Fonte: controlacrisi
T.I.N.A. è l’acronimo di there is No alternative, «Non c’è alternativa», coniato dai fautori del pensiero unico, gli inventori della più colossale mistificazione ideologica della modernità, quella che spaccia l’economia di mercato, in modo di produzione capitalistico e i rapporti di proprietà che vi sono sottesi, come il solo sistema di relazioni sociali entro cui sia immaginabile vivere, produrre, consumare, riprodursi. E’ il regno del capitale oggi dominante nella forma di una devastante superfetazione finanziaria. Quella entro il cui perimetro, senza deflettere, operano Mario Monti e il suo governo “tecnico”. E «non c’è alternativa» è esattamente la frase usata dal Presidente del Consiglio, chiamato da Bruno Vespa a chiarire senso e ragioni della manovra, probabilmente blindata con il voto di fiducia, che fra breve il parlamento voterà in modo quasi plebiscitario.
Non c’è apparente arroganza nell’uomo della Trilateral, anzi. Egli si è mostrato sinceramente dispiaciuto dei sacrifici imposti alla povera gente; si è persino mostrato comprensivo per le proteste e per gli scioperi imminenti («Se ne sono fatti per molto meno» - ha detto). Ma poi ha riproposto il refrain: «Non c’è altro da fare, le misure sono necessarie pena cadere nel precipizio che è solo ad un passo da noi». C’è un che di persuasivo nello stile pacato, nell’apodittica certezza, nel disinteresse personale con cui Monti affonda il bisturi nelle carni del Paese più povero. E c’è persino il rischio che non poche delle sue vittime designate, appena liberatesi con un gran sospiro dei tentacoli di Berlusconi, finiscano per credergli, per affidarglisi, magari per disperazione.
Ora, abbiamo cercato più e più volte di spiegare, su questo foglio, perché le terapie della Bce, introiettate senza batter ciglio dall’Ue e dal nostro governo, siano la pura espressione della dittatura della finanza speculativa; abbiamo chiarito come quelle ricette produrranno un devastante impoverimento del sistema di protezione sociale, del welfare e - contemporaneamente - inibiranno ogni possibilità di ripresa, riproducendo le condizioni entro le quali si ripresenteranno - aggravati - i medesimi problemi. E a cui seguiranno terapie ancora più aggressive e debilitanti.
Tuttavia c’è, nei provvedimenti del governo, un tratto, un profilo che trascende l’imperativo del pareggio di bilancio e del rientro dal debito. Perché per «fare cassa», e solo questo si sta facendo, vi sono molti modi. Se lo si fa secondo giustizia, per esempio, si può persino introdurre capitoli virtuosi (evitando di massacrare le pensioni dei pensionati e quelle dei pensionandi), innescare fiducia e ricavare risorse per ristorare seriamente la parte più povera e sfibrata, rilanciare gli investimenti nella ricerca, nella scuola, nella cultura, nelle opere pubbliche, a partire da quelle che hanno a che fare con il dissesto idrogeologico, con il saccheggio del territorio e con l’infrastrutturazione primaria del Paese.
Bisogna che tutti comprendano che le risorse necessarie ci sono, perché la ricchezza privata, concentrata nei piani alti delll’edifico sociale e ben censita dalla Banca d’Italia, è enorme.
Come lo è il livello dell’evasione fiscale, che più se ne parla e meno si fa per combatterla con una qualche efficacia. Voglio dire che una volta stabilito che è tecnicamente possibile scovare dall’anonimato i possessori dei capitali a suo tempo “scudati” con l’aliquota del 5%, perché non applicare a quelle enormi fortune illecitamente accumulate un’aliquota ulteriore, ben superiore al misero 1,5% deciso dal governo? Qual è la superiore ragione oggettiva che ad un provvedimento così giusto, così doveroso e parzialmente riparatore di un furto continuato inflitto alla collettività dei lavoratori e dei contribuenti onesti, preferisce l’incremento dell’Iva, l’aumento delle accise sulla benzina, l’aggravio sull’imposta sugli immobili? E qual è l’elemento “razionale”, il senso di equità che sostiene l’aumento drastico dell’età pensionabile, l’abolizione delle pensioni di anzianità, la soppressione delle indicizzazioni per le pensioni da fame, mentre non si decide di porre un tetto almeno alle pensioni superiori ai cinquemila euro e si rifiuta ostinatamente di varare una tassa patrimoniale di scopo? Qui, come chiunque può capire, la ragione è politica. E, candidamente lo ha ammesso lo stesso viceministro dell’economia, Vittorio Grilli. Come politica e null’altro è la scelta di non reintegrare delle poche decine di milioni necessarie a reintegrare il Fondo per l’editoria, condannando alla chiusura pressoché tutti i giornali di partito e di idee, salvo quelli che hanno per editori grandi potentati economici e finanziari. Perché quelli, in un panorama giornalistico totalmente appiattito e omologato, continueranno a vivere, non mancando peraltro di mungere sottobanco denaro pubblico.
