Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

lunedì 26 agosto 2013

Quousque tandem?

1. I liquidatori "zeloti" runnin'on empty

di Quarantotto

Quousque tandem?
Questa domanda è probabilmente la più frequente che si pongono i lettori consapevoli dei vari blog che analizzano la crisi senza le formule preconfezionate e ripetute, sostanzialmente, da oltre 20 anni, che mugugnano su concorrenza globale, competitività, inflazione (monetaria), e, di conseguenza, attenzione esclusiva ed ossessiva al "debitopubblicobrutto".

Questo, a sua volta, viene visto, arbitrariamente, come fenomeno la cui rilevanza è compressa nella dinamica degli ultimi 4-5 anni, e quindi accomunata a quella degli spread, come se fosse da questi ultimi, improvvisamente, che ne sarebbe derivato il problema della insostenibilità.


Ora, l'elemento più macroscopico di questa mistificazione, tutta incentrata sull'occultamento del conflitto sociale, cioè della compressione della quota salari (in generale delle retribuzioni di ogni forma di lavoro), rispetto alla quota profitti e rendite finanziarie, in rapporto al reddito delle varie realtà statali coinvolte, anzitutto in Europa, ha il nome di "euro".

L'euro è certamente un sistema monetario pensato ed applicato per "disciplinare" le dinamiche salariali e riorientare il profitto verso una crescita fondata essenzialmente sulla "competitività", cioè sulle esportazioni, e lo fa in contrapposizione allo Stato, visto come l'inefficiente alimentatore della domanda interna.
Allo Stato, con il solo fatto di articolare le previsioni del Trattato di Maastricht (correttamente inteso), "l'Europa del sogno" imputa di alterare essenzialmente, con il suo intervento di spesa pubblica, il mercato del lavoro; sia appunto sostenendo la domanda interna di beni e servizi presso le imprese private, sia come erogatore di funzioni pubbliche e servizi di interesse generale -che andrebbero nel complesso a costituire il "salario sociale"-, sia come datore di lavoro e calmieratore della disoccupazione, (cioè come disattivatore della leva al contenimento salariale denominabile come "esercito industriale di riserva dei disoccupati").


Ci verrebbe allora più facile dare la risposta alla domanda "fino a quando?" se, e solo se, tenessimo ben focalizzato questo contesto: gli eventi economici "mondiali" cui stiamo assistendo in realtà lo confermano, facendo riemergere la realtà del c.d. "conflitto sociale", che è poi una considerazione naturale, cioè bio-antropologica, del fenomeno dell'essere umano e dei livelli di abbrutimento, vogliamo dire di "non benessere" elementare, che possono essergli imposti. Ed imposti in nome della "competitività" ricercata da controllori del capitale che non possono tollerare una flessione dei profitti programmati.


Tutto quanto sta accadendo conferma questa tensione
, trascurata e rimossa nel tentativo di affermare una competizione mondiale che non tollera ostacoli e obiezioni "culturali": così l'arretramento della crescita della Cina, sull'orlo di una bolla immobiliare, rimodulata in diminuzione su una riconsiderazione della domanda interna, l'atteggiamento giapponese che privilegia nuovamente un obiettivo inflazionistico e la stessa domanda interna, per stimolare investimenti effettivi al di là delle alchimie finanziarie, conducendo all'effetto del deprezzamento della propria valuta, la stessa battuta d'arresto di paesi come India e Brasile, alle prese con crisi fisiologiche da "crescita" del rispettivo modello di capitalismo.


L'Europa, in questa realtà antropologica (e in progressivo rafforzamento) si segnala per la sua distonica ostinazione.

Abbiamo spesso ribadito come la patologia del debito pubblico, in specie quello italiano, abbia una "origine" chiaramente imputabile al "divorzio" tesoro-bankitalia, applicato in spregio di un sistema legislativo al tempo vigente, che, nonostante i "pareri" legali resi ad Andreatta, non avrebbe consentito di realizzarlo: almeno senza una legge parlamentare, di cui si potesse vagliare, oltretutto, la legittimità costituzionale alla luce dell'art.47 Cost. e del complessivo sistema delineato, in materia creditizia, dalla legge bancaria del 1936,. Questa, infatti, prevedeva un indirizzo politico-governativo in materia, di fatto disattivato (nei suoi residui di una prassi a dir poco ambigua), dalle letterine scambiatesi tra Ciampi ed Andreatta.

