“OCCORRE UN ARGINE CONTRO LE SPECULAZIONI
FINANZIARIE E LE DELOCALIZZAZIONI INDUSTRIALI”
La “repressione rivoluzionaria” di Marchionne - comprimario del grande risiko capitalistico in atto - gli errori storici dei “comunisti liberoscambisti”, il pericolo di nuovi attacchi speculativi e la necessità di riunire le forze sociali intorno a una proposta di politica economica alternativa. Intervista a Emiliano Brancaccio, ricercatore e docente di
Economia politica presso l’Università del Sannio, a Benevento.
FINANZIARIE E LE DELOCALIZZAZIONI INDUSTRIALI”
La “repressione rivoluzionaria” di Marchionne - comprimario del grande risiko capitalistico in atto - gli errori storici dei “comunisti liberoscambisti”, il pericolo di nuovi attacchi speculativi e la necessità di riunire le forze sociali intorno a una proposta di politica economica alternativa. Intervista a Emiliano Brancaccio, ricercatore e docente di
Economia politica presso l’Università del Sannio, a Benevento.
di Marco Sferini
Stiamo assistendo a una precipitazione della vicenda FIAT e a un inasprimento del conflitto tra i sostenitori e gli oppositori della linea portata avanti dai vertici del gruppo.
Qual è secondo lei l'incidenza della crisi economica sulle scelte operate da Marchionne?
La crisi ha rappresentato un fattore di accelerazione dei piani di Marchionne. La grande
recessione esplosa nel 2008 ha indotto l’amministratore delegato di FIAT ad attuare in termini
molto più repentini e dolorosi un programma di ristrutturazione che egli probabilmente coltivava già da tempo, e che in buona sostanza dipende dalla fragile posizione di FIAT all’interno di un mercato automobilistico in profonda transizione.
Il punto da comprendere è che in molte branche del manifatturiero, e in particolar modo nel settore automobilistico, registriamo da tempo un eccesso di capacità produttiva a livello mondiale. Conseguenza di questo eccesso è quella che Marx definiva una tendenza alla centralizzazione dei capitali.
Le imprese relativamente più forti si riorganizzano, si ristrutturano e tendono ad assorbire o a
mettere fuori mercato le imprese più deboli. Si tratta di una tendenza di lungo periodo, che tuttavia ha subìto una accelerazione a seguito della crisi.
mettere fuori mercato le imprese più deboli. Si tratta di una tendenza di lungo periodo, che tuttavia ha subìto una accelerazione a seguito della crisi.
Gli effetti della precipitosa e violenta ristrutturazione in corso si possono a grandi linee già prevedere. Le imprese del settore automobilistico che resteranno sul mercato saranno molte meno delle attuali. Attualmente contiamo quindici grandi players operanti sui quattro principali mercati mondiali dell’auto.
Un recente studio della Deloitte prevede che in meno di un decennio cinque gruppi usciranno
dal mercato o saranno assorbiti. Ne resteranno quindi soltanto dieci che si spartiranno il 90%
del mercato globale. Altre ricerche sono persino più pessimistiche, prevedendo la
sopravvivenza di appena sei gruppi automobilistici. In questo scenario altamente conflittuale
la FIAT è un attore relativamente debole che sconta una fragilità intrinseca, dovuta a una
struttura industriale obsoleta e a scarsi investimenti in ricerca e sviluppo. La strategia di
Marchionne sembra prendere atto passivamente della debolezza di FIAT. Basti pensare che
egli non parla quasi mai di nuovi modelli. La sua linea d’azione si concentra pressoché
esclusivamente sull’obiettivo di minacciare le delocalizzazioni degli impianti in quei paesi in
cui egli può ottenere ingenti sussidi pubblici oppure mani libere per liquidare definitivamente
i sindacati non compiacenti, intensificare i ritmi produttivi e abbattere i costi unitari del
lavoro. Non sto qui a dire se Marchionne abbia delle alternative e se quindi sia un capitalista
“buono” o “cattivo”. Lo trovo un esercizio abusato ed inutile, che nulla ha a che fare con un
serio metodo di analisi storico-materialista. Possiamo tuttavia tranquillamente affermare che
la sua è una strategia da comprimario nel grande risiko capitalistico in atto, ed è anche per
questo che essa risulta particolarmente aggressiva nei confronti dei lavoratori.
