Il sindacato tedesco Dgb ha elaborato un Piano Marshall per l’Europa che è stato discusso nei giorni scorsi in un interessante seminario nella sede nazionale della Cgil ( scarica lo speciale di Rassegna Sindacale ). È di grande importanza che un’istituzione tedesca proponga un piano di sviluppo di dimensione paneuropea ed è ancora più importante che esso sia impostato lungo una linea sostanzialmente alternativa a quella del governo di Berlino. Alternativa sul piano dell’analisi, poiché assegna alla politica di austerità la responsabilità della depressione dell’area euro che ora comincia a riflettersi sulla stessa Germania.
Alternativa nella strategia proposta, che coincide largamente con le elaborazioni in corso nella Cgil dall’inizio della crisi, soprattutto a opera del Forum per l’economia, in particolare con l’appello dei 70 economisti e con il “Libro bianco” che ha alimentato l’elaborazione del Piano del lavoro lanciato di recente dalla stessa confederazione. Il Piano della Cgil è focalizzato sulla situazione italiana, quello tedesco mira direttamente alla dimensione europea.
Questo Piano targato Dgb si ricollega alla tradizione del grande riformismo , quello che dette risposta alla crisi degli anni trenta lanciando il Welfare State, le politiche dei redditi e le prime forme di programmazione economica. Esso, definendo lo Stato sociale “una forza produttiva” capovolge la menzognera vulgata che vede nell’eccesso di welfare la causa della crisi. Di più. Da questa visione riformista il Piano mutua due convinzioni. Lo scopo della crescita economica non è l’aumento della competitività, ma il benessere dei cittadini, anche se tale benessere deve oggi essere ridefinito alla stregua dei nuovi bisogni nel frattempo maturati.
Ancora: il ruolo principale della politica economica è quello di indurre il sistema economico a utilizzare tutte le sue risorse esistenti e potenziali, a cominciare dal lavoro. Anche per quanto riguarda il rapporto fra breve e lungo periodo l’approccio del Piano rovescia quello dei sostenitori dell’austerità. Per questi ultimi la contrazione dell’economia provocata dall’austerità è necessaria per creare le condizioni per il rilancio. La famosa “contrazione espansiva”. Schumpeter ha usato l’espressione “distruzione creatrice”; in essa il sostantivo è scontato: in crisi di questa portata, la distruzione è inevitabile ed in effetti è in corso; l’aggettivo è invece problematico, in quanto la fase creativa non nascerà da sé, ma solo se vi saranno una volontà e delle politiche orientate in quel senso; senza di esse la distruzione resta tale e può essere anche distruzione di capacità produttiva che non si potrà ricreare.
La connessione tra breve e lungo periodo nel documento è stabilita all’opposto. In entrambi i periodi, infatti, è necessario un sostegno della domanda: nella fase congiunturale con interventi pubblici, nel lungo periodo attivando un meccanismo complesso di finanziamento degli investimenti. Nei due casi l’impegno deve essere diretto verso investimenti pubblici e privati rivolti a migliorare il livello d’istruzione, la ricerca, le infrastrutture, la sostenibilità ambientale della crescita. Nessuna logica dei due tempi: entrambi gli interventi punterebbero a un nuovo modello di sviluppo nel quale elemento trainante della crescita della domanda dovrebbero essere gli investimenti e non i consumi privati e che dia corso a una crescita più sostenibile dal punto di vista ambientale e più suscettibile di utilizzare le enormi potenzialità dell’economia della conoscenza.
Esattamente la linea proposta dal “Libro bianco” del Forum della Cgil. L’intervento congiunturale potrebbe essere finanziato, in ipotesi, decidendo di dedurre dal calcolo del deficit dei singoli Stati determinate spese per investimenti, accettando un controllo dell’Unione europea. Quanto al finanziamento del piano decennale la proposta è di costituire un Fondo europeo per il futuro, che potrebbe mobilitare capitali privati emettendo “obbligazioni New Deal”. Si tratterebbe di finanziare investimenti per 260 miliardi di euro l’anno per dieci anni. L’ipotesi è realistica e si inserisce in una crescente attenzione della politica a livello mondiale sulla possibilità di utilizzare come leva dello sviluppo l’enorme quantità di asset presenti, per esempio, nei portafogli degli investitori istituzionali. Essi in Europa ammontano oggi a 14 trilioni, un trilione circa solo in Italia, in un quadro di notevoli difficoltà a fare investimenti nel contesto depressivo attualmente imperante.
Un’imposta sulle transazioni finanziarie potrebbe servire per contribuire a pagare gli interessi sui fondi investiti, mentre un’imposta patrimoniale di dimensione europea viene proposta per costituire il capitale del Fondo europeo per il futuro. I risultati previsti sono una maggiore crescita del 3 per cento l’anno del Pil dell’Unione e 11 milioni di occupati in più a tempo pieno nel decennio. Non è da escludere che con il clima di generale maggiore fiducia che ne conseguirebbe, i risultati possano essere ancora più positivi. Tutto questo, naturalmente, a condizione che la politica decida di salire sull’alta plancia per assumere la direzione dei processi economici.
