Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 30 agosto 2014

La crisi senza soluzioni

Stiamo galoppando allegramente verso il decimo anno di “crisi”, come viene definita questa recessione generalizzata delle economie occidentali che però, a differenza degli altri cicli economici del passato, in questa fase non può avere una sua soluzione. Non è solo l’Italia il problema, come sanno bene gli economisti più avveduti. Cercando di evidenziare una differenza inesistente tra un -0,5% e un +0,5% dovuta, a sentire i vari organi d’informazione, alle improrogabili riforme che ci ostiniamo a non portare avanti, il dibattito pubblico ufficiale propina una percezione della realtà completamente avulsa da ogni fatto reale.
A differenza delle altre crisi economiche del passato, come dicevamo, la peculiarità di quest’ultima è che non può avere una soluzione, stante l’attuale panorama politico. Infatti, altra cosa ben chiara per ogni economista, l’unico modo per far ripartire i famigerati consumi sarebbe un aumento generalizzato del livello salariale, prodotto dal decisivo contributo dell’economia pubblica. Sintetizzando, una serie di politiche keynesiane, le uniche che nel corso del Novecento siano state in grado di risollevare il capitalismo dalle cicliche crisi che ha prodotto nel suo processo di accumulazione. Il problema è che le ricette economiche non sono variabili indipendenti, quanto sempre il risultato di determinate scelte politiche.
Nello scorso secolo la presenza di un sistema economico-politico alternativo a quello capitalista rendeva necessario, per il capitalismo, salvaguardare se stesso attraverso misure redistributive, capaci di mediare il conflitto sociale e la conquista di strati sempre maggiori di popolazione alle ragioni dell’alternativa politica. Tagliando con l’accetta, la paura del socialismo imponeva al capitalismo il dovere di mediare tra la necessità di profitto dei singoli capitalisti e quella del consenso del sistema economico. Oggi quello scenario non esiste più, e la mancanza di una valida alternativa politica all’attuale sistema di sviluppo rende ininfluente per il capitalismo cementare consenso attorno ad esso. Il capitalismo oggi non ha il problema dell’egemonia, e senza la paura di perdere quest’ultima non produrrà mai spontaneamente quella mediazione capace di risollevare le sorti produttive delle economie occidentali. In buona sostanza, è divenuto ininfluente per il sistema di sviluppo produrre consenso. Non a caso, il fulcro del discorso politico si è spostato dal concetto di “rappresentanza”, tipicamente otto-novecentesco, a quello di “governo”. Il primo concetto rimanda infatti alla mediazione di interessi diversi, ed è un concetto classico anche all’interno delle dottrine politiche liberali. Il secondo è invece l’espressione di una visione del mondo in cui non è più decisivo mediare fra opposti interessi, ma governare il sistema economico secondo le scelte determinate da tale sistema. Il piano economico non è più definito dalla politica, e quest’ultima viene svalutata a livello di gestione degli interessi produttivi. “Gestione”, “amministrazione”, “governance”, divengono allora le parole chiave di questo cambiamento, che infatti risaltano per la loro assoluta a-politicità e la loro apparente neutralità. Una neutralità di facciata, che nasconde il senso ideologico dominante del capitalismo neoliberista.
Paradossalmente potremmo quindi concludere con questa provocazione, e cioè che saranno solamente le lotte di classe il motore attraverso cui far ripartire anche la produzione capitalista. Se infatti, sulla scorta di Marx, il capitalismo viene definito come un rapporto sociale, questo non può che essere dialettico, cioè basato sul confronto tra le due parti in gioco. Oggi tale confronto non esiste, perché una delle due parti, quella del lavoro salariato, non ha più una sua autonomia politica. E questo fattore inceppa i meccanismi anche dell’altra parte, che senza contraltare si trova impossibilitata a governare se stessa in maniera razionale.

venerdì 22 agosto 2014

Se gli ortodossi si scoprono eretici

Fonte: Il Manifesto | Autore: Felice Roberto Pizzuti
                   
Sul Sole 24 ore del 20 ago­sto sono apparsi due istrut­tivi arti­coli di Donato Mascian­daro e Luigi Zin­ga­les entrambi, pur con diversi accenti, auto­re­vol­mente inse­riti nel main­stream del pen­siero eco­no­mico. Entrambi mani­fe­stano la pre­oc­cu­pa­zione per l’accoppiata recessione-deflazione che in Europa sta carat­te­riz­zando que­sta fase della crisi in atto dal 2007–2008 e ana­liz­zano cosa potrebbe fare (e non fa) la Bce per uscirne.
Entrambi sot­to­li­neano che l’eurozona si trova nella situa­zione di trap­pola della liqui­dità (abbon­danza di offerta di moneta e bassi tassi d’interesse che, tut­ta­via, non sti­mo­lano l’attività dei mer­cati per­ché la domanda e le aspet­ta­tive su di essa sono basse) che, giova ricor­darlo, è una con­di­zione illu­strata da Key­nes per evi­den­ziare i imiti non solo della poli­tica mone­ta­ria, ma prima ancora dei mer­cati che non rie­scono ad atti­vare la produzione.
Dun­que ci sarebbe biso­gno di poli­ti­che fiscali espan­sive, ma nell’Ue ciò è osta­co­lato sia dall’assenza di una poli­tica fiscale comune sia dalle pre­clu­sioni alle poli­ti­che di bilan­cio nazio­nali deri­vanti dai vin­coli comu­ni­tari restrit­tivi (fiscal com­pact). Entrambi sot­to­li­neano che aver creato la Bce in assenza di un inter­lo­cu­tore sta­tale comu­ni­ta­rio e averle affi­dato solo l’obiettivo di lotta all’inflazione e non anche alla disoc­cu­pa­zione, mette la Bce stessa, ma soprat­tutto l’economia dell’eurozona, in gravi dif­fi­coltà rispetto al rilan­cio della cre­scita. Entrambi si dichia­rano pro­pensi a rimuo­vere un capo­saldo della posi­zione domi­nante costi­tuito dal divieto ai governi di con­tare sul finan­zia­mento mone­ta­rio della spesa pubblica.
Per supe­rare que­sti osta­coli, Mascian­daro pro­pone che la Bce acqui­sti titoli di stato e che lo stesso tetto del 2% all’inflazione sia innal­zato (tem­po­ra­nea­mente). Tut­ta­via, rite­nendo la poli­tica euro­pea ancora inca­pace a gestire una poli­tica fiscale comune (e i suoi effetti redi­stri­bu­tivi), la Bce dovrebbe acqui­stare titoli emessi solo da stati non euro­pei (non solo americani).
In que­sto modo si avrebbe un aumento dell’offerta di euro con effetti posi­tivi anche in ter­mini di deprez­za­mento del suo tasso di cam­bio, ma – su que­sto Mascian­daro sor­vola – la nuova moneta creata dalla Bce andrebbe a finan­ziare solo il debito pub­blico di altri paesi. Zin­ga­les fa una pro­po­sta ancora più “spre­giu­di­cata” rispetto ai fon­da­menti del main­stream cui appar­tiene e dei Trat­tati euro­pei. Ma per non appa­rire uno “sper­giuro”, si “appog­gia” ad un para­dosso di Mil­ton Fried­man secondo cui per scon­fig­gere la defla­zione basta che la banca cen­trale “lasci cadere il denaro da un eli­cot­tero”. Un’ipotesi molto più ete­ro­dossa del sot­ter­rare denaro e finan­ziare chi scava e riem­pie le buche fatta da Key­nes! Tranne che, men­tre quello di Fried­man è un para­dosso rispetto alla sua impo­sta­zione ana­li­tica che pre­scrive la “regola aurea” che esclude poli­ti­che mone­ta­rie (e non solo) espan­sive per­ché i mer­cati sanno cre­scere da soli, per Key­nes, nor­mal­mente, i mer­cati non hanno que­sta capa­cità e la poli­tica eco­no­mica deve rego­lar­mente inter­ve­nire per evi­tare disoc­cu­pa­zione e crisi. Ma Zin­ga­les sor­vola su que­sto par­ti­co­lare e, comun­que sia, pro­pone che la Bce finanzi la spesa pub­blica dei paesi euro­pei ogni qual volta l’inflazione scenda sotto ‘1%; il che signi­fica che avrebbe già dovuto farlo da un pezzo.
Que­sti scon­fi­na­menti nell’eterodossia e i sem­pre più fre­quenti richiami di tutti i com­men­ta­tori di for­ma­zione eco­no­mica main stream alla neces­sità di “poli­ti­che non con­ven­zio­nali” con­fer­mano le ana­lisi cri­ti­che ina­scol­tate rivolte da decenni al modello neo­li­be­ri­sta che pre­scrive la non intro­mis­sione delle isti­tu­zioni pub­bli­che nell’attività dei mer­cati. Ven­gono anche con­va­li­date le spe­ci­fi­che cri­ti­che a come è stata costruita l’Unione euro­pea cioè con un ele­vato defi­cit isti­tu­zio­nale e demo­cra­tico ovvero con una forte carenza della neces­sa­ria inte­ra­zione delle deci­sioni col­let­tive rispetto a quelle indi­vi­duali prese nei mer­cati. La sem­pre più rico­no­sciuta neces­sità di soste­nere una domanda con­si­stente e sta­bile anche per con­sumi — pre­giu­di­cata invece dalle accre­sciute dise­gua­glianze distri­bu­tive e dalla pre­ca­rietà dei red­diti da lavoro (la trap­pola della liqui­dità dipende pure da que­sto) — richiama gli effetti con­tro­pro­du­centi di aver pro­gres­si­va­mente sca­ri­cato nei pas­sati decenni la mag­giore incer­tezza gene­rata dai mer­cati glo­ba­liz­zati sui lavoratori.
In que­sto con­te­sto di pro­gres­sivo rav­ve­di­mento (magari incon­sa­pe­vole) impo­sto dalla realtà della crisi rispetto all’impostazione delle poli­ti­che seguite in Europa spic­cano, da un lato, la per­du­rante capar­bietà dei respon­sa­bili della poli­tica comu­ni­ta­ria e, d’altro lato, la sua con­di­vi­sione da parte di chi più dura­mente ne sop­porta le con­se­guenze. Il governo Renzi (“rispet­te­remo il 3%”) come primo inter­vento ha aumen­tato la fles­si­bi­lità (pre­ca­rietà) del lavoro, ha elar­gito i famosi 80 euro (solo ad alcuni fasce di lavo­ra­tori, esclu­dendo però anche quelle più biso­gnose) che non hanno aumen­tato la domanda di chi li ha rice­vuti ma, per finan­ziarli, ha ridotto altri canali della spesa pub­blica e adesso spinge addi­rit­tura a pre­lievi sulle pen­sioni, e non su quelle pri­vate che sono incen­ti­vate fiscal­mente, ma solo su quelle pub­bli­che, che già sosten­gono il bilan­cio pub­blico con un saldo attivo di 24000 miliardi tra le entrate con­tri­bu­tive e le pre­sta­zioni pre­vi­den­ziali). Esat­ta­mente il con­tra­rio di “equità e sviluppo”.