In effetti la stretta di Marchionne sulle condizioni lavorative negli stabilimenti della
FIAT introduce una "rivoluzione" vera e propria nelle relazioni industriali nazionali.
La risposta a questa impostazione può essere lo sciopero generale?
Esaminando i termini degli accordi che la FIAT ha preso con CISL e UIL e con il beneplacito
del governo Berlusconi, direi che siamo di fronte a una “repressione rivoluzionaria”. Nel
momento in cui si disintegrano le relazioni che ruotano intorno al contratto nazionale e si
giunge al punto di escludere dalla rappresentanza i sindacati che non firmano le intese, è
chiaro che ci troviamo al cospetto di un attacco “basico”, che agisce alle fondamenta, e che
pertanto si configura come un attacco intrinsecamente politico al già largamente
compromesso sistema di relazioni industriali che avevamo ereditato dagli anni ‘70. Mi sembra
dunque logico che da più parti si invochi lo sciopero generale, vale a dire uno sciopero che
metta in luce il carattere politico della contesa che si sta giocando intorno alla FIAT. Tuttavia,
detto questo, a me pare francamente che si fatichi molto a dare a un eventuale sciopero
generale una precisa connotazione politica, e di politica economica. Eppure nel tempo della
crisi i lavoratori percepiscono che la mera prova muscolare e di piazza contro Marchionne e i
suoi sostenitori può rivelarsi del tutto insufficiente, anche qualora andasse benissimo in
termini di numerosità dei partecipanti. Coloro che hanno mantenuto un saldo legame politicoculturale
con l’esperienza novecentesca del movimento operaio sono consapevoli del fatto che
ci troviamo nel mezzo di una “congiuntura storica”, che per ragioni costitutive non può essere
mai affrontata tramite azioni di taglio puramente rivendicativo, sia pure ispirate ad altissimi
principii etici. Piuttosto, bisognerebbe riunire le forze attorno a un preciso “punto di vista del
lavoro” sulla crisi dell’accumulazione capitalistica e sulle concrete misure per farvi fronte.
Può darsi che mi sia distratto, ma mi sembra che anche dagli interventi degli intellettuali più
illuminati e storicamente più vicini al movimento dei lavoratori emergano preziosi frammenti
di verità, ma mai una risposta generale e concreta alla domanda che urge: “che fare?”.
Ma allora, che tipo di proposta di politica economica è possibile fare, nel concreto, per
impedire un ulteriore tracollo dei diritti sociali e per fissare le basi per un rilancio del
movimento dei lavoratori?
La mia tesi è abbastanza nota. Tutti gli eredi della tradizione del movimento operaio, siano
essi di ispirazione socialista o comunista, dovrebbero sottoporre a revisione quel
liberoscambismo acritico, talvolta persino apologetico, che soprattutto a partire dalla caduta
del Muro di Berlino ha più o meno consapevolmente plasmato la loro visione e ha
drammaticamente limitato la loro azione politica. Le cause di questa sudditanza verso il
dogma liberista della totale apertura dei mercati sono tante, di ordine sia teorico che pratico:
da una lettura ingenua del Marx del 1848 alla incapacità di sottrarsi a un compromesso
sempre più al ribasso con quel capitalismo finanziario che in questi anni ha più tenacemente
sostenuto il paradigma del libero scambio. Non è questa ovviamente la sede per approfondire
le determinanti di un simile orientamento. Mi limito qui a evidenziarne le conseguenze:
oggigiorno troviamo esponenti della sinistra, persino della sinistra cosiddetta “radicale”, che
in maniera preanalitica, oserei dire istintiva, etichettano il protezionismo e persino il controllo
dei movimenti di capitale come politiche “nazionaliste”, “reazionarie” e “di destra”. Questi
“comunisti liberoscambisti”, come talvolta provocatoriamente li ho definiti, alimentano un
equivoco colossale che stiamo pagando carissimo, poiché esso ci sta impedendo di delineare
un autonomo punto di vista del lavoro nel dibattito interno agli assetti del capitale, tra fautori
del protezionismo e difensori del libero scambio. Un dibattito che è pienamente in corso e che
sta cambiando i meccanismi dell’accumulazione capitalistica, come dimostrano i numeri: ben
332 nuove misure protezionistiche intraprese negli ultimi due anni un po’ in tutto il mondo
tranne che in Europa, guarda caso. Personalmente ritengo che se esisterà davvero una chance
per la costruzione di un nuovo movimento dei lavoratori, questa dovrà necessariamente
passare per una critica dell’apertura indiscriminata dei mercati. Se questa critica non verrà alla
luce, una politica alternativa non potrà mai prodursi e la “guerra mondiale tra lavoratori”
tenderà inesorabilmente a intensificarsi.