Ora, nonostante la stucchevole grancassa "€urota" cominciata col divorzio stesso (che si premurava di completare il "vincolo" dello SME, con accenti assolutamente identici a quelli utilizzati oggi per stigmatizzare rivendicazioni salariali e un immaginario "eccesso" di spesa pubblica), in assenza del divorzio, e scontando il calo dell'inflazione che certamente non fu dovuto alle politiche monetariste (come ammisero gli stessi Friedman e Greenspan, che fruirono solo di "good luck" nella simultaneità con un calo dei prezzi delle materie prime), l'Italia di sarebbe probabilmente presentata all'appuntamento di Maastricht con un debito prossimo al 60%.


Basti dire che tra il 1981 e il 1984 l'onere del debito pubblico per interessi raddoppiò dal 4% all'8% (eppure, ribadiamo, l'inflazione stava autonomamente calando), portando il debito dal 58% al 120 nel fatidico 1993 (quello della mega-manovra di Ciampi, post Maastricht, succeduta alla super-manovra di Amato del 1992).


Questo riassuntino ci fa capire che ben poco, da allora, dalla realizzazione di questa grande truffa politico-finanziaria a precise basi ideologiche, è cambiato.


Le parole d'ordine dei governi, specie illuminati e "di €uro-sinistra" sono sempre le stesse: diminuire il costo del servizio del debito pubblico per reperire risorse per fare "investimenti" (supply side) e attenuare il costo del lavoro: ora si riparla degli oneri sociali sullo stesso. E questo, dimenticando che la "fiscalizzazione" fu realizzata, negli anni '70, con successo proprio sulla scorta delle entrate fiscali sospinte dal fiscal-drag su salari indicizzati, mentre la competitività, raggiunta agevolmente col cambio flessibile, consentiva in realtà investimenti produttivi molto più sostanziali e rapidi che nei paesi che, come l'Inghilterra thatcheriana, (e poi la Francia del "secondo" Mitterand), si erano affidati alla ottusa ridda di licenziamenti in massa, deflazione salariale e oscene privatizzazioni in danno dei consumatori ma a vantaggio dei nuovi monopolisti privati, certissimamente lontani dall'idea di erodere le proprie rendite-bancomat con nuovi investimenti in innovazione tecnologica che non sarebbero comunque stati imposti dal progresso anche al gestore pubblico.


Allora: "fino a quando?"

Se la realtà di questo contesto storico (e ideologicamente crepuscolare) non riemergerà nelle coscienze dei cittadini la risposta sarà necessariamente inquietante.

E lo sarà tanto più quanto questa realtà storio-ideologica, causativa dell'attuale disastro, continuerà ad essere celata dai media e, invece, proseguirà la diffusione delle parole d'ordine assolutamente date per scontate da un'opinione pubblica assuefatta e scissa tra questa pseudo-spiegazione truffaldina e gli effetti che trova davanti agli occhi e nelle proprie tasche
.

La apparente irrisolvibilità dei "problemi" seguendo queste ricette, unita alla mancanza di dubbio così diffusa, sulla loro "bontà", causa angoscia ai cittadini (non consapevoli, oltre che naturalmente ai pochi consapevoli, ma a questi, per ragioni opposte); e l'angoscia causa rabbia. Ma molto mal diretta: l'effetto generale è il parossismo giacobino su ruberie e sprechi, fenomeni collaterali determinati dal grande potere che i gestori a designazione politica si vedono assicurare dal sistema normativo "€uropeo".


Lo scopo di quest'ultimo è "affamare la bestia",
cioè lo Stato demonizzato e portare compattamente l'opinione pubblica al rigetto per ogni sua manifestazione, fino a che essa stessa non invocherà a gran voce lo smantellamento di questo baraccone, "improduttivo", nefasto e invariabilmente e acriticamente visto come "eccessivo".