Due osservazioni e una considerazione finale . L’unico punto per il quale la proposta del Dgb sembra resti tributaria dell’ortodossia economica tedesca riguarda la politica monetaria e il riconoscimento della sua indipendenza dalla politica fiscale, che comporta di escludere che essa possa servire come leva per la crescita e come difesa in una fase che resta caratterizzata dal fatto che in tutti i paesi dell’Unione il livello dei debiti – somma del debito privato e pubblico – è dall’inizio della crisi aumentato ed è a livelli da record storico. Rompere con l’ortodossia su questo punto significherebbe usare la grande produzione di nuova moneta, che in qualche misura la Bce sta già facendo, per attenuare la pressione sui debiti sovrani esercitata dai mercati attraverso gli spread, finanziare il rilancio congiunturale a costo zero, monetizzare in parte il debito e concorrere al finanziamento degli investimenti di lungo periodo: niente impedirebbe, per esempio, che il capitale e in generale le risorse del Fondo per il futuro vengano fornite dalla Bce se tale Fondo fosse costituito nella forma giuridica di banca, mentre il ricorso a un’imposta patrimoniale europea richiederebbe degli anni per essere realizzato.
La seconda osservazione parte dalla constatazione che questo programma, come quello della Cgil e in genere tutte le proposte provenienti dalla sinistra, punta sulla politica fiscale per ridurre le disuguaglianze e incentivare la produzione: spostare la pressione dal lavoro e dalla produzione verso la rendita e i patrimoni. Sacrosanto nel breve periodo, ma è impensabile che, lasciando che i mercati continuino nella loro naturale tendenza ad aumentare le disuguaglianze, si possa all’infinito contrastarla con il bilancio pubblico. Bisognerà alla fine individuare il modello che consenta di distribuire il prodotto tra capitale e lavoro in modo equo e confacente con le caratteristiche del nuovo modello di sviluppo e con la sua sostenibilità negli anni. A suo tempo, la risposta fu la politica dei redditi: il collegamento della dinamica salariale a quella della produttività media del sistema economico. Oggi forse non sarebbe praticabile, per lo meno non in un singolo paese, dato il livello di globalizzazione raggiunto e in quanto la produttività è un parametro meramente quantitativo, efficace per misurare la performance in un’economia fordista, non in quelle attuali. Porsi un tale problema porterebbe ad affrontare i temi dei sistemi contrattuali, dei modelli organizzativi delle imprese e della loro governance, del mercato del lavoro.
Alternativa nella strategia proposta, che coincide largamente con le elaborazioni in corso nella Cgil dall’inizio della crisi, soprattutto a opera del Forum per l’economia, in particolare con l’appello dei 70 economisti e con il “Libro bianco” che ha alimentato l’elaborazione del Piano del lavoro lanciato di recente dalla stessa confederazione. Il Piano della Cgil è focalizzato sulla situazione italiana, quello tedesco mira direttamente alla dimensione europea.
Questo Piano targato Dgb si ricollega alla tradizione del grande riformismo , quello che dette risposta alla crisi degli anni trenta lanciando il Welfare State, le politiche dei redditi e le prime forme di programmazione economica. Esso, definendo lo Stato sociale “una forza produttiva” capovolge la menzognera vulgata che vede nell’eccesso di welfare la causa della crisi. Di più. Da questa visione riformista il Piano mutua due convinzioni. Lo scopo della crescita economica non è l’aumento della competitività, ma il benessere dei cittadini, anche se tale benessere deve oggi essere ridefinito alla stregua dei nuovi bisogni nel frattempo maturati.
Ancora: il ruolo principale della politica economica è quello di indurre il sistema economico a utilizzare tutte le sue risorse esistenti e potenziali, a cominciare dal lavoro. Anche per quanto riguarda il rapporto fra breve e lungo periodo l’approccio del Piano rovescia quello dei sostenitori dell’austerità. Per questi ultimi la contrazione dell’economia provocata dall’austerità è necessaria per creare le condizioni per il rilancio. La famosa “contrazione espansiva”. Schumpeter ha usato l’espressione “distruzione creatrice”; in essa il sostantivo è scontato: in crisi di questa portata, la distruzione è inevitabile ed in effetti è in corso; l’aggettivo è invece problematico, in quanto la fase creativa non nascerà da sé, ma solo se vi saranno una volontà e delle politiche orientate in quel senso; senza di esse la distruzione resta tale e può essere anche distruzione di capacità produttiva che non si potrà ricreare.
