15/09/2010 Fonte: Liberazione 15 settembre 2010
In Umbria in questi giorni abbiamo presentato un disegno di legge che non è una proposta neutrale. Al contrario, si basa su una presa di posizione ben precisa, propria del nostro partito, che fa chiarezza su un punto fondamentale: i miliardi di euro che ogni anno vengono erogati in varie modalità alle imprese dalle istituzioni pubbliche devono servire a garantire gli interessi della collettività, non quelli del capitale.
Il ragionamento infatti è semplice, talmente semplice che ogni onesto lavoratore ne fa esperienza quotidianamente. In una società civile riceviamo beni e servizi perché contribuiamo con il nostro lavoro e le nostre tasse ad assicurare la presenza delle istituzioni pubbliche, il cui ruolo è appunto quello di garantire un livello di vita dignitoso a tutta la popolazione. In Italia ad essere esenti da questo vincolo di reciprocità sono proprio le imprese; evidentemente queste "persone giuridiche" devono alla loro astrattezza il godimento di privilegi inaccessibili alle persone vere, quelle cioè che percepiscono stipendi da fame, che si ammalano, che vengono licenziate, che troppo spesso non tornano più a casa dal posto di lavoro.Stabilire per legge, come abbiamo proposto, che le imprese debbano restituire i contributi pubblici ottenuti nel caso in cui decidano di spostare altrove le loro attività, non ha dunque nulla di rivoluzionario.
Tuttavia nell'Italia di Berlusconi e Marchionne, dove è in atto la distruzione del contratto nazionale come strumento generale di definizione delle relazioni sociali e di regolazione dei livelli salariali, anche questa legge rappresenta, se vogliamo, una piccola rivoluzione.
I processi di delocalizzazione sono l'amara conseguenza di una favola che è stata propinata agli italiani per almeno vent'anni, ovvero che il libero mercato e la flessibilizzazione delle norme regolanti i tempi ed i modi della produzione potesse automaticamente portare ricchezza ed occupazione. Questa favola oggi si rivela per quel dramma che in realtà è sempre stata; concorrenza selvaggia e deterritorializzata fra differenti ed enormi aggregati economici privati; livellamento delle condizioni generali di lavoro su modelli produttivi "asiatici", dove vige l'azzeramento dei diritti e l'erogazione di salari di sussistenza; crescita della conflittualità globale e della militarizzazione delle "zone calde" del mondo.
Il primato che il governo e la confindustria, con la complicità del sindacalismo moderato, vogliono dare alla contrattazione locale risponde a questa logica fallimentare; si confina ogni discussione sulla mera dimensione quantitativa e monetaria del sistema considerato - grande o piccolo che sia - per rendere le produzioni più concorrenziali nello scenario globale. Alla globalizzazione delle relazioni produttive e finanziarie corrisponde dunque il massimo grado d'isolamento delle forze del lavoro, in uno schema che ricalca in modo drammatico il modo di produzione medievale, dove l'orizzonte del lavoratore terminava dove finiva il campo o la bottega, mentre le merci - allora solo quelle pregiate, adesso tutte - giravano il mondo.
Anche in Umbria sono molti i casi di imprese che cessano l'attività produttiva nonostante siano in attivo e nelle condizioni di proseguire la produzione. I casi della Merloni e della Basell sono emblematici. In primo luogo denotano lo strapotere e l'arbitrio delle imprese; basti pensare che la Basell, azienda del polo chimico di Terni, nel 2009 ha registrato oltre 9 milioni di euro di attivo e subito dopo ha annunciato la volontà di sospendere le produzioni; segno che la decisione di chiudere risponde solo a logiche di ristrutturazione finanziaria. In secondo luogo questi casi evidenziano la colpevole debolezza del governo, che invece di svolgere il proprio ruolo intende abrogare l'articolo 42 della Costituzione, che definisce appunto le prerogative dello Stato rispetto all'impresa privata.È necessario, a tutti i livelli, contrastare le delocalizzazioni e le dismissioni delle produzioni, che rappresentano ad oggi il maggiore fattore di ricattabilità per i lavoratori; in questo senso la proposta di legge che abbiamo presentato apre una prospettiva interessante, consentendo la definizione di accordi "pubblico-privato" finalizzati a riconoscere incentivi economici a quelle realtà che, dal momento dell'erogazione dei contributi, si impegnano a mantenere i livelli occupazionali, a stabilizzare i rapporti di lavoro entro 2 anni e a non delocalizzare per almeno 25 anni.Il diritto del mondo del lavoro a non essere privato della ricchezza che produce è l'origine storica e teorica della nostra azione; ora più che mai c'è bisogno di ribadirlo.
Confidiamo nel fatto che da oggi possa prendere avvio un percorso largo e partecipato a sostegno della nostra proposta, come già è avvenuto nel nostro partito e più in generale nel campo della sinistra d'alternativa. Il coraggio di chi lavora può trovare risposta solo in una politica coraggiosa, capace di reagire al ricatto padronale scegliendo di difendere i diritti e la democrazia. Questione democratica e questione sociale che, oggi più che mai, devono rappresentare due direzioni inscindibili di lotta politica e ricostruzione sociale.
*Capogruppo regionale Prc-FdS Umbria
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