Noi sappiamo che questa strategia, proseguita in questi giorni con pervicacia assoluta, porta all'autodistruzione della stessa realtà economica del Paese, in una corsa irresponsabile in cui i suoi fautori continueranno ad accelerare fino a che il "punto di non ritorno", innescherà la reazione del corpo sociale.


Questa appare ancora lontana, in Italia, perchè esiste un paradosso: i disoccupati si appoggiano alle famiglie che intaccano lo stock di risparmio per sopravvivere quasi "comunitariamente, le PMI esportatrici possono in parte fruire della deflazione interna, le PMI di servizi e nel settore della distribuzione si avviano a una lenta dissoluzione. Senza però poter reagire contro le cause efficienti della propria distruzione, avvinte come sono nelle maglie del "vecchio" sistema fatto di evasione fiscale e contributiva, di norme obsolete che garantiscono rendite sempre più affievolite (il caso dei tassisti, ormai asserragliati nelle ridotte di un benessere che "fu", o dei gestori di stabilimenti balneari, che autogestiscono beni demaniali come fossero usucapiti per ab aeterno, categorie semiaffondate, ma ancora galleggianti, come notai e altri professionisti, ancora lontani dal senso di spossessamento della pregressa posizione economico-sociale, e così via).


Quindi, se si guarda ai grandi numeri, che queste commistioni di risparmio da "riserva" e di rendita e illegalità di cabotaggio, ancora in parte consentono, la reazione che renda di fatto non più effettivo il sistema di potere "€uro-liberista" è ancora lontana.

La sicurezza, però, è che, esso stesso, questo €urosistema, ormai preconizza la finale e irreversibile distruzione delle stesse residue valvole di sicurezza che ne hanno, almeno in Italia, consentito la prosecuzione.

Cioè quel minimo di stabilità sociale che non rendeva bisognosa e miserabile la schiacciante maggioranza della popolazione.


Perciò liberalizzazioni... Bolkenstein, privatizzazioni del patrimonio pubblico, abolizioni ulteriori di determinati meccanismi normativi "corporativi", inasprimenti fiscali sulle rendite catastali, ampliamento della disoccupazione sul versante del pubblico impiego, riduzione dei programmi di spesa pubblica conseguenti ad apparenti misure di allentamento dei vincoli di bilancio (tipo pagamenti crediti alle imprese, ripagati con rientri della spesa su investimenti e servizi sociali, a livello locale ma anche centrale), ci portano invece a questa certezza di miseria e insicurezza pandemiche.

In tempi relativamente brevi. Parliamo di mesi, ormai.

Gli attuali zeloti sono ormai convinti che possono durare fino al 2015, potendo giocare sulla stessa impopolarità della crisi politica che fatti giudiziari, del tutto estemporanei, rispetto alla realtà della crisi, potrebbero innescare.

E però ogni giorno in più che gli "zeloti" permarranno al governo, determinerà un avvicinamento all'attuazione delle misure che distruggeranno il suo labile consenso propagandistico
(oggi di una compattezza tanto forte da rammentare proprio il "prima della fine" di molte dittature).


I prossimi due anni saranno perciò una corsa verso il baratro, in cui una classe politica cementificata negli slogan della fine degli anni '80, condurrà l'intera Nazione, sbandierando, prima di affondare, presunte richieste all'UEM di allentare l'austerità: ma solo perchè quella che loro considerano praticabile e "misurata" è più che sufficiente alla definitiva degradazione sociale ed economica, mentre far apparire Olli Rehn o Schauble come formalmente "arginati" allunga di qualche mese la presunta legittimazione dei "liquidatori finali".



2. Euro-spacchettamento e il pericolo Irlanda

ADDENDUM "CIRCOSTANZIALE": il fatto che nella ipotesi dello "spacchettamento" ci sia, per l'Italia, "anche" Claudio Borghi, non può essere che un attestato di serietà della considerazione dell'interesse italiano. Poche persone, quanto lui, hanno saputo costantemente inquadrare con nitidezza, e andando veramente al punto, le varie problematiche di questa gigantesca €uro-truffa ai nostri danni. Per molti aspetti di comprensione "negoziale" e di essenzialità di analisi e soluzioni, Borghi è una garanzia. Ad avercene, in Italia...