venerdì 8 agosto 2014

PHOTOS: Gaza's half-million internally displaced

Photos by: Basel Yazouri and Anne Paq/Activestills.org
Text by: Ryan Rodrick Beiler

Palestinians recover belongings from the Khuza'a neighborhood following bombardment by Israeli forces, Gaza Strip, August 3, 2014. (Anne Paq/Activestills.org)
Palestinians recover belongings from the Khuza’a neighborhood following bombardment by Israeli forces, Gaza Strip, August 3, 2014. (Anne Paq/Activestills.org)
The most commonly cited statistic from Gaza is the death toll, now rising past 1,814, according to UN figures. Such numbers can be numbing, as absorbing the reality of so many faces and names is impossible. Yet another staggering figure that is difficult to comprehend is the number of people displaced from their homes, which the UN estimates at 520,000.
Gaza’s half-million displaced residents are one of the most obvious refutations of the the accusation that Hamas uses “human shields.” The Guardian has reported “large numbers of people fleeing different neighborhoods… and no evidence that Hamas had compelled them to stay.” Similarly, The Independent writes that, “Some Gazans have admitted that they were afraid of criticizing Hamas, but none have said they had been forced by the organization to stay in places of danger and become unwilling human shields.”
For its part, the Israeli military has attempted to absolve itself from accusations of war crimes through elaborate measures to warn people living in areas under imminent threat of attack, often in border areas, by dropping leaflets, sending automated voice messages, texts, or in the case of more targeted strikes, even personal phone calls or the so-called “knock-on-roof” unarmed warning missile.
Michael Sfard, writing in Haaretz points out that this military doctrine:
….does not take into consideration the question of whether the prior warning given the population is effective – i.e., whether the population can in fact leave, whether solutions have been found for the elderly, the ill and the children. Nor is it accompanied by the creation of a safe corridor through which people can flee to someplace that won’t be fired on, and where civilians have what they need to survive. The terrifying result of this combat doctrine, in both Cast Lead and Protective Edge, was piles of bodies of women, children and men who weren’t involved in the fighting.
Amnesty International puts it more concisely: “Deliberately attacking a civilian home is a war crime, and the overwhelming scale of destruction of civilian homes, in some cases with entire families inside them, points to a distressing pattern of repeated violations of the laws of war.”
But while the shocking criminality of these practices has contributed to 1,176 civilian deaths in Gaza to date, displaced survivors are now faced with the challenge of enduring further suffering after their homes and much of their worldly possessions have been destroyed. During brief lulls in the fighting, some have ventured back to their homes to retrieve belongings or search for bodies. Many continue to exist in UNRWA schools, which themselves have come under attack on numerous occasions, shattering what fragile sense of security those already displaced may have sought in such shelters.
All of which points to the most common-sense human response to Israel’s “warnings” – echoed by satirical news anchor Jon Stewart:
What are Gazans supposed to do? Evacuate to where? Have you f*cking seen Gaza? Israel blocked this border, Egypt blocked this border. What, are you supposed to swim for it?

Nahed Daoud, age 41, are staying in an UNRWA school for four days since his family evacuated after Israeli warnings that their neighbors would be bombed, July 16, 2014. Since fleeing, according to Nahed, the Israeli air force bombed their neighbor's house, badly damaging his house. (Basel Yazouri/Activestills.org)
Nahed Daoud, age 41, has been staying in an UNRWA school for four days since his family evacuated after Israeli warnings that their neighbors would be bombed, July 16, 2014. Since fleeing, according to Nahed, the Israeli air force bombed their neighbor’s house, badly damaging his house. (Basel Yazouri/Activestills.org)
Palestinians stand in front of the entrance of Remal Elementary UNRWA School which is used as a temporary shelter by Palestinians living in the Norther part of the Gaza Strip, Gaza City on July 13, 2014. (Anne Paq/Activestills.org)
Palestinians stand in front of the entrance of Remal Elementary UNRWA School, which is used as a temporary shelter by Palestinians living in the Norther part of the Gaza Strip, Gaza City on July 13, 2014. (Anne Paq/Activestills.org)
Displaced Palestinians in UNRWA school, at the first day of Eid, Gaza City, July 28, 2014. 83 UNRWA schools turned into shelters , as also many hospitals all over the strip. (Basel Yazouri/Activestills.org)
Displaced Palestinians in an UNRWA school, on the first day of Eid, Gaza City, July 28, 2014. 83 UNRWA schools turned into shelters, as were many hospitals, all over the Strip. (Basel Yazouri/Activestills.org)
Palestinians who flew from Israeli attacks take refuge in Falluja governmental school, Jabaliya refugee camp, July 29, 2014. Many Palestinians flew their homes a night before  after having recceived orders to evacuate. (Anne Paq/Activestills.org)
Palestinians who fled from Israeli attacks take refuge in Falluja governmental school, Jabaliya refugee camp, July 29, 2014. Many Palestinians fled their homes the previous night after having received orders to evacuate. (Anne Paq/Activestills.org)
Displaced Palestinians in the first day of Eid, Gaza, July 28, 2014. 83 UNRWA schools turned into shelters, as also many hospitals all over the strip. (Basel Yazouri/Activestills.org)
Displaced Palestinians on the first day of Eid, Gaza, July 28, 2014. 83 UNRWA schools turned into shelters, as did many hospitals, all over the Strip. (Basel Yazouri/Activestills.org)
A Palestinian family from Abasan sit under a tree next to Khan Yunis hospital. The family stayed for 10 days under this tree, after they had to flee from their home due to the Israeli attack. Gaza Strip, July 24, 2014. At least 200,000 Palestinians have been displaced. (Basel Yazouri/Activestills.org)
A Palestinian family from Abasan sits under a tree next to Khan Younis hospital. The family stayed under the tree for 10 days after they had to flee their home due to the Israeli attack. Gaza Strip, July 24, 2014. (Basel Yazouri/Activestills.org)
Palestinian women retrieve what belongings they can carry from their homes in Beit Hanoun, North Gaza, August 4, 2014. They had returned to their homes to quickly salvage what they could during a short ceasefire. Most Beit Hanoun residents had fled the heavily bombed areas and have been staying in UNRWA schools or with relatives. (Anne Paq/Activestills.org)
Palestinian women retrieve what belongings they can carry from their homes in Beit Hanoun, North Gaza, August 4, 2014. They had returned to their homes to quickly salvage what they could during a short ceasefire. Most Beit Hanoun residents fled the heavily bombed areas and have been staying in UNRWA schools or with relatives. (Anne Paq/Activestills.org)
Palestinians collect their belongings in Shujaiyeh, a neighborhood in the east of Gaza City, during a ceasefire, July 27, 2014. During the ceasefire on 26 July, many Palestinians went back to Shujaiyeh to inspect the damages together with medics who attempted to rescue injured or collect bodies. Dozens of bodies were collected but many remain as Palestinians do not have all the necessary equipment to dig. Israeli attacks turned the neighborhood into a scene of utter devastation, with entire buildings flattened and thousands forced to flee. (Basel Yazouri/Activestills.org)
Palestinians collect their belongings in Shujaiyeh, a neighborhood in the east of Gaza City, during a ceasefire, July 27, 2014. During the ceasefire on July 26, many Palestinians went back to Shujaiyeh to inspect the damages together with medics who attempted to rescue the injured or collect bodies. Dozens of bodies were collected but many remain as Palestinians do not have all the necessary equipment to dig. Israeli attacks turned the neighborhood into a scene of utter devastation, with entire buildings flattened and thousands forced to flee. (Basel Yazouri/Activestills.org)
Palestinians collect water in Shati' Refugee Camp, Gaza City, August 2, 2014. according to OCHA, 1.5 million People not in shelters have no or extremely restricted access to water in Gaza. (Basel Yazouri/Activestills.org)
Palestinians collect water in Shati’ Refugee Camp, Gaza City, August 2, 2014. According to OCHA, 1.5 million people not taking refuge in shelters have no or extremely restricted access to water in Gaza. (Anne Paq/Activestills.org)
Palestinians salvage some of their belongings and take them out of the village of Khuza'a, east of Khan Younis August 1, 2014. Hundreds of residents returned to Khuza'a at the beginning of a ceasefire to recover bodies and salvage possessions. Khuza'a has been cut off from the rest of Gaza Strip and occupied by Israeli soldiers. A large number of residents have been killed and injured, and many homes were destroyed. Most residents fled the Israeli attacks.  (Anne Paq/Activestills.org)
Palestinians salvage some of their belongings from the village of Khuza’a, east of Khan Younis August 1, 2014. Hundreds of residents returned to Khuza’a at the beginning of a ceasefire to recover bodies and salvage possessions. Khuza’a has been cut off from the rest of the Gaza Strip and occupied by Israeli soldiers. A large number of residents have been killed and injured, and many homes were destroyed. Most residents fled the Israeli attacks. (Basel Yazouri/Activestills.org)
Displaced Palestinians in the first day of Eid, in a classroom of UNRWA school that had become a shelter, Gaza, July 28, 2014. (Basel Yazouri/Activestills.org)
Displaced Palestinians on the first day of Eid, in a classroom of an UNRWA school that had become a shelter, Gaza, July 28, 2014. (Basel Yazouri/Activestills.org)
The family of Amal Al-Athamna, from Beit Hanoun, stays in a store near Kamal Edwan Hospital, Jabalyia, Gaza Strip, July 24. Beit Hanoun has been heavily bombed since the beginning of the Israeli assault and many people left the area. (Anne Paq/Activestills.org)
The family of Amal Al-Athamna, from Beit Hanoun, stays in a store near Kamal Edwan Hospital, Jabalyia, Gaza Strip, July 24. Beit Hanoun has been heavily bombed since the beginning of the Israeli assault and many people left the area. (Anne Paq/Activestills.org)
Displaced Palestinians find refuge in Jabaliya school, Jabaliya refugee camp, Gaza Strip, July 28, 2014. (Anne Paq/Activestills.org)
Displaced Palestinians find refuge in Jabaliya school, Jabaliya refugee camp, Gaza Strip, July 28, 2014. (Anne Paq/Activestills.org)
Palestinians look over Khuza'a neighborhood following bombardment by Israeli forces, Gaza Strip, August 3, 2014. Khuza'a came under heavy shelling on Monday night, July 21st. Israeli army ordered all the inhabitants of the village, nearly 10,000 people to leave. Khuza'a remined a closed military zone, and only International Committe of the Red Cross managed to secure a few brief incusions into the village to evacuate some of the injured, killed and the civilians. Most residents flew the village but some stayed behind. (Basel Yazouri/Activestills.org)
Palestinians look over Khuza’a neighborhood following bombardment by Israeli forces, Gaza Strip, August 3, 2014. Khuza’a came under heavy shelling on Monday night, July 21. The Israeli army ordered all the inhabitants of the village, nearly 10,000 people to leave. Khuza’a remained a closed military zone, and only the International Committee of the Red Cross managed to secure a few brief entries into the village to evacuate some of the injured, killed and other civilians. Most residents fled the village but some stayed behind.
(Basel Yazouri/Activestills.org)
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mercoledì 6 agosto 2014

