di Paolo Gerbaudo in Controlacrisi
«Sono convinto che la crisi riesploderà presto, perché le sue cause strutturali non sono state affrontate». Richard Sennett, professore emerito di sociologia alla London school of economics e celebre studioso del «nuovo capitalismo» e del lavoro flessibile non è ottimista. «I politici non hanno capito che il capitalismo finanziario è inerentemente distruttivo, e sembrano paralizzati» denuncia Sennett. A pagare le conseguenze dell'inerzia delle classi dirigenti sono i lavoratori, che vivono un ulteriore aggravamento della situazione di incertezza introdotta con la flessibilità. Secondo Sennett, di cui in Italia sono stati pubblicati tra gli altri «La cultura del nuovo capitalismo», «L'uomo flessibile e l'uomo artigiano», e che presto manderà alle stampe «Cooperation and coalition» (sull'evoluzione del rapporto tra stato, capitale e lavoro) per curare l'economia dagli effetti destabilizzanti del capitalismo finanziario bisogna puntare sul settore manifatturiero, tornando a produrre cose e a valorizzare il «saper fare» dei lavoratori.
Sono passati quasi due anni dall'inizio della crisi economica. Perché in Europa tanti paesi continuano a essere nell'occhio del ciclone dei mercati finanziari?
I governi europei hanno introdotto misure molto leggere per limitare il capitale finanziario, senza comprendere che questa è un'attività inerentemente distruttiva, che rovina compagnie, distrugge posti di lavoro e le vite di milioni di persone. Il capitalismo finanziario è come la peste nera: non si può semplicemente mettergli i freni. Anche se in Europa l'economia si trascinasse per tre o quattro anni, la crisi scoppierà nuovamente. E penso che la prossima volta l'Europa avrà ancora meno margini per riprendersi. Rischiamo di diventare quello che l'America Latina era durante gli anni '60: un continente con molte risorse ma assolutamente auto-distruttivo.
I lavoratori flessibili che descrivi nei suoi libri sono stati spesso i primi ad essere sacrificati dai licenziamenti. Siamo di fronte a una crisi strutturale del modello di lavoro flessibile?
Certamente i lavoratori flessibili, quelli che erano l'avanguardia del nuovo capitalismo, i lavoratori delle fabbriche hi-tech, delle industrie culturali e della finanza, hanno sofferto in maniera particolare le conseguenze della crisi. Ma ciò di cui siamo testimoni non è tanto un indebolimento quanto un'estremizzazione del regime di lavoro flessibile. Nella grande distribuzione, come nelle industrie culturali, è aumentata consistentemente l'area di lavoro part-time che è andata a sostituire posti di lavoro a tempo pieno. Sempre più si vedono persone che fanno tre o quattro lavori part-time, per ottenere il salario che avrebbero se fossero impiegate a tempo pieno, o giovani coppie in cui entrambi lavorano 20 ore a settimana e riescono a malapena a sopravvivere.
Le altre grandi vittime della crisi sono i giovani, ed in particolare i laureati, che sembrano condannati non tanto al lavoro flessibile quanto ad una disoccupazione stabile.
Purtroppo stiamo entrando in un decennio perduto per i giovani. Per capire questo fenomeno è interessante guardare al Giappone, che durante gli anni '90 ha avuto una prefigurazione di quello che sarebbe successo 15 anni più tardi in occidente, con la finanza che collassa, e persone qualificate che non trovano lavoro per sei o otto anni: persone che hanno perso un decennio della loro vita. La generazione che è venuta dopo ha visto come era la situazione, ed in molti hanno scelto di andare alle scuole tecniche piuttosto che all'università. Una volta in Giappone tutti cercavano di entrare nelle università prestigiose. Gli adolescenti giapponesi ora sono molto più realistici. Ed è quello che succederà da noi. L'Università di Venezia non avrà più migliaia di studenti di architettura. La nuova generazione è fregata dal sistema e dovrà inventarsi nuovi modi per sopravvivere.