Nel punto 1. abbiamo passato in rassegna il versante italico della faccenda. Almeno nel senso delle dinamiche che, probabilisticamente, in assenza di fattori nuovi, ci attendono.

Ora vi propongo una visione di "osservatori internazionali", apparentemente neutrali: qui si fa una premessina di prammatica mainstream sugli indicatori della "ripresa", dell'attendibilità dei quali abbiamo già detto (nei commenti è poi emerso un dibattito sul..."fascismo"). Qualificata così la sua base scientifico-ideologica, lo studio (?), prosegue: "L’Eurozona, inoltre, mostra segnali di un riequilibrio. Negli anni del boom i costi unitari del lavoro sono aumentati troppo rapidamente nell’Europa periferica e in misura insufficiente in Germania. Ciò si è tradotto in un ampio divario di competitività nell’Eurozona, che comincia a ridursi (anche se paesi come l’Italia e la Francia hanno ancora molta strada da fare; si veda il post sul nostro blog). Per quanto concerne il saldo delle partite correnti, l’Italia e l’Irlanda fanno registrare un avanzo, la Grecia ha ridotto il suo ampio disavanzo e la Spagna e il Portogallo evidenziano deficit modesti.

Si tratta di piccoli passi ma necessari, per assicurare la sopravvivenza dell’euro
".

Per fortuna ci risparmia, poi, l'idea che la Germania sia la locomotiva d'Europa e piuttosto, sottolineandone il boom - e dimenticando alcuni "piccoli dettagli" sulle sue cause- ci dice che essa, piuttosto, è la "Cina" d'Europa (il che fa persino torto alla Cina se si volesse guardare specialmente alla situazione attuale). E ammette: "Le eccedenze di capitale generate dall’accresciuta competitività internazionale della Germania si sono riversate in Europa meridionale e in Irlanda. Le banche e gli investitori tedeschi sono parte della comunità internazionale che ha fatto credito ai governi e alle imprese nei paesi periferici, con l’obiettivo di realizzare maggiori rendimenti di quelli offerti dai Bund. Naturalmente, in assenza di questi apporti di capitale, i paesi dell’Europa meridionale e l’Irlanda non avrebbero potuto accumulare tanto debito (nel 2008 circa l’80% dei titoli di Stato greci, irlandesi e portoghesi era detenuto da investitori esteri). In aggiunta, l’aumento dei costi unitari del lavoro in questi paesi sarebbe stato probabilmente più contenuto (specialmente nel settore pubblico) e il divario di competitività tra la Germania e le nazioni periferiche sarebbe stato meno pronunciato.

La Germania ha beneficiato della moneta unica più di ogni altro Stato membro. Un eventuale default avrebbe effetti devastanti sul sistema bancario e sulle esportazioni nazionali. Il Paese si trova in una situazione delicata, quindi è difficile capire perché potrebbe abbandonare l’euro
". Già perchè mai?


Infine conclude che i PIGS non "potrebbero" uscire, nonostante il massacro cui si sono (auto)sottoposti: "L’argomentazione più convincente proposta finora è che i costi dell’uscita dall’UEM sarebbero nettamente superiori ai benefici. Deflussi di capitali, impennata dell’inflazione, fallimento su scala nazionale, disoccupazione di massa e disordini sociali non rendono questa opzione particolarmente allettante. Provate poi a immaginare cosa accadrebbe se Italia e Spagna decidessero di uscire dall’euro. Restare nell’Eurozona è la scelta meno deleteria per i paesi debitori". Infine, lodata la BCE perchè sarebbe pronta a salvare l'euro "a qualunque costo", invita a "non sottovalutare il desiderio politico di preservare l'integrità dell'area euro", anche se, si ammette, tale area "resta per noi una fonte di preoccupazione". E poi conclude con una frasetta raggelante: "Tuttavia, dato il track record di UE e BCE e per le ragioni sopra elencate, forse l’euro potrebbe sopravvivere molto più a lungo di quanto alcuni analisti economici attualmente non si aspettino".