Tutta colpa di Hamas

             
Tutta colpa di Hamas
È così facile essere un israeliano: la tua coscienza è pura come la neve, perché tutto è colpa di Hamas. I razzi sono colpa di Hamas. Hamas ha cominciato la guerra, senza alcuna motivazione. Hamas è un’organizzazione terrorista. I suoi esponenti non sono altro che bestie, nati per uccidere, fondamentalisti.
Circa 400mila palestinesi hanno dovuto lasciare le loro case. Più di 1.200 sono stati uccisi. L’80 per cento erano civili. La metà erano donne e bambini. Circa 50 famiglie sono state spazzate via. Le loro case sono state distrutte con loro dentro. La tragedia ha raggiunto le dimensioni di un massacro, ma Israele ha le mani e la coscienza pulite. È tutta colpa di Hamas.
Lasciamo l’analisi di questa negazione della realtà agli psicologi. Non si vedeva una simile rimozione da quando Israele accusava i palestinesi di uccidere i loro bambini per mezzo dell’esercito israeliano. La malattia ha incubato per anni e ora si è trasformata in un’epidemia. La coscienza nazionale non ha mosso un muscolo davanti a queste atrocità, e ci sono forze che stanno lavorando per mantenere la situazione com’è.
Nonostante la nube maligna della negazione, pur comprendendo quanto sia facile incolpare Hamas (Israele non ha mai avuto un nemico così conveniente) dobbiamo chiederci se davvero è tutta colpa loro e se Israele è davvero innocente. La verità è che davanti alle immagini di Gaza, insanguinata e distrutta per mano israeliana, questa tesi è del tutto inconcepibile.
Hamas è una spietata organizzazione terrorista? Com’è possibile che in questa guerra sia più colpevole dell’esercito israeliano? Soltanto perché non “bussa sul tetto” 80 secondi prima di distruggere una casa? Perché punta i suoi razzi contro i civili? Lo fa anche Israele, ma in modo molto più efficace. Perché vuole distruggere Israele? Quanti israeliani vogliono distruggere Gaza? In questo momento sappiamo tutti chi sta distruggendo chi.
L’ipocrisia di Israele raggiunge il vertice nell’ostentata preoccupazione per i civili di Gaza: guardate come li tratta Hamas, urlano i democratici israeliani, così attenti ai diritti dei palestinesi. Hamas ha un atteggiamento tirannico, ma la sua tirannia non è nulla in confronto a quella di Israele, che ha imposto alla Striscia di Gaza un assedio di 7 anni e un’occupazione che dura da 47 anni.
L’assedio è la prima causa della distruzione della società e dell’economia di Gaza, e tante grazie a chi sostiene di volerla salvare, a chi si preoccupa della sua mancanza di democrazia, a chi si stupisce per la corruzione, a chi denuncia il fatto che i leader palestinesi vivono in hotel di lusso o in bunker nascosti, a chi si indigna per i soldi spesi per i tunnel e i razzi anziché per i parchi gioco e le attività ricreative. Grazie, grazie tante.
Ma che dite di Israele? I suoi leader vivono per caso nelle tende? Non è vero che il governo spende cifre enormi per inutili sottomarini ed esplosivi segreti invece che nella sanità, nell’istruzione e nello stato sociale? Hamas è fondamentalista? Israele sta per diventarlo. Hamas opprime le donne? È sbagliato, ma accade anche in Israele, quantomeno all’interno di una grossa comunità.
Ma perché gli abitant di Gaza hanno eletto Hamas e non dei leader più moderati? Semplicemente perché i moderati hanno provato per anni a ottenere risultati, qualsiasi risultato, e da Israele hanno ricevuto in cambio soltanto umiliazioni e rifiuto. Israele ha mai dato ai palestinesi un motivo per scegliere la diplomazia dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) invece della violenza di Hamas? L’Olp li ha forse avvicinati di un millimetro all’indipendenza e alla libertà?
Hamas, per lo meno, ha ottenuto la liberazione di mille prigionieri e ha mantenuto un po’ di dignità, seppure al prezzo altissimo che gli abitanti di Gaza sono ora disposti a pagare. Cosa ha ottenuto per il suo popolo il presidente palestinese Abu Mazen? Niente. Una foto con Obama.
Personalmente non sono un ammiratore di Hamas, al contrario. Ma il tentativo di Israele di dare tutta la colpa a Hamas è inaccettabile. Presto la comunità internazionale giudicherà le atrocità di questa guerra. Hamas sarà criticata, giustamente, ma Israele sarà condannato e ostracizzato molto di più. E gli israeliani diranno: “È colpa di Hamas”. E il mondo intero riderà.
Fonte: www.internazionale.it

domenica 3 agosto 2014

La guerra sta arrivando

- fonte -

Segnaliamo un articolo di un commentatore atipico. Trattasi di Paul Craig Roberts, economista, già assistente del Segretario di Stato al Tesoro sotto l'amministrazione Reagan, editorialista del Wall Street Journal e Business Week. Negli ultimi anni ha assunto una posizione critica verso l'esteblishment americano.
La propaganda straordinaria condotta contro la Russia dai governi statunitense e britannico e dai Ministeri della Propaganda, noti come “media occidentali”, ha lo scopo di portare il mondo ad una guerra che nessuno potrà vincere.
I governi europei devono scuotersi dalla noncuranza, perché l’Europa sarà la prima ad essere vaporizzata a causa delle basi missilistiche statunitensi che ospita per garantire la sua “sicurezza”.
Come riportato da Tyler Durden di Zero Hedge, la risposta russa alla sentenza extragiudiziale di un corrotto tribunale olandese, che non aveva alcuna giurisdizione sul caso che ha arbitrato, sentenza che ordina al governo russo di pagare 50 miliardi di dollari agli azionisti della Yukos (un’entità corrotta che stava saccheggiando la Russia ed evadendo le tasse), è molto significativa. Quando gli è stato chiesto come la Russia si comporterà riguardo la sentenza, un consigliere del presidente Putin ha risposto: “C’è una guerra che sta arrivando in Europa. Crede davvero che questa sentenza abbia importanza?”
L’Occidente si è coalizzato contro la Russia perché è totalmente corrotto. La ricchezza delle elite è ottenuta non solo depredando i paesi più deboli i cui leader possono essere comprati (per istruirvi su come funziona il saccheggio leggete “Confessions of an Economic Hit Man” di John Perkins*), ma anche derubando i loro stessi cittadini. Le elite americane eccellono nel saccheggio dei loro connazionali e hanno spazzato via gran parte della classe media statunitense nel nuovo 21° secolo.
Al contrario, la Russia è emersa dalla tirannia e da un governo basato sulle menzogne, mentre gli USA e il Regno Unito sono sommersi da una tirannia schermata da menzogne. Le elite occidentali vorrebbero depredare la Russia, un premio succulento, e Putin sbarra loro la strada. La soluzione è sbarazzarsi di lui, come in Ucraina si sono sbarazzati del presidente Yanukovich.
Le elite predatorie e gli egemonisti neoconservatori hanno lo stesso obiettivo: fare della Russia uno stato vassallo. Questo obiettivo unisce gli imperialisti finanziari occidentali con gli imperialisti politici.
Ho raccolto per i lettori la propaganda che viene usata per demonizzare Putin e la Russia. Ma perfino io sono rimasto scioccato dalle strabilianti e aggressive bugie del giornale britannico The Economist del 26 luglio. In copertina c’è il viso di Putin in una ragnatela, e, avete indovinato, il titolo di copertina è “Una rete di bugie” (http://www.economist.com/news/leaders/21608645-vladimir-putins-epic-deceits-have-grave-consequences-his-people-and-outside-world-web?spc=scode&spv=xm&ah=9d7f7ab945510a56fa6d37c30b6f1709 )
Dovete leggere questa propaganda per constatare sia il livello di spazzatura della propaganda occidentale, sia l’evidente spinta verso la guerra. Non viene presentata la minima prova per supportare le accuse estreme dell’Economist e la sua richiesta che l’Occidente smetta di essere conciliante con la Russia e intraprenda le azioni più dure possibili contro Putin.
Questo genere di menzogne incoscienti e di lampante propaganda non ha altro scopo che di condurre il mondo alla guerra. Le elite occidentali e i governi non sono solo totalmente corrotti, sono anche pazzi. Come ho scritto precedentemente, non aspettatevi di vivere ancora a lungo. In questo video, uno dei consiglieri di Putin e alcuni giornalisti russi parlano apertamente dei piani statunitensi per attaccare la Russia: http://financearmageddon.blogspot.co.uk/2014/07/official-warning-u-s-to-hit-russia-with.html
* Confessioni di un sicario dell'economia http://www.minimumfax.com/libri/scheda_libro/469

La protesta delle addette alle pulizie del ministero greco: non ci piegheremo!

