quello che faceva prima: l’esecutore materiale degli interessi delle concessionarie, schierato sistematicamente contro i minatori in ogni singolo conflitto che si apre.
Che bel paese sarebbe il Cile se invece “il rame fosse nostro” come è stato al tempo della Unidad Popular (nella foto Salvador Allende con i minatori), l’unico momento nella storia del paese nel quale i minatori hanno avuto diritto di parola sulla loro sicurezza e sul loro lavoro. L’unico momento nel quale la ricchezza del rame non andava a qualche multinazionale di rapina e i minatori guadagnavano salari dignitosi.
Non fu un caso, giova ricordarlo agli avventizi dell’informazione che di questi dettagli mai si sono curati in due mesi, che, dopo l’11 settembre, mentre il mondo al massimo guardava alla Moneda in fiamme o allo Stadio nazionale trasformato in lager, Augusto Pinochet incaricò il generale Sergio Arellano Stark di battere palmo a palmo le miniere del nord del Cile.
Non possiamo dimenticare che il Cile, dall’11 settembre 1973 in avanti, è l’allievo modello di quella deregolamentazione radicale del mondo del lavoro chiamata neoliberismo, per la quale minatori come quelli dei quali oggi tutto il mondo conosce i nomi e le storie, ma che a malapena guadagnano tra i 2 e i 300 Euro al mese (altro dettaglio sottaciuto), dovrebbero avere la forza di trattare e difendere la loro sicurezza con squali che abitano a Seattle o a Montreal piuttosto che a Las Condes o Vitacura, i quartieri per ricchi di Santiago.
La verità è che ancor di più oggi, che è in vigore il trattato di libero commercio con gli Stati Uniti, firmato dai governi di centro-sinistra della Concertazione, che stabilisce a chiare lettere che il lucro viene prima della sicurezza e dell’equità, il governo cileno, quantunque volesse, ha le mani legate per obbligare i concessionari a garantire la sicurezza di quelle che sono e resteranno vite a perdere.
In queste settimane abbiamo visto il ridicolo ministro delle miniere Laurence Golborne piagnucolare ripetutamente al bordo della miniera. Per quei piagnucolii è passato in due mesi ad essere il più conosciuto di tutto l’esecutivo. Ma da domani il ministro Golborne tornerà a fare quello che faceva prima: l’esecutore materiale degli interessi delle concessionarie, schierato sistematicamente contro i minatori in ogni singolo conflitto che si apre.
Che bel paese sarebbe il Cile se invece “il rame fosse nostro” come è stato al tempo della Unidad Popular (nella foto Salvador Allende con i minatori), l’unico momento nella storia del paese nel quale i minatori hanno avuto diritto di parola sulla loro sicurezza e sul loro lavoro. L’unico momento nel quale la ricchezza del rame non andava a qualche multinazionale di rapina e i minatori guadagnavano salari dignitosi.
Non fu un caso, giova ricordarlo agli avventizi dell’informazione che di questi dettagli mai si sono curati in due mesi, che, dopo l’11 settembre, mentre il mondo al massimo guardava alla Moneda in fiamme o allo Stadio nazionale trasformato in lager, Augusto Pinochet incaricò il generale Sergio Arellano Stark di battere palmo a palmo le miniere del nord del Cile.
L’obbiettivo era rastrellare quei minatori che erano stati la spina dorsale dell’Unidad Popular e che in quella militanza, sotto le bandiere del Partito Socialista, di quello Comunista, del MIR, avevano trovato per la prima volta nella storia dignità, sicurezza e rapporti di produzione non più iniqui.
Era la “carovana della morte”. Almeno duecento minatori, vittime di quei sinistri elicotteri che atterravano all’improvviso nei villaggi artificiali dove ancora oggi solo agli ingegneri stranieri è garantito un frammento di prato, mentre per i lavoratori cileni e le loro famiglie ci sono solo sassi, ancora oggi sono desaparecidos.