Insomma, tra terrorismo e "volontà politica" ci facciamo andare bene il massacro, il che comprova che per molti, la propaganda €uro-PUD€, ben diffusa nel continente, funziona e pure molto efficacemente. Il dato è che alla M&G, banca di investimenti UK, pur con "preoccupazione", la prosecuzione dell'euro pare star bene.


Un pò più seria, come analisi presupposta -
dato che certo alla Germania l'uscita non conviene, ma altrettanto certamente non gli aggrada sostenere il benchè minimo costo di una correzione che vuole e sempre vorrà solo a carico dei paesi debitori - e come proposta, è quella che ormai dovrebbe essere ben nota: la "segmentazione controllata". Da cui si desumerebbe che l'euro rimarrebbe per i...PIGS e uscirebbero, o condividerebbero un euro "pesante", Germania, Olanda, Finlandia e Austria. Almeno a interpretare Henkel.

La questione critica di questa prospettiva, riguarda com'è intuibile e come abbiamo già evidenziato, il trattamento dei crediti pregressi, emergenti in Target 2
. Questa è la questione, a nostro modesto parere (forse sbagliato? Vedremo):

"La partita è tutta qua: finito il "loro" dividendo per collasso della domanda UEM- provocato dalla loro imposizione di austerity e, in definitiva, dalla loro gretta avidità nell'assumersi un rischio che consegue a strategie di mercantilismo imperialista in violazione dei trattati- l'oligarchia tedesca vorrebbe conservare il malloppo e portarselo a casa intatto.

Probabilmente, tenteranno di convincere i deboli governi PIGS che i corsi dell'euro siano "ultrattivi": cioè che per i debiti contratti prima dell'eurobreak, si continuino ad applicare i valori, ad es; euro-dollaro, vigenti al momento in cui il debito è stato contratto, o, per semplificare, ad un dato momento anteriore all'euro-break.

Potrebbero essere i recenti minimi dell'estate scorsa, quando appunto il mondo scontava la oggettiva insostenibilità dell'euro (che permane), con i picchi degli spread. Spread che appunto riflettono l'approssimarsi dei valori monetari conformi ai tassi di cambio reale dei diversi paesi UEM.

O potrebbero essere gli alti corsi di quest'anno, non solo susseguenti all'OMT di Draghi (che, va rammentato a commentatori disattenti, in sè, non ha portato finora ad un solo acquisto), ma, ancor più, all'indebolimento di altre importanti valute attribuito alle politiche monetarie fortemente espansive.

E' chiaro che i tedeschi punteranno alla seconda soluzione.

Cioè, in pratica, a portare avanti una trattativa in cui, di fronte alla fine dei saldi commerciali, dai paesi UEM, che si sta prospettando, non offra alcun compromesso effettivo.

Ma anche la prima soluzione "compromissoria" pone un interrogativo: perchè si dovrebbe accettare di attenuare il rischio che essi si sono intenzionalmente assunti, stressando la moneta unica per avvantaggiarsi a spese degli altri paesi e eludendo-violando una pluralità di vincoli dei trattati, rispondenti alla "causa" cooperativa degli stessi?

Perchè farlo quando i paesi in sofferenza crescente - inclusa ormai la Francia- possono lo stesso determinare l'euro break semplicemente coalizzandosi e imponendo un assetto "naturale" dell'euro break con la normale applicazione delle rispettive "lex monetae"?"


Ora il punto è che gli ultimi dati (Istat), risalenti al 9 agosto, danno di nuovo in attivo il conto corrente estero italiano, partita merci. E non è una novità, anche lo scorso anno il dato era positivo, anche se in misura inferiore: si può segnalare l'incoraggiante dato della crescita del surplus, per beni strumentali e durevoli, proprio verso i paesi UE. Il che significa che (nonostante i Van Rompuy e i...Giannino), l'Italia sta aggiustando, repentinamente i tassi di cambio reale, cioè perseguendo una svalutazione interna.