    
La protesta delle addette alle pulizie del ministero greco: non ci piegheremo!

Pubblicato il 31 lug 2014

Siamo 595 donne addette alle pulizie dipendenti del Ministero delle Finanze e dal 17 settembre 2013 siamo disoccupate. Il governo ci ha licenziato e ha deciso di affidare il nostro lavoro in appalto a imprese private, senza il minimo vantaggio economico per lo Stato. Il nostro salario era compreso tra i 300 e i 600 euro al mese. Noi non siamo numeri, siamo persone.
Non abbiamo abbassato la testa. Dopo il 17 settembre siamo state in strada ogni giorno, lottando per il nostro posto di lavoro e per le nostre vite.
Il governo ha cercato in tutti i modi di reprimere la nostra giusta lotta. Le immagini che mostrano le forze speciali di polizia (i Mat) picchiare donne indifese di 50-60 anni hanno fatto il giro del mondo. Molte di noi sono state ricoverate in ospedale per le conseguenze delle barbare e ingiustificabili aggressioni della polizia nei nostri confronti.
Abbiamo scelto di difendere la nostra dignità. Dieci mesi di lotte, dieci mesi di povertà e difficoltà! Ma continuiamo a lottare. Continuiamo la nostra battaglia. Rivendichiamo l’ovvio, il diritto alla vita. Un’onda di solidarietà si sta diffondendo nella società. Lavoratori e lavoratrici, licenziati/e, disoccupati/e, studenti, pensionati/e, artisti/e ci hanno manifestato il loro sostegno in ogni modo.
La Giustizia greca ci ha dato ragione, e ciò nonstante il governo rifiuta di rispettare e applicare le sue decisioni. Si vendica contro di noi perché abbiamo scelto di vivere in dignità.
La solidarietà è l’arma dei popoli. Chiediamo a tutti/e voi di esprimere la vostra solidarietà alla lotta per la vita e la dignità che stiamo conducendo. Vi chiediamo di sottoscrivere il testo di sostegno e di aiutarci nella raccolta delle firme per forzare il governo greco ad applicare la sentenza del tribunale – che non comporta alcun costo per il bilancio dello Stato.
TUTTI E TUTTE INSIEME POSSIAMO FERMARE QUESTE POLITICHE BARBARE.

sabato 2 agosto 2014

I nuovi miserabili

di Christian Raimo
01/08/2014
La fine è sempre la fine/L'uguaglianza non è più un valore condiviso e sembra sempre più una reliquia culturale del Novecento. Con i quattro speciali estivi, in edicola ogni venerdì con il manifesto, proviamo attraverso la letteratura ad attraversare questa terra moralmente desolata
L'uguaglianza non è più un valore condiviso. Ogni giorno mi capita sotto gli occhi un editoriale che mi racconta un mondo più disuguale. Oggi in uno di Saskia Sassen leggevo: «La logica di inclusione caratterizzata da sforzi coordinati di portare i poveri e i marginalizzati dentro il mainstream economico e politico negli ultimi vent'anni si sta sgretolando». Qualche giorno fa leggevo un pezzo di Richard Sennett che diceva: «La diseguaglianza è diventata il tallone d'Achille dell'economia moderna, ed essa si manifesta in molteplici forme: nella sottrazione delle risorse alle nuove generazioni, nella insufficiente condivisione delle opportunità godute dalla maggioranza, nella nascita di nuove e pericolose forme di esclusione materiale e sociale, nell'allargamento delle differenze reddituali e nella stagnazione dei redditi del ceto medio».
L'uguaglianza insomma sembra un po' una reliquia culturale del Novecento, una favola edificante che racconteremo ai nostri nipoti per ricordargli il tempo che fu, una specie di oggetto d'antan che uno trova nelle case arredate con il gusto anticato, un samovar arruginito con cui non si può più nemmeno versare il tè. Ma questo processo d'invecchiamento, questa marginalizzazione dell'uguaglianza non è avvenuto, come è naturale, in un lampo. Ci sono stati fattori che hanno contribuito alla sua obsolescenza, e ci sono tanti miti che in questi anni l'hanno voluta descrivere come un personaggio di un èra remota: la meritocrazia, la competitività, la realizzazione di sé, la customizzazione.
Abbiamo tutti ascoltato, prima irritati e poi arresi e indifferenti, queste storie. Nel frattempo hanno chiuso i battenti le palestre di uguaglianza. Le famiglie, le scuole, le università, le fabbriche, gli uffici hanno rinnovato il loro modello educativo. Oggi in ognuno di questi posti, si impara che si è diversi, diversissimi, speciali, che non c'è nessuno uguale a noi: figli unici coccolati, figli di separati trattati meglio o peggio di quegli altri figli dello stesso padre o della stessa madre, studenti di scuole che si gonfiano della retorica dell'autonomia, lavoratori contrattualizzati con una delle decine di formule diverse che si sono inventate in questi anni. Nel bene e nel male, non c'è possibilità di un noi. E così anche i partiti e i sindacati e persino i movimenti religiosi o le parrocchie addirittura sono diventati talmente secondari nella costruzione di valori che anche qui la rivendicazione di un'uguaglianza a venire è una specie di formula ormai solo rituale.
Insomma per tutti questi motivi, con la redazione di Sbilanciamoci, abbiamo deciso di dedicare una serie di numeri estivi a questa assenza, e abbiamo pensato di farlo attraverso la letteratura e attraverso scrittori giovani, anche giovanissimi. Sta a loro in realtà provare a rendere conto non solo di un paesaggio guastato da un precariato lavorativo endemico o da una crisi economica e sociale che non è contingente ma chiaramente strutturale, ma anche di relazioni e di psiche che stanno mutando, geneticamente verrebbe da dire, verso un cinismo raggelato, un senso di inutilità, uno spaesamento, una condizione di resa, che fa assomigliare i personaggi che ci circondano o le facce che vediamo allo specchio, a dei nuovi miserabili.
Ma se la letteratura è ancora capace di darci una possibilità di immedesimarci nell'altro, ecco che ripartire da questi racconti per attraversare questa terra moralmente desolata può essere almeno un modo per non sentirci meno soli e per pensare che proprio in questo, in quanto lettore, ognuno di noi è un mon semblable, un mon frère.

domenica 20 luglio 2014

CHE COS’E’ IL LAVORO NELLA SOCIETA’ DOMINATA DAL CAPITALISMO FINANZIARIO ?


 

di GUIDO VIALE, 15 luglio 2014

CONTRIBUTO DI GUIDO VIALE AL GRUPPO DI LAVORO SUL “LAVORO”

Verso l’assemblea del 19 luglio

 Che cos’è il lavoro nella società dominata dal capitalismo finanziario? Dobbiamo riconoscere che il predominio ormai assoluto della finanza ha cambiato profondamente i tratti fondamentali del capitalismo stesso e con essi quelli del lavoro. Il lavoro tende sempre di più ad essere assimilato a un’impresa, unico soggetto che ha cittadinanza legittima nel mondo d’oggi: un’impresa, ovviamente, individuale.

In base ai principi e alla prassi del pensiero unico e del liberismo imperante, lavoratori e imprese sono soggetti che trattano tra loro alla pari; i primi non hanno bisogno di tutele – sempre e comunque distorsive del mercato – più di quanto ne abbiano bisogno le seconde. Inoltre, nei rapporti tra lavoratori assimilati a imprese individuali deve vigere la piena concorrenza: ogni lavoratore, o potenziale lavoratore, deve considerarsi in competizione con tutti gli altri per accaparrarsi un posto di lavoro – o un lavoro – o per realizzare un progresso di carriera a spese dei suoi colleghi o compagni; o per difenderlo a spese degli altri se sono in vista dei licenziamenti o dei ridimensionamenti produttivi. Questa competizione di tutti contro tutti è il rovesciamento integrale del principio di solidarietà su cui è stata costruita l’intera storia del movimento operaio. Di qui l’obiettivo di abolire la contrattazione generale e, se possibile, anche quella aziendale, per sostituirla con una contrattazione individuale: da impresa a “impresa”.

L’ideologia con cui si giustifica questo rovesciamento è quella del merito: chi progredisce, o anche semplicemente non arretra, lo fa perché è più meritevole degli altri; chi resta o precipita in fondo è responsabile della propria condizione. I favoritismi, in questa concezione, sono solo una riprovevole eccezione a questa regola universale. Ma chi giudica del merito? La gerarchia preesistente: il capo, il manager, il padrone, la banca, il partito, l’amministrazione, ecc. Una gerarchia che non può per definizione essere stata costruita in base al merito: la gerarchia non può che precedere sempre il giudizio sul merito.