La connessione tra breve e lungo periodo nel documento è stabilita all’opposto. In entrambi i periodi, infatti, è necessario un sostegno della domanda: nella fase congiunturale con interventi pubblici, nel lungo periodo attivando un meccanismo complesso di finanziamento degli investimenti. Nei due casi l’impegno deve essere diretto verso investimenti pubblici e privati rivolti a migliorare il livello d’istruzione, la ricerca, le infrastrutture, la sostenibilità ambientale della crescita. Nessuna logica dei due tempi: entrambi gli interventi punterebbero a un nuovo modello di sviluppo nel quale elemento trainante della crescita della domanda dovrebbero essere gli investimenti e non i consumi privati e che dia corso a una crescita più sostenibile dal punto di vista ambientale e più suscettibile di utilizzare le enormi potenzialità dell’economia della conoscenza.
Esattamente la linea proposta dal “Libro bianco” del Forum della Cgil. L’intervento congiunturale potrebbe essere finanziato, in ipotesi, decidendo di dedurre dal calcolo del deficit dei singoli Stati determinate spese per investimenti, accettando un controllo dell’Unione europea. Quanto al finanziamento del piano decennale la proposta è di costituire un Fondo europeo per il futuro, che potrebbe mobilitare capitali privati emettendo “obbligazioni New Deal”. Si tratterebbe di finanziare investimenti per 260 miliardi di euro l’anno per dieci anni. L’ipotesi è realistica e si inserisce in una crescente attenzione della politica a livello mondiale sulla possibilità di utilizzare come leva dello sviluppo l’enorme quantità di asset presenti, per esempio, nei portafogli degli investitori istituzionali. Essi in Europa ammontano oggi a 14 trilioni, un trilione circa solo in Italia, in un quadro di notevoli difficoltà a fare investimenti nel contesto depressivo attualmente imperante.
Un’imposta sulle transazioni finanziarie potrebbe servire per contribuire a pagare gli interessi sui fondi investiti, mentre un’imposta patrimoniale di dimensione europea viene proposta per costituire il capitale del Fondo europeo per il futuro. I risultati previsti sono una maggiore crescita del 3 per cento l’anno del Pil dell’Unione e 11 milioni di occupati in più a tempo pieno nel decennio. Non è da escludere che con il clima di generale maggiore fiducia che ne conseguirebbe, i risultati possano essere ancora più positivi. Tutto questo, naturalmente, a condizione che la politica decida di salire sull’alta plancia per assumere la direzione dei processi economici.
Due osservazioni e una considerazione finale . L’unico punto per il quale la proposta del Dgb sembra resti tributaria dell’ortodossia economica tedesca riguarda la politica monetaria e il riconoscimento della sua indipendenza dalla politica fiscale, che comporta di escludere che essa possa servire come leva per la crescita e come difesa in una fase che resta caratterizzata dal fatto che in tutti i paesi dell’Unione il livello dei debiti – somma del debito privato e pubblico – è dall’inizio della crisi aumentato ed è a livelli da record storico. Rompere con l’ortodossia su questo punto significherebbe usare la grande produzione di nuova moneta, che in qualche misura la Bce sta già facendo, per attenuare la pressione sui debiti sovrani esercitata dai mercati attraverso gli spread, finanziare il rilancio congiunturale a costo zero, monetizzare in parte il debito e concorrere al finanziamento degli investimenti di lungo periodo: niente impedirebbe, per esempio, che il capitale e in generale le risorse del Fondo per il futuro vengano fornite dalla Bce se tale Fondo fosse costituito nella forma giuridica di banca, mentre il ricorso a un’imposta patrimoniale europea richiederebbe degli anni per essere realizzato.
La seconda osservazione parte dalla constatazione che questo programma, come quello della Cgil e in genere tutte le proposte provenienti dalla sinistra, punta sulla politica fiscale per ridurre le disuguaglianze e incentivare la produzione: spostare la pressione dal lavoro e dalla produzione verso la rendita e i patrimoni. Sacrosanto nel breve periodo, ma è impensabile che, lasciando che i mercati continuino nella loro naturale tendenza ad aumentare le disuguaglianze, si possa all’infinito contrastarla con il bilancio pubblico. Bisognerà alla fine individuare il modello che consenta di distribuire il prodotto tra capitale e lavoro in modo equo e confacente con le caratteristiche del nuovo modello di sviluppo e con la sua sostenibilità negli anni. A suo tempo, la risposta fu la politica dei redditi: il collegamento della dinamica salariale a quella della produttività media del sistema economico. Oggi forse non sarebbe praticabile, per lo meno non in un singolo paese, dato il livello di globalizzazione raggiunto e in quanto la produttività è un parametro meramente quantitativo, efficace per misurare la performance in un’economia fordista, non in quelle attuali. Porsi un tale problema porterebbe ad affrontare i temi dei sistemi contrattuali, dei modelli organizzativi delle imprese e della loro governance, del mercato del lavoro.
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