Col capitalismo finanziario in crisi, i sentimenti dei lavoratori sembrano essere riassunti bene da una vignetta dell'ultimo numero dell'Economist: una folla incoraggia la locomotiva del capitalismo che sbuffa in salita.
Il sistema è riuscito a convincere i lavoratori che col capitalismo flessibile c'è più mobilità sociale. Ma i dati statistici dipingono una situazione opposta. Negli anni '50 e '60, che vengono identificati con un capitalismo sclerotico e burocratico, i tassi di mobilità verso l'alto per la classe operaia e la classe media erano decisamente più alti di quelli degli anni '90. E la ragione è strutturale. In un regime di capitalismo finanziario si spremono le classi medie. Saskia Sassen è tornata dalla Cina la scorsa settimana e mi ha detto che ciò che è veramente interessante nella situazione laggiù è che i Cinesi vogliono diventare classe media, ma ciò che vedono è che la promessa di mobilità non viene realizzata dal sistema, ed è per questo che ci sono tante proteste al momento tra i lavoratori.
Nonostante la situazione di sofferenza dei lavoratori, i sindacati non sembrano capaci di organizzare una risposta collettiva all'altezza della situazione. Perché?
La mancanza di risposte collettive alla crisi è dovuta alla situazione di estrema incertezza in cui si sono lasciati i lavoratori negli ultimi anni. Adesso i sindacati si chiedono ma com'è che non possiamo mobilitare queste persone? Ma la risposta è chiarissima. Questi lavoratori non possono permettersi di scioperare. Perché se scioperano, non avranno alcuna protezione. Sono in una condizione altamente insicura in cui non possono alzare la testa.
Ma anche i partiti di sinistra sembrano incapaci di avanzare alternative al modello del capitalismo finanziario. Come mai?
A sinistra abbiamo avuto 50 anni in cui abbiamo cercato di dimostrare che noi non siamo come quei crudeli stalinisti, che siamo gente raffinata, che siamo amici del business, che vogliamo essere parte del mondo moderno. Sono stati cinquant'anni rivolti al passato. Di fronte a un sistema distruttivo la sinistra non ha niente da dire ai lavoratori. Recentemente ho partecipato a un incontro sindacale prima delle elezioni, e mi hanno chiesto: tu cosa faresti? Io ho risposto che se fosse per me, nazionalizzerei l'intero sistema bancario. Penso che bisognerebbe trattare il sistema finanziario nello stesso modo in cui si tratta la salute. Una cosa che richiede il controllo dello stato. E ho visto questi membri del sindacato, e ripeto membri del sindacato, che mi dicevano: non si possono dire queste cose! Abbiamo bisogno di dare una risposta molto più radicale a quello che sta succedendo. Dobbiamo abbandonare le pretese di social-democrazia. Si continua a voler dare ai lavoratori un paio di protezioni in più, o due spiccioli in più invece che modificare veramente il sistema economico. Dobbiamo tornare a parlare di socialismo altrimenti la gente non ci capisce.
Come uscire dalla crisi? In Gran Bretagna si è fatto un gran parlare di un ritorno al settore manifatturiero come antidoto alla crisi del sistema finanziario. Questa è del resto la soluzione che lei suggerisce nel libro, «L'uomo artigiano».
Qui in Gran Bretagna ne hanno parlato per gli ultimi due anni, ma non hanno mai creato alcun programma per incoraggiare i giovani a diventare artigiani. Era un'idea interessante ma non se n'è fatto niente. Io credo che il settore manifatturiero offra una via di uscita. E non si tratta solo di una fiducia romantica nell'uomo artigiano. È la storia del successo economico della Cina o del Giappone. Si tratta di tornare a produrre cose, produrre cose di cui altre persone hanno bisogno. E in questo senso in Italia voi avete un sistema produttivo ad alta tecnologia che può trovare una via di uscita da questa situazione. Del resto un ritorno all'artigianato e alla manifattura è una cosa che desiderano molti lavoratori, come gli impiegati di Wall Street che ho seguito negli ultimi due anni. Non ne vogliono sapere di tornare a lavorare 12 ore al giorno, sette giorni a settimana. Adesso vogliono fare gli agricoltori biologici.