Vedo inoltre che ci si può permettere di regalare le frequenze digitali televisive, di proprietà dello Stato, a Rai e Mediaset, piuttosto che indire una gara e mettere all’incasso i 16 miliardi del loro valore. Il rifinanziamento del Fondo per l’editoria vale cento volte meno. Come è facile arguire, anche in questo caso, i conti non tornano. Ma la contabilità, nuovamente, non c’entra. C’entrano invece gli interessi e c’entra la politica che li protegge.
Anche per questa via passa l’attacco alla democrazia, alla libertà e al pluralismo dell’informazione. E agli stessi partiti, che la tecnocrazia al comando già considera reperti del passato.
Ieri, Cgil Cisl e Uil hanno proclamato tre ore di sciopero contro la manovra da effettuarsi lunedì. Hanno anche aggiunto che se il governo non darà risposte, è pronto uno sciopero di otto ore entro la fine di dicembre. Se sarà così, se la mobilitazione non sarà solo un lamento utile a mettersi il cuore in pace, va bene. E’ proprio questo che serve. Un’opposizione vera. Almeno quella sociale, visto che quella parlamentare si è autolesionisticamente infilata in un vicolo cieco.
Noi staremo nella lotta e la sosterremo. Per indicare un’altra strada. Che c’è, limpida e chiara.
T.I.N.A. è l’acronimo di there is No alternative, «Non c’è alternativa», coniato dai fautori del pensiero unico, gli inventori della più colossale mistificazione ideologica della modernità, quella che spaccia l’economia di mercato, in modo di produzione capitalistico e i rapporti di proprietà che vi sono sottesi, come il solo sistema di relazioni sociali entro cui sia immaginabile vivere, produrre, consumare, riprodursi. E’ il regno del capitale oggi dominante nella forma di una devastante superfetazione finanziaria. Quella entro il cui perimetro, senza deflettere, operano Mario Monti e il suo governo “tecnico”. E «non c’è alternativa» è esattamente la frase usata dal Presidente del Consiglio, chiamato da Bruno Vespa a chiarire senso e ragioni della manovra, probabilmente blindata con il voto di fiducia, che fra breve il parlamento voterà in modo quasi plebiscitario.
Non c’è apparente arroganza nell’uomo della Trilateral, anzi. Egli si è mostrato sinceramente dispiaciuto dei sacrifici imposti alla povera gente; si è persino mostrato comprensivo per le proteste e per gli scioperi imminenti («Se ne sono fatti per molto meno» - ha detto). Ma poi ha riproposto il refrain: «Non c’è altro da fare, le misure sono necessarie pena cadere nel precipizio che è solo ad un passo da noi». C’è un che di persuasivo nello stile pacato, nell’apodittica certezza, nel disinteresse personale con cui Monti affonda il bisturi nelle carni del Paese più povero. E c’è persino il rischio che non poche delle sue vittime designate, appena liberatesi con un gran sospiro dei tentacoli di Berlusconi, finiscano per credergli, per affidarglisi, magari per disperazione.
Ora, abbiamo cercato più e più volte di spiegare, su questo foglio, perché le terapie della Bce, introiettate senza batter ciglio dall’Ue e dal nostro governo, siano la pura espressione della dittatura della finanza speculativa; abbiamo chiarito come quelle ricette produrranno un devastante impoverimento del sistema di protezione sociale, del welfare e - contemporaneamente - inibiranno ogni possibilità di ripresa, riproducendo le condizioni entro le quali si ripresenteranno - aggravati - i medesimi problemi. E a cui seguiranno terapie ancora più aggressive e debilitanti.