Esiste un modo per legare eventi popolari e di massa come uno sciopero generale alla
questione della critica alla dottrina del libero scambio? E’ possibile cioè ritrovare un
legame fra la teoria e la prassi politica?
Non solo è possibile, ma credo sia urgente. Quando Marchionne ha fatto della minaccia di
delocalizzazione la sua arma “di ultima istanza” nel confronto che si accingeva ad aprire con
il sindacato, Berlusconi lo ha repentinamente appoggiato sostenendo che «in una libera
economia e in un libero Stato, un gruppo industriale è libero di collocare dove è più
conveniente la propria produzione». Ebbene, è alquanto sintomatico che nessuna forza
politica o sindacale abbia indicato una chiara alternativa a questa netta presa di posizione del
presidente del Consiglio. Se allora, per esempio, da uno sciopero generale facesse capolino la
parola d’ordine secondo cui “un gruppo industriale NON deve esser libero di collocare dove è
più conveniente la propria produzione”, direi che avremmo già fatto un passo nella giusta
direzione.
Nella “Lettera degli economisti” pubblicata nel giugno scorso, lei e gli altri 250 studiosi
firmatari avete anche evocato il pericolo di una speculazione internazionale in grado di
destabilizzare l’intera zona euro e di aprire la strada a nuove politiche di soppressione
dei diritti sociali. La critica dell’apertura dei mercati riguarda anche il problema dei
movimenti speculativi di capitale?
Assolutamente sì. La questione non attiene solo ai movimenti di capitale fisico e alla connessa
localizzazione degli impianti industriali. Il problema è di ordine generale, e quindi riguarda
tutti i tipi di movimenti di capitale, a partire da quelli finanziari. Mi permetto a questo
proposito di rivolgere una sommessa domanda a Bersani, Vendola, Diliberto, Ferrero,
Camusso, Landini, e agli altri leader eredi più o meno diretti della tradizione del movimento
operaio: se nei prossimi mesi dovesse partire un attacco speculativo contro i titoli italiani,
quale sarebbe la proposta politica delle forze di sinistra? Si adeguerebbero alla prassi finora
prevalente in Europa, basata su strette di bilancio, abbattimento ulteriore dei salari e dei diritti
e massicce privatizzazioni in cambio di liquidità a breve? Accetterebbero in altri termini di
subire passivamente gli effetti di una versione ancor più feroce della crisi valutaria del 1992?
O sarebbero piuttosto in grado di evidenziare che l’assetto rigidamente liberoscambista della
Unione monetaria europea è palesemente insostenibile, e che dunque non si può restare al suo
interno senza un profondo mutamento del medesimo? Spero che a questo interrogativo non si
debba mai rispondere. Ma semmai venisse il tempo, sarebbe bene non trovarsi impreparati.
Sarebbe bene chiarire fin d’ora che abbiamo bisogno di elevare un argine contro le
speculazioni finanziarie e le delocalizzazioni industriali.