«Sono convinto che la crisi riesploderà presto, perché le sue cause strutturali non sono state affrontate». Richard Sennett, professore emerito di sociologia alla London school of economics e celebre studioso del «nuovo capitalismo» e del lavoro flessibile non è ottimista. «I politici non hanno capito che il capitalismo finanziario è inerentemente distruttivo, e sembrano paralizzati» denuncia Sennett. A pagare le conseguenze dell'inerzia delle classi dirigenti sono i lavoratori, che vivono un ulteriore aggravamento della situazione di incertezza introdotta con la flessibilità. Secondo Sennett, di cui in Italia sono stati pubblicati tra gli altri «La cultura del nuovo capitalismo», «L'uomo flessibile e l'uomo artigiano», e che presto manderà alle stampe «Cooperation and coalition» (sull'evoluzione del rapporto tra stato, capitale e lavoro) per curare l'economia dagli effetti destabilizzanti del capitalismo finanziario bisogna puntare sul settore manifatturiero, tornando a produrre cose e a valorizzare il «saper fare» dei lavoratori.
Sono passati quasi due anni dall'inizio della crisi economica. Perché in Europa tanti paesi continuano a essere nell'occhio del ciclone dei mercati finanziari?
I governi europei hanno introdotto misure molto leggere per limitare il capitale finanziario, senza comprendere che questa è un'attività inerentemente distruttiva, che rovina compagnie, distrugge posti di lavoro e le vite di milioni di persone. Il capitalismo finanziario è come la peste nera: non si può semplicemente mettergli i freni. Anche se in Europa l'economia si trascinasse per tre o quattro anni, la crisi scoppierà nuovamente. E penso che la prossima volta l'Europa avrà ancora meno margini per riprendersi. Rischiamo di diventare quello che l'America Latina era durante gli anni '60: un continente con molte risorse ma assolutamente auto-distruttivo.
I lavoratori flessibili che descrivi nei suoi libri sono stati spesso i primi ad essere sacrificati dai licenziamenti. Siamo di fronte a una crisi strutturale del modello di lavoro flessibile?
Certamente i lavoratori flessibili, quelli che erano l'avanguardia del nuovo capitalismo, i lavoratori delle fabbriche hi-tech, delle industrie culturali e della finanza, hanno sofferto in maniera particolare le conseguenze della crisi. Ma ciò di cui siamo testimoni non è tanto un indebolimento quanto un'estremizzazione del regime di lavoro flessibile. Nella grande distribuzione, come nelle industrie culturali, è aumentata consistentemente l'area di lavoro part-time che è andata a sostituire posti di lavoro a tempo pieno. Sempre più si vedono persone che fanno tre o quattro lavori part-time, per ottenere il salario che avrebbero se fossero impiegate a tempo pieno, o giovani coppie in cui entrambi lavorano 20 ore a settimana e riescono a malapena a sopravvivere.
Le altre grandi vittime della crisi sono i giovani, ed in particolare i laureati, che sembrano condannati non tanto al lavoro flessibile quanto ad una disoccupazione stabile.
Purtroppo stiamo entrando in un decennio perduto per i giovani. Per capire questo fenomeno è interessante guardare al Giappone, che durante gli anni '90 ha avuto una prefigurazione di quello che sarebbe successo 15 anni più tardi in occidente, con la finanza che collassa, e persone qualificate che non trovano lavoro per sei o otto anni: persone che hanno perso un decennio della loro vita. La generazione che è venuta dopo ha visto come era la situazione, ed in molti hanno scelto di andare alle scuole tecniche piuttosto che all'università. Una volta in Giappone tutti cercavano di entrare nelle università prestigiose. Gli adolescenti giapponesi ora sono molto più realistici. Ed è quello che succederà da noi. L'Università di Venezia non avrà più migliaia di studenti di architettura. La nuova generazione è fregata dal sistema e dovrà inventarsi nuovi modi per sopravvivere.
Col capitalismo finanziario in crisi, i sentimenti dei lavoratori sembrano essere riassunti bene da una vignetta dell'ultimo numero dell'Economist: una folla incoraggia la locomotiva del capitalismo che sbuffa in salita.