Per questo l’ideologia del merito è in realtà un meccanismo di promozione del servilismo e dell’accondiscendenza: va avanti, o non resta indietro, chi si conforma maggiormente alle pretese della gerarchia: la competizione universale di tutti contro tutti, trasferita dall’impresa al mondo del lavoro, è la promozione universale del servilismo e della rinuncia alla propria dignità. Per questo la parola d’ordine “Indignatevi” e la rivendicazione della propria dignità sono le premesse esistenziali e culturali di ogni processo di riscatto.

La trasformazione del lavoro in impresa e del lavoratore in imprenditore di se stesso non riguarda solo l’universo sempre più ampio del lavoro precario, delle partite Iva, vere o false che siano, delle collaborazioni, dei contratti a termine, ma investe lo stesso lavoro dipendente a tempo indeterminato (quando ancora c’è), dove ogni lavoratore viene messo in competizione con gli altri all’interno della stessa impresa e valutato in base al “capitale umano” di cui è detentore.

Ma gran parte di quel “capitale” non è individuale; è il frutto della cooperazione; e si dissolve irrevocabilmente quando le maestranze si disperdono, come sta accadendo in tutte le imprese che chiudono, delocalizzano, licenziano o sospendono la produzione per periodi prolungati.

Questi processi di competizione e di precarizzazione investono ovviamente anche il mondo delle imprese: scompaiono i grandi agglomerati produttivi, che erano grandi concentrazioni di lavoro e di lavoratori, sostituiti da una rete mobile, aleatoria e sempre più delocalizzata di fornitori e subfornitori che dipendono da un unico centro di comando multinazionale, sempre più finanziarizzato. Quei fornitori e subfornitori possono essere sostituiti in ogni momento. Il lavoratore viene così esposto a una duplice precarietà: quella relativa ai suoi rapporti con l’azienda che lo occupa o che ne è il committente, e quella relativa al rapporto dell’azienda con la supply-chain, la catena di subfornitura, in cui è inserita. Se l’impresa perde commesse o quote di mercato, la responsabilità ricade sui suoi lavoratori che non sono stati abbastanza competitivo non meno che sull’imprenditore o sul manager che la governano.

Questo nuovo contesto operativo crea una gigantesca dispersione del lavoro tra ruoli, imprese, catene di subfornitura e soprattutto territori, paesi e continenti diversi. Il che rende pressoché impossibile la sua ricomposizione di fronte a una controparte comune, che sfugge sempre di più alla possibilità di aprire un conflitto nei suoi confronti. L’indebolimento del lavoro rispetto al capitale e allo Stato, e la stessa crisi di adesioni che le organizzazioni sindacali attraversano in tutto il mondo, sono una delle principali conseguenze di questo processo.

Una ricomposizione politica, e prima ancora sociale e culturale, ma anche esistenziale – in termini di “identità” – del lavoro non può quindi svilupparsi che a livello territoriale (senza per questo trascurare nessuna altra strada, comprese quelle già battute del sindacalismo conflittuale). Ma è sul territorio che si possono ricomporre i rapporti diretti tra lavoratori appartenenti a filiere produttive differenti o non direttamente intrecciate, tra lavoratori più o meno stabili e lavoratori precari, tra chi lavora e chi è disoccupato, tra chi è nativo e chi è immigrato, tra i loro familiari, ecc.

Un sindacato che si limita alla difesa dei lavoratori sul posto di lavoro, anche se lo fa in forma rigorosa – e non è questo che succede nella maggioranza dei casi – è strategicamente perdente. Anche il tentativo di mettere insieme lavoratori stabili e precari su basi esclusivamente sindacali è destinato all’insuccesso. I tentativi della Fiom in questa direzione si avvantaggiano del fatto che sotto la sua tutela convive sia quasi tutto ciò che resta della grande e media impresa industriale, sia quei grandi serbatoi di precariato che sono i call-center, inclusi, non si sa perché, nel settore metalmeccanico. Ma questo non è bastato per unire in un solo fronte di lotta lavoratori “fordisti” e precari “postfordisti”.

Per questo la Fiom fin dalla manifestazione del 16 ottobre del 2011 ha cercato di farsi anche “soggetto sociale” tra altri soggetti sociali e promotrice di una loro aggregazione. Purtroppo questa indicazione strategica ha avuto un percorso molto accidentato e controverso a livello nazionale (l’accusa rivolta alla Fiom è naturalmente quella di voler “farsi partito”), ma anche pochissimi tentativi di traduzione a livello locale: cioè territoriale, là dove si gioca veramente la partita.

Riterritorializzare il conflitto ma soprattutto il progetto di difesa del lavoro e di promozione di un diverso indirizzo economico e produttivo richiede il coinvolgimento di tutti i soggetti potenzialmente antagonisti al sistema di potere vigente presenti sul territorio: oltre ai sindacati, le associazioni di cittadinanza, il volontariato, il personale delle università e dei centri di ricerca messi ai margini, il mondo della scuola e della cultura, le comunità etniche e religiose, la piccola imprenditoria; ma, soprattutto, il governo locale. Un coinvolgimento su un progetto concreto, definito innanzitutto – ma non, ovviamente, in modo esclusivo – su basi territoriali, a partire dalle risorse naturali, umane e tecnologiche presenti sul territorio, che mettano al centro del programma la compatibilità e la sostenibilità ambientale.

Tutto ciò, per cominciare, a partire dalla rivendicazioni di interventi drastici nei confronti della aziende che chiudono, si ridimensionano o delocalizzano. Non è più possibile continuare ad affidare le loro sorti al governo, che interviene con un “tavolo”, per lo più fittizio, impegnato a trovare per ciascuna azienda una nuova proprietà (un nuovo “padrone”) e un nuovo “piano industriale”, anch’esso per lo più fittizio.

Questi piani di riconversione, compresi gli obiettivi di mercato, devono essere elaborati, per lo meno nelle loro linee generali, dalle forze presenti sul territorio e diventare oggetto di vertenze specifiche che le coinvolgano nella loro interezza, mettendo in campo tutte le competenze tecniche, scientifiche e sociali disponibili – e sono molte – presenti sul territorio, o anche altrove, senza escludere la requisizione degli impianti, o il loro esproprio, se si rendono necessari.

Non è un progetto di autogestione della fabbriche abbandonate da parte delle loro maestranze: con poche eccezioni quelle maestranze non hanno né la forza né la capacità di farsi carico di un progetto così ambizioso, anche quando sanno che l’alternativa è la disoccupazione. Occorre che a farsene carico sia la comunità di riferimento nel suo insieme – grande o piccola che sia – attraverso processi di partecipazione diretta al governo – o al co-governo – del territorio e della sua base produttiva.

La riconversione ecologica è questa: sostenibilità ambientale delle produzioni, perché sono le uniche che hanno un futuro in un mondo che sconterà in misura crescente e sempre più rapida il deterioramento ambientale e climatico. Ma anche, e soprattutto, riterritorializzazione delle produzioni e degli sbocchi di mercato – nei limiti, ovviamente della fattibilità – contro la corsa al sempre peggio indotto dalla competizione universale di tutti contro tutti e dalla sua globalizzazione. Ma anche partecipazione, cioè democrazia da basso integrata – e non contrapposta – agli istituti della democrazia rappresentativa.

Per questo la cosiddetta green economy esprime una visione parziale della riconversione; guarda ai prodotti e ai processi produttivi, ma non alle forme di comando e, soprattutto, non alla valorizzazione delle risorse naturali, umane e tecnologiche dei territori. E a volte sogna la trasformazione del territorio in un ambiente agropastorale e/o culturale (ma a scopo turistico), senza cogliere l’importanza di partire dal patrimonio produttivo che c’è e che rischia l’abbandono, aumentando la dipendenza da chi ancora produce e inquina in modo tradizionale in qualche altra parte del mondo.

C’è un nesso diretto tra le misure che il nostro raggruppamento propone per cambiare radicalmente l’Europa – condono e/o mutualizzazione del debito pubblico, riforma del sistema bancario, lotta al dominio della finanza, fine delle politiche di austerity – e i processi di riappropriazione del territorio e dei suoi beni comuni, a partire dai servizi pubblici locali e dal tessuto produttivo in crisi.

Questo nesso è la conversione ecologica: quei processi non sono possibili senza quelle misure; quelle misure non avrebbero alcuna efficacia se non vengono innescati anche quei processi; non si vincerà in Europa se quelle misure non verranno sostenute da lotte e iniziativa dal basso sempre più radicali nei territori; però questi conflitti devono avere anche l’effetto di attribuire peso crescente alla loro rappresentanza nelle istituzioni europee. E nel mondo.