Non è un caso che il principale addebito di Henry Kissinger, l’eminenza grigia del golpe, a Salvador Allende fosse stato proprio la nazionalizzazione del rame.
Certo, tutti i cileni si sono sinceramente commossi, come il resto del mondo per la sorte di quei 33 piccoli uomini che da secoli scendono nelle viscere della terra a tirar fuori la principale ricchezza del paese che qualcuno altrove godrà. Un resto del mondo che non sa trovare il deserto di Atacama su una cartina come non sa che deve dire grazie a quei minatori ogni volta che alza il telefono e comunica con una voce conosciuta all’altro capo di quel filo metallico. Ma nel mondo videodiretto, centinaia di milioni di telespettatori sono ora autorizzati a pensare, di “aver già dato” con la commozione per quei 33.
Certo, il paese, sotto gli occhi del grande fratello mondiale, ha dato una gran prova di sé, orgoglio, nazionalismo, (tardiva) efficienza. Oro, più che rame, per il presidente Sebastián Piñera e il suo governo che, per una prova difficile ma allo stesso tempo più limitata di quella di Silvio Berlusconi per il terremoto dell’Aquila, ha trovato la più straordinaria “photo opportunity” che potesse immaginare.
Dalla notizia che i minatori erano vivi, Piñera ha iniziato a bivaccare al bordo del pozzo, stringendo mani, dispensando sorrisi e pacche sulle spalle, abbracciando uomini e donne con le quali non avrebbe mai preso un caffé. Prima, nei lunghi giorni quando si pensava che i minatori fossero morti, non si era mai fatto vedere.
Era la “carovana della morte”. Almeno duecento minatori, vittime di quei sinistri elicotteri che atterravano all’improvviso nei villaggi artificiali dove ancora oggi solo agli ingegneri stranieri è garantito un frammento di prato, mentre per i lavoratori cileni e le loro famiglie ci sono solo sassi, ancora oggi sono desaparecidos.
Non è un caso che il principale addebito di Henry Kissinger, l’eminenza grigia del golpe, a Salvador Allende fosse stato proprio la nazionalizzazione del rame.
Certo, tutti i cileni si sono sinceramente commossi, come il resto del mondo per la sorte di quei 33 piccoli uomini che da secoli scendono nelle viscere della terra a tirar fuori la principale ricchezza del paese che qualcuno altrove godrà. Un resto del mondo che non sa trovare il deserto di Atacama su una cartina come non sa che deve dire grazie a quei minatori ogni volta che alza il telefono e comunica con una voce conosciuta all’altro capo di quel filo metallico. Ma nel mondo videodiretto, centinaia di milioni di telespettatori sono ora autorizzati a pensare, di “aver già dato” con la commozione per quei 33.
Certo, il paese, sotto gli occhi del grande fratello mondiale, ha dato una gran prova di sé, orgoglio, nazionalismo, (tardiva) efficienza. Oro, più che rame, per il presidente Sebastián Piñera e il suo governo che, per una prova difficile ma allo stesso tempo più limitata di quella di Silvio Berlusconi per il terremoto dell’Aquila, ha trovato la più straordinaria “photo opportunity” che potesse immaginare.
Dalla notizia che i minatori erano vivi, Piñera ha iniziato a bivaccare al bordo del pozzo, stringendo mani, dispensando sorrisi e pacche sulle spalle, abbracciando uomini e donne con le quali non avrebbe mai preso un caffé. Prima, nei lunghi giorni quando si pensava che i minatori fossero morti, non si era mai fatto vedere.
Dopo, con i riflettori accesi, ha capitalizzato quindici punti di aumento di popolarità in appena quindici giorni. Ha modulato le sue presenze e perfino programmato la liberazione dei minatori in base al prime time televisivo e ai propri impegni internazionali.
Adesso il Cile tornerà nel cono d’ombra dell’informazione con i suoi minatori umiliati e la sua corte dei miracoli. E ancora una volta la televisione ci ha restituito un reality show per addormentare le coscienze.
Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it
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