Il sistema è riuscito a convincere i lavoratori che col capitalismo flessibile c'è più mobilità sociale. Ma i dati statistici dipingono una situazione opposta. Negli anni '50 e '60, che vengono identificati con un capitalismo sclerotico e burocratico, i tassi di mobilità verso l'alto per la classe operaia e la classe media erano decisamente più alti di quelli degli anni '90. E la ragione è strutturale. In un regime di capitalismo finanziario si spremono le classi medie. Saskia Sassen è tornata dalla Cina la scorsa settimana e mi ha detto che ciò che è veramente interessante nella situazione laggiù è che i Cinesi vogliono diventare classe media, ma ciò che vedono è che la promessa di mobilità non viene realizzata dal sistema, ed è per questo che ci sono tante proteste al momento tra i lavoratori.
Nonostante la situazione di sofferenza dei lavoratori, i sindacati non sembrano capaci di organizzare una risposta collettiva all'altezza della situazione. Perché?
La mancanza di risposte collettive alla crisi è dovuta alla situazione di estrema incertezza in cui si sono lasciati i lavoratori negli ultimi anni. Adesso i sindacati si chiedono ma com'è che non possiamo mobilitare queste persone? Ma la risposta è chiarissima. Questi lavoratori non possono permettersi di scioperare. Perché se scioperano, non avranno alcuna protezione. Sono in una condizione altamente insicura in cui non possono alzare la testa.
Ma anche i partiti di sinistra sembrano incapaci di avanzare alternative al modello del capitalismo finanziario. Come mai?
A sinistra abbiamo avuto 50 anni in cui abbiamo cercato di dimostrare che noi non siamo come quei crudeli stalinisti, che siamo gente raffinata, che siamo amici del business, che vogliamo essere parte del mondo moderno. Sono stati cinquant'anni rivolti al passato. Di fronte a un sistema distruttivo la sinistra non ha niente da dire ai lavoratori. Recentemente ho partecipato a un incontro sindacale prima delle elezioni, e mi hanno chiesto: tu cosa faresti? Io ho risposto che se fosse per me, nazionalizzerei l'intero sistema bancario. Penso che bisognerebbe trattare il sistema finanziario nello stesso modo in cui si tratta la salute. Una cosa che richiede il controllo dello stato. E ho visto questi membri del sindacato, e ripeto membri del sindacato, che mi dicevano: non si possono dire queste cose! Abbiamo bisogno di dare una risposta molto più radicale a quello che sta succedendo. Dobbiamo abbandonare le pretese di social-democrazia. Si continua a voler dare ai lavoratori un paio di protezioni in più, o due spiccioli in più invece che modificare veramente il sistema economico. Dobbiamo tornare a parlare di socialismo altrimenti la gente non ci capisce.
Come uscire dalla crisi? In Gran Bretagna si è fatto un gran parlare di un ritorno al settore manifatturiero come antidoto alla crisi del sistema finanziario. Questa è del resto la soluzione che lei suggerisce nel libro, «L'uomo artigiano».
Qui in Gran Bretagna ne hanno parlato per gli ultimi due anni, ma non hanno mai creato alcun programma per incoraggiare i giovani a diventare artigiani. Era un'idea interessante ma non se n'è fatto niente. Io credo che il settore manifatturiero offra una via di uscita. E non si tratta solo di una fiducia romantica nell'uomo artigiano. È la storia del successo economico della Cina o del Giappone. Si tratta di tornare a produrre cose, produrre cose di cui altre persone hanno bisogno. E in questo senso in Italia voi avete un sistema produttivo ad alta tecnologia che può trovare una via di uscita da questa situazione. Del resto un ritorno all'artigianato e alla manifattura è una cosa che desiderano molti lavoratori, come gli impiegati di Wall Street che ho seguito negli ultimi due anni. Non ne vogliono sapere di tornare a lavorare 12 ore al giorno, sette giorni a settimana. Adesso vogliono fare gli agricoltori biologici.
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