mercoledì 16 luglio 2014

Grecia: paradiso venduto = paradiso perduto


elafonissos

fonte 

Possibile che il mare, la bellezza della natura e la storia che si respira in migliaia di siti archeologici sparsi lungo i 15 mila chilometri di coste ancora poco cementificate della Grecia possano diventare proprietà privata di pochi? Pare di sì! Negli scorsi mesi nell’arcipelago greco delle Ioniche, tutto il braccio nord-sud dell’isola di Meganisi è stato venduto a uno dei maggiori banchieri americani per costruire ville e villaggi. Skorpio è stata comprata per 100 anni da un russo come le isole a nord di Itaca e in questo caso “sul fondo” pare ci sia anche il petrolio. Lo sceicco Hamad bin Khalifa Al-Thani, dopo il recente acquisto dell’isolotto greco di Oxia, nel Mare Ionio, sta pensando di acquistare altre sette isole situate nell’arcipelago delle Echinadi, sempre nello Ionio. Ma non basta. La crisi non molla, la Troika preme e allora l’Ente ellenico per la valorizzazione delle proprietà dello Stato (Taiped) mette in vendita altre 110 spiagge e per renderle ancora più appetibili il Governo greco sta varando una legge che permetterà di costruire direttamente in vicinanza del mare quando non addirittura dentro il mare.
Un autentico furto di beni comuni alla luce del sole orchestrato dal Taiped, un ente creato dallo Stato greco (su consiglio della Troika) incaricato di “valorizzare” o meglio monetizzare i beni pubblici e gestire le vendite di spiagge, isole, siti archeologici e lotti di terreno in generale, nel quadro del maxi piano di privatizzazioni lanciato per rimborsare i 240 miliardi di euro di prestiti accordati dal 2011 al Paese, stremato dalle misure di austerità imposte dai creditori internazionali. Misure che hanno consentito al governo di centrodestra di Antonis Samaras di riprendere le redini delle finanze greche con il ritorno sui mercati internazionali dopo quattro anni di esilio grazie a un surplus di bilancio dello 0,8% del Pil. Ma a che costo? Questo: l’Argolida e in generale tutto il Peloponneso sono stati presi particolarmente di mira e tra gli ultimi paradisi messi in vendita ci sono finite adesso anche alcune delle più belle spiagge del Mediterraneo, come per esempio Aghios Prokopios sull’isola di Naxos e 175 acri delle spiagge gemelle di Sarakiniko e Simos sull’isola di Elafonisos (Isola dei cervi), venti chilometri quadrati situati a 300 metri dalla costa meridionale del Peloponneso e abitati da circa 1.500 persone.
Lo scorso anno, il quotidiano britannico The Guardian mise Elafonisos al primo posto in una lista delle 10 migliori isole con le più belle spiagge della Grecia, mentre la rivista tedesca Geo-Saison ha definito l’isola “un paradiso sulla terra” eppure le parole d’ordine dell’Ente greco pare siano chiare: “Bisogna vendere queste terre – ha detto un dipendente del Taiped a GreekReporter – dite alla Russia e al Qatar di fare in fretta!” perché “Siamo come una casalinga in bancarotta che è costretta a vendere il suo argento per salvare la propria famiglia” ha drammaticamente sintetizzato una sua collega. Ma i residenti e varie organizzazioni ambientaliste greche e internazionali protestano contro la vendita di una parte di questa bellissima isola sostenendo che l’area è sotto la protezione del programma europeo Natura 2000 a causa delle numerose specie vegetali endemiche esistenti sulle spiagge dell’isola e in tutta Elafonisos. Abitanti ed ecologisti ritengono inoltre che lo sfruttamento turistico incontrollato dell’isola non violerebbe soltanto ecosistema e tradizioni, ma finirebbe per danneggiare la stessa economia locale. “Fino ad oggi, infatti, abitazioni, attività e piccole strutture ricettive si concentravano nell’area del porto, lasciando intatto il fascino vergine dell’Isola, ma se si moltiplicassero residenze private e grandi hotel su queste spiagge che abbiamo voluto mantenere selvagge – ha spiegato il sindaco di Elafonisos Panagiotis Psaromatis in una lettera inviata al presidente del Taiped e al ministro delle Finanze greco, Yiannis Stournaras – i visitatori sarebbero i primi a fuggire […]. Per questo continueremo a proteggere, con tutti i mezzi a nostra disposizione, il nostro unico e fragile ambiente naturale”.
A sostegno della comunità locale di Elafonissos lo scorso 24 giugno è avvenuta anche la prima occupazione pacifica e simbolica dell’isola. A dire no alla vendita delle isole e delle spiagge esponendo un grande striscione con la scritta: This Island Is Ours è stata Mediterranea un ketch armato a cutter di 60 piedi con il suo equipaggio capitanato da Simone Perotti (l’autore tra gli altri di Adesso Basta e Uffico di Scollocamento) salpati lo scorso 17 maggio da S. Benedetto del Tronto per dare vita ad un progetto nautico, culturale, scientifico, di relazione tra i popoli del Mediterraneo lungo 5 anni. Con questa azione dimostrativa Progetto Mediterranea intende sostenere la campagna “Protect the Greek coastline” per il boicottaggio delle spiagge a pagamento e per la tutela del mare come bene comune e ha deciso di ospitare sul suo sito anche la petizione on line di Maria Peteinaki, architetto, co-portavoce del partito dei verdi ecologisti in Grecia, fondatrice di Alternative Tours Athens, animatrice del Falafel Networ, promotrice del movimento degli orti urbani e in questo momento impegnata nel far conoscere la battaglia delle comunità greche nella difesa del proprio patrimonio naturale e culturale.
Nella lista del Taiped, infatti, oltre alle spiagge da sogno ci sono anche siti archeologici di rilevante valore, come il castello di Akronafplia, situato nella parte più storica e panoramica della città di Nafplio. Si tratta di una grossa area archeologica nelle cui antiche mura si possono riconoscere le varie epoche della storia a partire dalle ciclopiche costruzioni micenee, per passare al medioevo e all’intervento che rimane tutt’ora il più visibile, quello che durante l’occupazione veneziana trasformo questo vecchio insediamento in una fortezza. Tutt’attorno spiagge destinate ad essere vendute per far spazio a costruzioni turistiche private che, organizzate in enormi aree con al loro interno tutto ciò che può interessare ad un turista, rischiano di mettere definitivamente in ginocchio l’economia locale, perché tutti i soldi verranno raccolti in un unica tasca, quella dell’investitore (quasi sicuramente straniero) che godrà di un trattamento fiscale privilegiato, come prevede già una recente legge del governo Samaras.
L’impressione è che, se non sarà fermata, la svendita del patrimonio naturale e culturale della Grecia possa alla lunga portare ad un’ulteriore perdita di lavoro e di diritti sindacali, realtà fondamentali che si possono riconquistare e ricostruire solo se anche i beni comuni dei greci non saranno privatizzati e persi per sempre. Così in un Paese che ha forgiato il proprio destino sulla cultura e dove il libero accesso al mare è un diritto sancito dalla Costituzione si riaccende il dibattito sulle contraddizioni di un modello di sviluppo e di “salvataggio” economico che non tiene conto di vincoli ambientali e culturali e aggiunge tensione a un quadro sociale già esasperato.
unimondo.org

GRECIA: PROVE TECNICHE DI SCHIAVITU’? LA TROIKA HA CHIESTO AL GOVERNO DI VIETARE IL DIRITTO ALLO SCIOPERO


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Sempre più tesa la situazione in Grecia dove questa mattina i rappresentanti della troika (Ue, Bce e Fmi) hanno in programma stamani un incontro con il ministro del Lavoro greco Yannis Vroutsis per sollecitare al governo ellenico di realizzare delle riforme a cominciare dalla modifica della legislazione in materia di sindacati e dei requisiti per la proclamazione e l’attuazione di uno sciopero.
Come riporta l’Ansa, citando dei quotidiani locali, l’argomento è oggetto di una controversia in quanto sia le opposizioni che lo stesso partito socialista Pasok che forma la coalizione di governo hanno contestato fortemente la possibilità di apportare modifiche in questi settori.
Secondo la Commissione UE, il governo greco deve garantire il diritto al lavoro, la promozione di relazioni costruttive tra i partners ed evitare interruzioni non necessarie al funzionamento delle imprese, pur assicurando che i sindacati agiscano in conformità con le normative internazionali.
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Il “regime di totalitarismo di tipo obliquo” imposto ad Atene secondo Panagiotis Grigoriou
Nel suo intervento per la Conferenza “Un’Europa senza euro” tenutosi a Roma sabato 12 aprile e organizzato da A-simmetrie, l’antropologo greco Panagiotis Grigoriou descrive la situazione sociale drammatica in corso in Grecia utilizzando il paragone che si ha in tempo di guerra, dove esiste un prima e dopo guerra.
Nella Grecia di oggi la padronanza del tempo è stata distrutta, tanto che i cittadini non possono prenotare più un viaggio o un prepensionamento. Tutto quello che accade è stato già deciso altrove e Atene deve solo adempiere.
I dati sono drammatici e noti ricorda Panagiotis: il Pil ha perso un quarto del suo valore e, con il 30% di disoccupazione - 65% quella giovanile – si tratta di una vera e propria guerra: la troika dal maggio del 2010 per mezzo del “sistema politico per satelliti” ha concentrato il suo potere e occupato tutti gli aspetti della vita quotidiana del paese, anche quelli più futili. In Grecia si parla ormai di regime del Memorandum: partita come entità intangibile, la troika è riuscita a imporre un “programma di deterioramento che ha creato un modello antropologico d’attuazione di un uomo nuovo”. Un uomo nato dalla modifica della vita quotidiana per il dimezzamento degli stipendi, se sono ancora pagati, i pignoramenti e sequestri - la “spoliazione dei beni simile a quelli durante la guerra” – l’abolizione dei contratti di lavoro collettivi e, infine, un sistema sanitario al collasso. Tutto questo è avvenuto simultaneamente e i rapporti umani sono divenuti antropofagici.
In Grecia, prosegue Panagiotis, si ha una “nuova socializzazione causata dalla crisi”, un nuovo modo di sopravvivere che è come una sconfitta, come ad esempio un ritorno a riscaldare la casa con la legna. Una sconfitta per cui la gente muore. Il numero dei suicidi è, infatti, enorme: ogni persona conosce nel suo gruppo di amici o nucleo familiare allargato delle persone che hanno deciso di togliersi la vita per la mancanza di visione del futuro. “Non sono solo numeri, cifre ma barriere endemiche di una società”. I rapporti tra vita e morte non sono più gli stessi dall’avvento della troika.
Ha senso una divisione tra destra e sinistra dopo un tale shock della società?, chiede Panagiotis. Il regime oggi in Grecia è chiaramente contro-costituzionale: la Costituzione non viene più considerata. Con due articoli, il Memorandum ha distrutto centinaia di pagine di legislazioni frutto di lotte sindacali e diritti sociali acquisiti. Il problema è che se i cittadini si occupano della loro sopravvivenza non sono interessati a questi cambiamenti politici e si consolida la “Vassalizzazione del paese” e la parte visibile dell’iceberg è la Germania.L’antropologo compie poi un bel parallelo della situazione attuale della Grecia con la “Colonizzazione degli Stati Uniti d’America”, dove gli europei non hanno trovato un ambiente selvaggio, ne hanno creato uno“. Ma il problema non è solo economico e non è solo in Grecia – Pangiotis dichiara di vedere a Roma quello che vedeva a Atene nel 2009 – dove è stato introdotto un “regime di totalitarismo di tipo obliquo”: si tratta di una novità che sta nascendo in Europa sotto impulso delle elite che stabiliscono un totalitarismo (neo Europa), un nuovo mondo frutto di un caos organizzato e una nuova visione del futuro sulla padronanza: “può durare anni, decenni ma in ogni caso credo sia difficile capire cosa accadrà”.Come cambiare lo stato attuale delle cose?, si domanda a conclusione del suo intervento. Devono cambiare le coscienze soprattutto nei paesi centrali dell’Ue – Francia, Germania e Italia – gli unici a poter imprimere un cambiamento. La visita blindata di Angela Merkel a Atene, come ogni volta che una personalità tedesca arriva in Grecia, dimostra come le relazioni tra i due paesi sono evoluti in qualcosa di diverso. Si tratta di una fase successiva della storia europea.

