di Nicola Melloni - Fonte Liberazione
Quello che sta succedendo in Italia – l’attacco ai diritti dei lavoratori, i tagli di bilancio, i colpi inferti al dettato costituzionale – sono sintomi pericolosi di un generale trend di smottamento democratico che non si limita al nostro paese anche se è proprio da noi che questi rischiano di degenerare in un collasso generale delle istituzioni.
Quello cui ci troviamo davanti, infatti, è un cambiamento epocale, una delle tante trasformazioni del capitalismo che si riverberano fatalmente anche sul sistema politico.
Non occorre andare a rileggere Marx per capire che le diverse fasi dello sviluppo economico concorrono a determinare la distribuzione del potere tra le diverse classi e, di conseguenza, le varie configurazione istituzionali.
Fu così dopo il crollo di Wall Street nel 1929, fu così dopo la crisi del sistema monetario negli anni 70. Quella che stiamo vivendo è una nuova riorganizzazione del sistema capitalistico nell’ambito di una nuova crisi del modo di produzione.
Una crisi che è il fallimento del neo-liberismo che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni di sviluppo economico sia europeo che mondiale. Un fallimento che a livello teorico vendica le battaglie della sinistra e dimostra come le critiche avanzate contro la globalizzazione capitalista fossero fondate e puntuali.
Purtroppo, però, al disastro del capitalismo finanziario non è corrisposta la riorganizzazione politica della sinistra, entrata in crisi nel post-89. In tutta Europa si sta tentando (ahimè con successo) di far pagare i conti della crisi ai lavoratori, imponendo una deflazione interna ai paesi più in difficoltà, come la Grecia, la Spagna, ma anche l’Italia ed il Regno Unito.
Come a fine Ottocento ed inizio Novecento, si cerca di rispondere alla crisi con la riduzione dei salari e dei consumi per rilanciare la competitività internazionale dei paesi in difficoltà. Una politica che scarica sulla società i fallimenti di mercato e che era praticabile in contesti pre-democratici privi di controllo popolare sulle politiche macroeconomiche.
Ora, la tesi dominante è nuovamente che le politiche economiche non possano essere lasciate alla sovranità dei popoli, ma debbano essere decise in base alle esigenze del mercato. Questo vale sia per la politica monetaria, sopra la quale già da trent’anni abbiamo perso ogni tipo di controllo, sia per quella fiscale.
L’obiettivo è lo svuotamento della democrazia che diventerebbe semplicemente un orpello inutile, potendo intervenire solo su aspetti marginali della vita sociale e non, invece, sul modello di sviluppo economico (e dunque di convivenza civile), contraddicendo le origini del contratto sociale che già con la Magna Charta si basava sul semplice ma indispensabile no taxation without representation. Si tratta di una escalation di portata ancora difficilmente valutabile, ma i cui rischi non possiamo nasconderci.
Dopo trent’anni di marginalizzazione del lavoro e di ridistibuzione del reddito a favore del capitale, la grande borghesia ed i suoi tecnocrati si preparano ora ad attaccare i diritti politici, in maniera più o meno palese. Non a caso una destra reazionaria, cattiva e spesso razzista, che di liberale non ha davvero nulla, sta avanzando in tutto il globo dall’Italia alla Svezia fino ai Tea-Party americani.
In un tale drammatico contesto la situazione italiana è ancora più critica. E fluida, proprio come la descriveva Gramsci nei Quaderni: «La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati».
La riorganizzazione in chiave reazionaria del capitale industriale, il crollo vertiginoso della moralità pubblica, i miasmi di una lotta politica tra oscuri gruppi di potere e lo scenario da fine impero del nostro paese rappresentano in pieno questi fenomeni morbosi.
L’arretratezza del nostro sistema economico e la storica incapacità della nostra classe dirigente di governare i periodi di crisi rendono l’attuale scenario ancora più preoccupante, soprattutto in un contesto mondiale in cui sembra avanzare imperiosamente un modello di capitalismo autoritario, in cui l’accumulazione del capitale è accompagnata dalla repressione politica, unica maniera per scaricare i costi della ristrutturazione sui lavoratori e più in generale sulla popolazione.
Non possiamo sottovalutare il rischio che la paralisi istituzionale, la crescente insofferenza degli industriali ma anche di grande parte della popolazione verso un sistema politico incapace di fornire soluzione ai problemi della vita quotidiana ed i colpi di coda del berlusconismo – uniti ad un inquietante crescita della violenza nelle nostre periferie ed ad un sempre più preoccupante degrado civile e morale della nostra società – si trasformino in un pericolo diretto per la nostra democrazia.
Già Rosa Luxemburg aveva previsto che la crisi del capitalismo avrebbe portato ad un periodo di barbarie (il nazismo ed il fascismo sarebbero arrivati di lì a poco) nel caso che i socialisti non fossero stati capaci di organizzare una alternativa di sistema.
Dunque, la sinistra ha il dovere di riorganizzarsi in fretta. L’obiettivo di breve periodo deve necessariamente essere quello di scongiurare una svolta reazionaria nel nostro paese, mentre sul medio periodo è indispensabile una riorganizzazione politica e culturale in grado di indicare una diversa via d’uscita dalla crisi.
Ora anche più del solito il futuro della democrazia e quello della sinistra sono indissolubilmente legati.
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