Su base annua, ultimo dato Bankitalia di agosto, relativo a giugno, saremmo ormai in leggerissimo attivo, con quasi due punti di PIL "commerciali", ma con una partita redditi e una partita "trasferimenti" che si "mangiano" circa l'85% degli attivi.

Un quadro che conferma che la recessione-deflazione giova a un settore (manifatturiero, di PMI, ma anche di imprese ormai sotto il controllo estero) ma è pur sempre recessione e, quindi, è una cuccagna di paglia, dato che la caduta degli investimenti, e, a monte, dei risparmi, rende precaria la prosecuzione nel tempo dello stesso attivo, e comunque, rende complessivamente il sistema industriale depatrimonializzato e suscettibile di acquisizione dal "miglior offerente" estero.

E quindi, vista la situazione "redditi" e "trasferimenti" una ulteriore prosecuzione della correzione dei tassi di cambio reale rischia di condurci alla situazione Irlanda. La cuccagna sarebbe per gli investitori esteri, l'occupazione in definitiva solo nei settori da questi controllati, e la compressione "coloniale" di salari e domanda interna diverrebbe un elemento strutturale.

Tornando all'ipotesi "euro-spacchettamento", i vantaggi sono dunque legati alla sopravvivenza dell'italianità
.

Ovviamente, con le politiche attuali, il problema si pone, più che mai, anche in caso di permanenza nell'€uro-assetto attuale. E forse più drammaticamente. Ma è anche vero che se dovessimo ripagare la posizione debitoria estera intra-UEM determinata dagli squilibri commerciali degli anni scorsi, a "cambi" fissati su rapporti euro-dollaro convenienti per la Germania, il problema sarebbe non da poco: sarebbe insomma il "tacchino che si mette in forno da solo".

Tuttavia la partita, con la proposta "spacchettamento", sarebbe almeno aperta
: diversamente non avremmo, probabilmente mai, nè una classe politica nè un supporto di politica industriale, finanziabile dal sistema attuale, per affrontare una uscita in solitaria.

E, a onor del vero, altri dati ci suggeriscono che una valuta (euro-2 o, in prospettiva, italiana "vera") a corso più basso, ci consentirebbe di avere un saldo commerciale ancor più vantaggioso con gli USA e, in generale, con i paesi extra-UE (vedi Turchia, ma non solo). Ecco: questo è un dato non trascurabile che coinvolge arredamento, moda, farmaceutica e agroalimentare, e non la sola "mitica" meccanica, specialmente considerando la (scarsa) performance del dollaro rispetto al super-euro. Un aspetto, questo della competitività "relativa" dei vari settori, di cui discutiamo spesso con il mio amico Cesare Pozzi.


Il problema è che, nella "filiera produttiva", non siamo più padroni dell'intero processo, e il prodotto finale, di cui produciamo ormai per lo più componenti, sfugge, in tale assetto, alla nostra determinazione di prezzo
. E perciò dobbiamo accettare il prezzo di chi ci "domanda" e finchè ci domanda.

Il che, a sua volta, dipende dalla strategia di chi controlla le imprese che compongono la filiera, che, sempre più potrebbe divenire un controllo straniero.


Per impedire che questo aspetto faccia proseguire una situazione difficile, se non critica, anche in caso di svalutazione monetaria (comunque realizzata), occorre dunque pensare AD ALTRI STRUMENTI NON ESCLUSIVAMENTE VALUTARI.

In particolare, a un sistema creditizio nazionalizzato e commerciale "puro", e ad un sistema industriale di grande respiro che possa riprendere a fare investimenti su tecnologie competitive comunque detenute all'interno delle imprese, anche in partnership estera, ma in una posizione di forza almeno paritaria. E per far questo, poichè solo lo Stato ha la "endurance" e le risorse idonee a supportare investimenti di grande dimensione, nella situazione attuale più che mai, occorrerebbe non smantellare ma ampliare il sistema delle imprese pubbliche. Certamente nei settori giusti, e certamente dandogli il supporto del credito sinergico di un sistema bancario pubblico che pensi solo a fare credito industriale e non a giocare alla roulette russa della finanza derivata...Insomma, tutto l'opposto di von Hayek e dell'impostazione dei trattati (come sempre).

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