Un recente studio della Deloitte prevede che in meno di un decennio cinque gruppi usciranno
dal mercato o saranno assorbiti. Ne resteranno quindi soltanto dieci che si spartiranno il 90%
del mercato globale. Altre ricerche sono persino più pessimistiche, prevedendo la
sopravvivenza di appena sei gruppi automobilistici. In questo scenario altamente conflittuale
la FIAT è un attore relativamente debole che sconta una fragilità intrinseca, dovuta a una
struttura industriale obsoleta e a scarsi investimenti in ricerca e sviluppo. La strategia di
Marchionne sembra prendere atto passivamente della debolezza di FIAT. Basti pensare che
egli non parla quasi mai di nuovi modelli. La sua linea d’azione si concentra pressoché
esclusivamente sull’obiettivo di minacciare le delocalizzazioni degli impianti in quei paesi in
cui egli può ottenere ingenti sussidi pubblici oppure mani libere per liquidare definitivamente
i sindacati non compiacenti, intensificare i ritmi produttivi e abbattere i costi unitari del
lavoro. Non sto qui a dire se Marchionne abbia delle alternative e se quindi sia un capitalista
“buono” o “cattivo”. Lo trovo un esercizio abusato ed inutile, che nulla ha a che fare con un
serio metodo di analisi storico-materialista. Possiamo tuttavia tranquillamente affermare che
la sua è una strategia da comprimario nel grande risiko capitalistico in atto, ed è anche per
questo che essa risulta particolarmente aggressiva nei confronti dei lavoratori.
In effetti la stretta di Marchionne sulle condizioni lavorative negli stabilimenti della
FIAT introduce una "rivoluzione" vera e propria nelle relazioni industriali nazionali.
La risposta a questa impostazione può essere lo sciopero generale?
Esaminando i termini degli accordi che la FIAT ha preso con CISL e UIL e con il beneplacito
del governo Berlusconi, direi che siamo di fronte a una “repressione rivoluzionaria”. Nel
momento in cui si disintegrano le relazioni che ruotano intorno al contratto nazionale e si
giunge al punto di escludere dalla rappresentanza i sindacati che non firmano le intese, è
chiaro che ci troviamo al cospetto di un attacco “basico”, che agisce alle fondamenta, e che
pertanto si configura come un attacco intrinsecamente politico al già largamente
compromesso sistema di relazioni industriali che avevamo ereditato dagli anni ‘70. Mi sembra
dunque logico che da più parti si invochi lo sciopero generale, vale a dire uno sciopero che
metta in luce il carattere politico della contesa che si sta giocando intorno alla FIAT. Tuttavia,
detto questo, a me pare francamente che si fatichi molto a dare a un eventuale sciopero
generale una precisa connotazione politica, e di politica economica. Eppure nel tempo della
crisi i lavoratori percepiscono che la mera prova muscolare e di piazza contro Marchionne e i
suoi sostenitori può rivelarsi del tutto insufficiente, anche qualora andasse benissimo in
termini di numerosità dei partecipanti. Coloro che hanno mantenuto un saldo legame politicoculturale
con l’esperienza novecentesca del movimento operaio sono consapevoli del fatto che
ci troviamo nel mezzo di una “congiuntura storica”, che per ragioni costitutive non può essere
mai affrontata tramite azioni di taglio puramente rivendicativo, sia pure ispirate ad altissimi
principii etici. Piuttosto, bisognerebbe riunire le forze attorno a un preciso “punto di vista del
lavoro” sulla crisi dell’accumulazione capitalistica e sulle concrete misure per farvi fronte.
Può darsi che mi sia distratto, ma mi sembra che anche dagli interventi degli intellettuali più
illuminati e storicamente più vicini al movimento dei lavoratori emergano preziosi frammenti
di verità, ma mai una risposta generale e concreta alla domanda che urge: “che fare?”.
Ma allora, che tipo di proposta di politica economica è possibile fare, nel concreto, per
impedire un ulteriore tracollo dei diritti sociali e per fissare le basi per un rilancio del
movimento dei lavoratori?