domenica 13 luglio 2014

Gaza, un gruppo di cooperanti: “Questa guerra è più importante dei Mondiali”

Fonte: redattoresociale.it                                  
 
“Basta con chi pensa che una partita di pallone sia più importante di un’intera popolazione inerme sotto le bombe. Basta far finta di non vedere”. Sono le parole di un gruppo di cooperanti italiani che operano a Gaza, che in una lettera aperta (non firmata anche per motivi di sicurezza) esprime le loro perplessità anche in merito a certe scelte mediatiche che, in tempi di Mondiali di calcio, tendono a mettere in secondo piano l’offensiva su Gaza. “Basta con chi dà del terrorista a un’intera popolazione senza mai aver voluto ascoltare le voci di Gaza – continua la lettera - Basta coi giornalisti che scrivono articoli comodamente seduti da casa o dalle redazioni a Roma e Milano. Basta con l’equidistanza a tutti i costi. Basta con le condanne bipartisan e con le parole misurate”. E’ la denuncia contenuta nella lettera aperta di un gruppo di cooperanti italiani che opera nella Striscia di Gaza, dove i bombardamenti hanno già provocato almeno 120 vittime.
“Non possiamo restare silenti dinanzi a un attacco armato indiscriminato verso una popolazione che non ha rifugi, posti sicuri o possibilità di fuga – continua la lettera - Una popolazione strangolata economicamente e assediata fisicamente, rinchiusa in una prigione a cielo aperto. Non possiamo far finta di nulla. Noi Gaza la conosciamo perché ci lavoriamo, perché la viviamo e lì abbiamo imparato cos’è la sofferenza, ma anche la resistenza. E non parliamo di lancio di razzi: per i circa due milioni di persone che risiedono a Gaza, che vivono da 48 anni sotto occupazione, dimenticate dal mondo, che piangono morti che sono sempre e solo numeri, che subiscono interessi politici sempre più importanti della vita umana... resistere è essere capaci, nonostante tutto, di andare avanti. Gaza ci ha insegnato semplicemente la dignità umana. Siamo qui e ci sentiamo inermi e, ancora una volta, esterrefatti perché continuiamo a leggere articoli di giornale che a nostro avviso non rispecchiano la realtà. Non raccontano lo squilibrio tra una forza occupante e una popolazione occupata. Enfatizzano la paura israeliana dei razzi lanciati da Gaza, che condanniamo ma che, fortunatamente, non hanno procurato morti e riducono a semplici numeri le oltre 100 vite spezzate a causa dei bombardamenti Israeliani in meno di tre giorni. Tutto ciò che scriviamo non è frutto di opinioni personali o giudizi morali; è sancito e ribadito dai principi del diritto internazionale e del diritto umanitario internazionale, che muovono il nostro operato ogni giorno".
“Riteniamo inaccettabile – prosegue la lettera - che la risposta all’omicidio dei tre coloni, avvenuto in circostanze ancora ignote, sia l’indiscriminata punizione di una popolazione civile indifesa: il diritto umanitario vieta le punizioni collettive - definite crimini di guerra dalla IV Convenzione di Ginevra (art. 33). Israele ha addossato la responsabilità ad Hamas, attaccando immediatamente la Striscia, causando la risposta dei gruppi palestinesi con il lancio di missili su Israele. Il governo israeliano sostiene di voler colpire gli esponenti di Hamas e le sue strutture militari. E’ davanti agli occhi di tutti che ad essere colpiti finora sono soprattutto bambini e donne. Basta con lo scrivere che Israele reagisce ai missili da Gaza, la verità per chi vuol vederla e i numeri, se non interpretati con slealtà, sono chiari. Dall’8 luglio, inizio dell’operazione militare “Protective Edge”, Israele ha bombardando 950 volte la Striscia, distruggendo deliberatamente oltre 120 case , (violando l’articolo 52 del Protocollo aggiuntivo I del 77 della convenzione di Ginevra), uccidendo 102 persone (inclusi 30 minori 16 donne,15 anziani e 1 giornalista) ferendo oltre 600 persone, di cui 50 in condizioni molto gravi. Oltre 900 persone sono rimaste senza casa, 7 moschee, 25 edifici pubblici, 25 cooperative agricole, 7 centri educativi sono stati distrutti e 1 ospedale, 3 ambulanze, 10 scuole e 6 centri sportivi danneggiati. Dall’altro lato, il lancio di razzi da Gaza, secondo il Magen David Adom (servizio emergenza nazionale israeliano), ha causato 123 feriti di cui: 1 ferito grave; 2 moderati; 19 leggeri; 101 persone che soffrono di shock traumatico. Di fronte a questi numeri ci sembra intollerabile la non obiettiva copertura di gran parte della stampa internazionale e nazionale , dell’attacco israeliano verso la Striscia di Gaza. Per questo riteniamo necessario prendere posizione e ribadire la necessità di riportare l’informazione, sullo scenario militare in corso, alle dovute proporzioni. “Ci appelliamo infine – si conclude la lettera - ai responsabili politici in causa e a quanti possano agire da mediatori, affinché le operazioni militari cessino immediatamente e perchè si ponga fine all’assedio nella Striscia di Gaza”.
Nel frattempo, sono sempre più costanti i rapporti tra le ong e il consolato italiano , che richiede cautela e ha invitato le associazioni a restare lontano dall’area. "Non sempre l'accesso alla Strisica è possibile, oltre al fatto che i continui bombardamenti su case e civili impediscono i movimenti interni e quindi, anche per chi rimane dentro, è impossibile coordinare le attività. Il rischio potrebbe essere che, proprio nel momento in cui c’è più bisogno, i civili di Gaza possano restare senza alcuni aiuti fondamentali, forniti anche attraverso la cooperazione italiana" - conclude la lettera -. Sono sette le associazioni italiane che operano sul territorio e coinvolgono una decina di cooperanti. Si tratta di Terre des Hommes Italia, Ciss, Acs EducaAid, Oxfam Italia, Gvc, Vento di Terra.

Altro che Troika!!


venerdì 11 luglio 2014

Patto Renzi-Berlusconi, il modello “super-premier” senza opposizione

Le riforme in 10 punti: dall'Italicum all'elezione del capo dello Stato, passando per informazione e immunità parlamentare; se il pacchetto istituzionale passerà diventa quasi certa la "svolta autoritaria" paventata dai giuristi di Libertà e Giustizia, senza più opposizione nè controlli
 