Tuttavia c’è, nei provvedimenti del governo, un tratto, un profilo che trascende l’imperativo del pareggio di bilancio e del rientro dal debito. Perché per «fare cassa», e solo questo si sta facendo, vi sono molti modi. Se lo si fa secondo giustizia, per esempio, si può persino introdurre capitoli virtuosi (evitando di massacrare le pensioni dei pensionati e quelle dei pensionandi), innescare fiducia e ricavare risorse per ristorare seriamente la parte più povera e sfibrata, rilanciare gli investimenti nella ricerca, nella scuola, nella cultura, nelle opere pubbliche, a partire da quelle che hanno a che fare con il dissesto idrogeologico, con il saccheggio del territorio e con l’infrastrutturazione primaria del Paese.
Bisogna che tutti comprendano che le risorse necessarie ci sono, perché la ricchezza privata, concentrata nei piani alti delll’edifico sociale e ben censita dalla Banca d’Italia, è enorme.
Come lo è il livello dell’evasione fiscale, che più se ne parla e meno si fa per combatterla con una qualche efficacia. Voglio dire che una volta stabilito che è tecnicamente possibile scovare dall’anonimato i possessori dei capitali a suo tempo “scudati” con l’aliquota del 5%, perché non applicare a quelle enormi fortune illecitamente accumulate un’aliquota ulteriore, ben superiore al misero 1,5% deciso dal governo? Qual è la superiore ragione oggettiva che ad un provvedimento così giusto, così doveroso e parzialmente riparatore di un furto continuato inflitto alla collettività dei lavoratori e dei contribuenti onesti, preferisce l’incremento dell’Iva, l’aumento delle accise sulla benzina, l’aggravio sull’imposta sugli immobili? E qual è l’elemento “razionale”, il senso di equità che sostiene l’aumento drastico dell’età pensionabile, l’abolizione delle pensioni di anzianità, la soppressione delle indicizzazioni per le pensioni da fame, mentre non si decide di porre un tetto almeno alle pensioni superiori ai cinquemila euro e si rifiuta ostinatamente di varare una tassa patrimoniale di scopo? Qui, come chiunque può capire, la ragione è politica. E, candidamente lo ha ammesso lo stesso viceministro dell’economia, Vittorio Grilli. Come politica e null’altro è la scelta di non reintegrare delle poche decine di milioni necessarie a reintegrare il Fondo per l’editoria, condannando alla chiusura pressoché tutti i giornali di partito e di idee, salvo quelli che hanno per editori grandi potentati economici e finanziari. Perché quelli, in un panorama giornalistico totalmente appiattito e omologato, continueranno a vivere, non mancando peraltro di mungere sottobanco denaro pubblico.
Vedo inoltre che ci si può permettere di regalare le frequenze digitali televisive, di proprietà dello Stato, a Rai e Mediaset, piuttosto che indire una gara e mettere all’incasso i 16 miliardi del loro valore. Il rifinanziamento del Fondo per l’editoria vale cento volte meno. Come è facile arguire, anche in questo caso, i conti non tornano. Ma la contabilità, nuovamente, non c’entra. C’entrano invece gli interessi e c’entra la politica che li protegge.
Anche per questa via passa l’attacco alla democrazia, alla libertà e al pluralismo dell’informazione. E agli stessi partiti, che la tecnocrazia al comando già considera reperti del passato.
Ieri, Cgil Cisl e Uil hanno proclamato tre ore di sciopero contro la manovra da effettuarsi lunedì. Hanno anche aggiunto che se il governo non darà risposte, è pronto uno sciopero di otto ore entro la fine di dicembre. Se sarà così, se la mobilitazione non sarà solo un lamento utile a mettersi il cuore in pace, va bene. E’ proprio questo che serve. Un’opposizione vera. Almeno quella sociale, visto che quella parlamentare si è autolesionisticamente infilata in un vicolo cieco.
Noi staremo nella lotta e la sosterremo. Per indicare un’altra strada. Che c’è, limpida e chiara.
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