La mia tesi è abbastanza nota. Tutti gli eredi della tradizione del movimento operaio, siano
essi di ispirazione socialista o comunista, dovrebbero sottoporre a revisione quel
liberoscambismo acritico, talvolta persino apologetico, che soprattutto a partire dalla caduta
del Muro di Berlino ha più o meno consapevolmente plasmato la loro visione e ha
drammaticamente limitato la loro azione politica. Le cause di questa sudditanza verso il
dogma liberista della totale apertura dei mercati sono tante, di ordine sia teorico che pratico:
da una lettura ingenua del Marx del 1848 alla incapacità di sottrarsi a un compromesso
sempre più al ribasso con quel capitalismo finanziario che in questi anni ha più tenacemente
sostenuto il paradigma del libero scambio. Non è questa ovviamente la sede per approfondire
le determinanti di un simile orientamento. Mi limito qui a evidenziarne le conseguenze:
oggigiorno troviamo esponenti della sinistra, persino della sinistra cosiddetta “radicale”, che
in maniera preanalitica, oserei dire istintiva, etichettano il protezionismo e persino il controllo
dei movimenti di capitale come politiche “nazionaliste”, “reazionarie” e “di destra”. Questi
“comunisti liberoscambisti”, come talvolta provocatoriamente li ho definiti, alimentano un
equivoco colossale che stiamo pagando carissimo, poiché esso ci sta impedendo di delineare
un autonomo punto di vista del lavoro nel dibattito interno agli assetti del capitale, tra fautori
del protezionismo e difensori del libero scambio. Un dibattito che è pienamente in corso e che
sta cambiando i meccanismi dell’accumulazione capitalistica, come dimostrano i numeri: ben
332 nuove misure protezionistiche intraprese negli ultimi due anni un po’ in tutto il mondo
tranne che in Europa, guarda caso. Personalmente ritengo che se esisterà davvero una chance
per la costruzione di un nuovo movimento dei lavoratori, questa dovrà necessariamente
passare per una critica dell’apertura indiscriminata dei mercati. Se questa critica non verrà alla
luce, una politica alternativa non potrà mai prodursi e la “guerra mondiale tra lavoratori”
tenderà inesorabilmente a intensificarsi.
Esiste un modo per legare eventi popolari e di massa come uno sciopero generale alla
questione della critica alla dottrina del libero scambio? E’ possibile cioè ritrovare un
legame fra la teoria e la prassi politica?
Non solo è possibile, ma credo sia urgente. Quando Marchionne ha fatto della minaccia di
delocalizzazione la sua arma “di ultima istanza” nel confronto che si accingeva ad aprire con
il sindacato, Berlusconi lo ha repentinamente appoggiato sostenendo che «in una libera
economia e in un libero Stato, un gruppo industriale è libero di collocare dove è più
conveniente la propria produzione». Ebbene, è alquanto sintomatico che nessuna forza
politica o sindacale abbia indicato una chiara alternativa a questa netta presa di posizione del
presidente del Consiglio. Se allora, per esempio, da uno sciopero generale facesse capolino la
parola d’ordine secondo cui “un gruppo industriale NON deve esser libero di collocare dove è
più conveniente la propria produzione”, direi che avremmo già fatto un passo nella giusta
direzione.
Nella “Lettera degli economisti” pubblicata nel giugno scorso, lei e gli altri 250 studiosi
firmatari avete anche evocato il pericolo di una speculazione internazionale in grado di
destabilizzare l’intera zona euro e di aprire la strada a nuove politiche di soppressione
dei diritti sociali. La critica dell’apertura dei mercati riguarda anche il problema dei
movimenti speculativi di capitale?
Assolutamente sì. La questione non attiene solo ai movimenti di capitale fisico e alla connessa
localizzazione degli impianti industriali. Il problema è di ordine generale, e quindi riguarda
tutti i tipi di movimenti di capitale, a partire da quelli finanziari. Mi permetto a questo
proposito di rivolgere una sommessa domanda a Bersani, Vendola, Diliberto, Ferrero,
Camusso, Landini, e agli altri leader eredi più o meno diretti della tradizione del movimento
operaio: se nei prossimi mesi dovesse partire un attacco speculativo contro i titoli italiani,
quale sarebbe la proposta politica delle forze di sinistra? Si adeguerebbero alla prassi finora
prevalente in Europa, basata su strette di bilancio, abbattimento ulteriore dei salari e dei diritti
e massicce privatizzazioni in cambio di liquidità a breve? Accetterebbero in altri termini di
subire passivamente gli effetti di una versione ancor più feroce della crisi valutaria del 1992?
O sarebbero piuttosto in grado di evidenziare che l’assetto rigidamente liberoscambista della
Unione monetaria europea è palesemente insostenibile, e che dunque non si può restare al suo
interno senza un profondo mutamento del medesimo? Spero che a questo interrogativo non si
debba mai rispondere. Ma semmai venisse il tempo, sarebbe bene non trovarsi impreparati.
Sarebbe bene chiarire fin d’ora che abbiamo bisogno di elevare un argine contro le
speculazioni finanziarie e le delocalizzazioni industriali.
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