Renzi - Berlusconi
Unendo i puntini delle varie riforme vaganti tra governo e Parlamento, costituzionali e ordinarie, ma anche di certe prassi quotidiane passate sotto silenzio per trasformarsi subito in precedenti pericolosi, come le continue interferenze del Quirinale nell’autonomia del Parlamento, della magistratura e della stampa, viene fuori un disegno che inquieta. Una democrazia verticale, cioè ben poco democratica: sconosciuta, anzi opposta ai principi ispiratori della Costituzione, fondata invece su un assetto orizzontale in ossequio alla separazione e all’equilibrio dei poteri. Ce n’è abbastanza per dare ragione all’allarme inascoltato dei giuristi di Libertà e Giustizia sulla “svolta autoritaria”.
All’insaputa del popolo italiano, mai consultato sulla riscrittura della Costituzione, e fors’anche di molti parlamentari ignoranti o distratti, il combinato disposto di leggi, decreti e prassi – di per sé all’apparenza innocue – rischia di costruire un sistema illiberale e piduista fondato sullo strapotere del più forte e sul depotenziamento degli organi di controllo e garanzia. Il pericolo è una dittatura della maggioranza (“democratura”, direbbe Giovanni Sartori) a disposizione del primo “uomo solo al comando” che se ne impossessa, diventando intoccabile, incontrollabile, non contendibile, dunque invincibile. Vediamo come e perché. Nella speranza di suscitare un dibattito fra i lettori e nel Palazzo. Prima che sia troppo tardi.
1. CAMERA La legge elettorale Italicum made in Renzi, Boschi, Berlusconi e Verdini conferma le liste bloccate (incostituzionali) del Porcellum, con la sola differenza che saranno un po’ più corte. La sostanza è che i 630 deputati saranno ancora nominati dai segretari dei partiti maggiori. Quelli medio-piccoli invece resteranno fuori da Montecitorio grazie a soglie di sbarramento spropositate: 4,5% per quelli coalizzati, l’8% per quelli che corrono da soli e il 12% per le coalizioni. Per ottenere subito il premio di maggioranza, il primo partito (o coalizione) deve raccogliere almeno il 37% dei voti: nel qual caso gli spetta il 55% dei seggi, pari a 340 deputati. Se invece nessuno arriva al 37%, i primi due classificati si sfidano al ballottaggio e chi vince (con almeno il 51%, è ovvio) incassa 327 deputati. Cioè: chi ha meno voti (37% o più) ha più seggi e chi ha più voti (51% o più) ha meno seggi. Una follia. Ma non basta: prendiamo una coalizione con un partitone al 20% e cinque partitini al 4% ciascuno. Totale: 40%, con premio al primo turno. Siccome nessuno dei partitini alleati supera il 4,5%, il partito del 20% incamera il 55% dei seggi. E governa da solo, confiscando il potere legislativo, che di fatto coincide con l’esecutivo a colpi di decreti e fiducie.
2. SENATO Con la riforma costituzionale, il “Senato delle Autonomie” sarà formato da 100 senatori non eletti: 95 saranno scelti dai consigli regionali (74 tra i consiglieri e 21 tra i sindaci) e 5 dal Quirinale (più i senatori a vita). Sindaci e consiglieri scadranno ciascuno insieme alle rispettive giunte comunali e regionali, trasformando Palazzo Madama in un albergo a ore: andirivieni continuo e maggioranze affidate al caso, anzi al caos. Di norma anche il Senato sarà appannaggio della maggioranza di governo. E comunque non potrà più controllare l’esecutivo: i senatori non voteranno più la fiducia né saranno chiamati ad approvare, emendare, bocciare le leggi. Esprimeranno solo pareri non vincolanti, salvo per le norme costituzionali. E seguiteranno a eleggere con i deputati il capo dello Stato e i membri del Csm e della Consulta di nomina parlamentare.
3. OPPOSIZIONE Nell’unico ramo del Parlamento ancora dotato del potere legislativo, cioè la Camera, i dissensi interni ai partiti di governo potranno essere spenti con il metodo Mineo e Mauro: chi non garantisce il voto favorevole in commissione alle leggi volute dall’esecutivo sarà essere espulso e sostituito da un soldatino del premier. Quanto al dissenso esterno, i partiti di opposizione saranno in parte decimati dalle soglie dell’Italicum. Per i superstiti, la riforma costituzionale disarma le minoranze istituzionalizzando la “ghigliottina” calata dalla presidente Laura Boldrini contro il M5S che tentava di impedire la conversione in legge del decreto-regalo alle banche: corsia preferenziale per i ddl e i dl del governo, che andranno subito all’ordine del giorno per essere approvati entro due mesi, con sostanziale divieto di ostruzionismo e strozzatura degli emendamenti.
4. CAPO DELLO STATO Malgrado lo snaturamento del Senato, che finora contribuiva per 1/3 all’Assemblea dei mille grandi elettori (nel 2013 erano 319 senatori, 630 deputati e 58 delegati regionali) e in futuro sarà relegato al 10%, nessuna modifica è prevista per l’elezione del presidente della Repubblica. Quindi potrà sceglierselo il premier (anche se ha preso soltanto il 20% dei voti) dopo il terzo scrutinio, quando la maggioranza dei 2/3 scende al 51%. Forte del 55% dei deputati da lui nominati, gli basteranno 33 senatori per raggiungere la maggioranza semplice dell’Assemblea e mandare al Quirinale un suo fedelissimo. Il che trasforma il ruolo di “garanzia” del Presidente in una funzione gregaria del governo e della maggioranza: il capo del primo partito si sceglie il capo dello Stato che poi lo nomina capo del governo e firma i suoi ministri e poi le sue leggi e decreti. Inoltre, dopo il precedente “monarchico-presidenzialista” di Napolitano, a colpi di invasioni di campo, il nuovo inquilino del Quirinale potrà arrogarsi enormi poteri d’interferenza in tutti i campi, giustizia in primis.
5. CORTE COSTITUZIONALE Se tutto cambia nella selezione di deputati e senatori, nulla cambia nell’elezione dei giudici costituzionali. Chi va al governo con l’Italicum (anche col 20% dei voti) controllerà direttamente o indirettamente ben 10 dei 15 giudici costituzionali: i 5 nominati dal Parlamento e i 5 scelti dal capo dello Stato (gli altri 5 li designano le varie magistrature). Così, occupati i poteri esecutivo e legislativo, il premier espugna anche il supremo organo di garanzia costituzionale. E sarà molto difficile che la Consulta possa ancora bocciare le leggi incostituzionali, o dare torto al potere politico nei conflitti di attribuzione con gli altri poteri dello Stato.
6. CSM E MAGISTRATI Anche la norma del governo Renzi che anticipa la pensione dei magistrati dagli attuali 75 anni a 70 può diventare una lesione dell’indipendenza della magistratura. Il risultato infatti è la decapitazione degli uffici giudiziari, guidati perlopiù da magistrati ultrasettantenni. E i nuovi capi di procure, tribunali e Cassazione li nominerà il nuovo Csm, che sarà eletto nei prossimi giorni: per 2/3 (membri togati) dai magistrati e per 1/3 (membri laici). I laici, dopo l’accordo Renzi-Berlusconi, saranno tutti (tranne forse uno indicato dai 5Stelle) di osservanza governativa. Tra questi verrà poi scelto il vicepresidente, indicato dal premier, mentre il presidente sarà Napolitano e poi il suo successore, anch’egli di stretta obbedienza renziana. Così i nuovi vertici della magistratura li sceglierà il Csm più “governativo” degli ultimi 40 anni, previo “concerto” del ministro della Giustizia Orlando. Ad aumentare l’influenza politica c’è poi il progetto ideato da Violante e ventilato da Renzi di togliere al Csm i procedimenti disciplinari di secondo grado per far giudicare i magistrati da un’Alta Corte nominata per 1/3 dal Parlamento e per 1/3 dal Quirinale, cioè a maggioranza partitica.
7. PROCURATORI E PM Per normalizzare le procure della Repubblica non c’è neppure bisogno di una legge: basta la lettera di Napolitano al vicepresidente del Csm Vietti che ha modificato il voto del Csm sul caso Bruti Liberati-Robledo e ha imposto una lettura molto restrittiva dell’ordinamento giudiziario Mastella-Castelli del 2006-2007: il procuratore capo diventa il padre-padrone dell’azione penale e dei singoli pm, che vengono espropriati della garanzia costituzionale di autonomia e indipendenza “interna” (contro le interferenze e i soprusi dei capi). Secondo il Quirinale, “a differenza del giudice, le garanzie di indipendenza ‘interna’ del Pm riguardano l’Ufficio nel suo complesso e non il singolo magistrato” (e chissà mai chi può insidiare l’indipendenza “interna” di un’intera Procura). Così, nel silenzio del Csm e dell’Anm, il procuratore viene autorizzato addirittura a violare le regole organizzative da lui stesso stabilite, togliendo fascicoli scomodi gli aggiunti e ai sostituti, e avocandoli a sé senza dare spiegazioni. Per assoggettare procure e tribunali, basterà controllare un pugno di procuratori, senza più il bilanciamento del “potere diffuso” dei singoli pm.
8. IMMUNITÀ L’articolo 68, concepito dai padri costituenti per tutelare i parlamentari di minoranza da eventuali iniziative persecutorie di giudici troppo vicini al governo su reati politici, diventa sempre più uno strumento del governo per mettere i propri uomini al riparo dalla giustizia. L’immunità parlamentare, prevista in Costituzione per le Camere elettive, viene estesa a un Senato non elettivo, composto da sindaci e consiglieri regionali che per legge ne sono sprovvisti. Basterà che un consiglio regionale li nomini senatori, e nel tragitto dalla loro città a Roma verranno coperti dallo scudo impunitario, che impedirà a magistrati di arrestarli, intercettarli e perquisirli senza l’ok di Palazzo Madama. Il voto sulle autorizzazioni a procedere rimane sia alla Camera sia al Senato a maggioranza semplice (51%). Il che consentirà alle forze di governo (anche col 20% di elettori, ma col 55% di deputati) di salvare i propri fedelissimi a Montecitorio e di nascondere a Palazzo Madama i sindaci e i consiglieri regionali delinquenti. E poi, volendo, di mandare in galera gli esponenti dell’opposizione.
9. INFORMAZIONE Le due leggi che l’hanno assoggettata al potere politico nel Ventennio B. – la Gasparri sulle tv e la Frattini sul conflitto d’interessi – restano più che mai in vigore. E nessuno, neppure a parole, si propone di cancellarle. Così la televisione rimane quasi tutta proprietà dei partiti. Il governo domina la Rai (rapinata di 150 milioni, indebolita dall’evasione del canone, fiaccata dai pessimi rapporti fra Renzi e il dg Gubitosi, e in preda alla consueta corsa sul carro del vincitore). E Berlusconi controlla controlla Mediaset (anch’essa talmente in crisi da riservare al governo Renzi trattamenti di superfavore). Intanto i giornali restano in mano a editori impuri: imprenditori, finanzieri, banchieri, palazzinari (per non parlare di veri o finti partiti, con milioni di fondi pubblici), perlopiù titolari di aziende assistite e/o in crisi e dunque ricattabili dal governo, anche per la continua necessità di sostegni pubblici per stati di crisi e prepensionamenti. Governativi per vocazione o per conformismo o per necessità.
10. CITTADINI Espropriati del diritto di scegliersi i parlamentari, scippati della sovranità nazionale (delegata a misteriose e imperscrutabili autorità europee), i cittadini non ancora rassegnati a godersi lo spettacolo di una destra e di una sinistra sempre più simili e complici, che fingono di combattersi solo in campagna elettorale, possono rifugiarsi in movimenti anti-sistema ancora troppo acerbi per proporsi come alternativa di governo (come il M5S); o inabissarsi nel non-voto (che sfiora ormai il 50%). In teoria, la Costituzione prevede alcuni strumenti di democrazia diretta. Come i referendum abrogativi: che però, prevedibilmente, saranno sempre più spesso bocciati dalla Consulta normalizzata. E le leggi d’iniziativa popolare (peraltro quasi mai discusse dal Parlamento): ma i padri ricostituenti hanno pensato anche a queste, quintuplicando la soglia delle firme necessarie, da 50 a 250 mila. Casomai qualcuno s’illudesse ancora di vivere in una democrazia.

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