"Cinque paradossi" rendono evidente che gli strumenti dell'economia del Novecento non possono spiegare, né affrontare, la situazione che stiamo vivendo. Le "ricette" della Bce producono effetti dissonanti rispetto alle finalità di partenza. Si è aperta una nuova fase, "e affrontarla con la testa rivolta al passato serve davvero a poco", scrive Alessandro Volpi, autore di "Sommersi dal debito"
di Alessandro Volpi* - 16 aprile 2012 - altreconomia -
Primo paradosso. La Banca centrale europea, per evitare la paralisi del credito, ha iniettato nelle vene del sistema bancario -tra dicembre 2011 e febbraio 2012- 1.019 miliardi di euro, facendosi pagare un tasso dell’1%.
Il settore finanziario italiano, grazie anche alle garanzie fornite dal Tesoro -dunque con i soldi dei contribuenti- pari a 40 miliardi, ha potuto attingere a circa 260 miliardi di quella gigantesca montagna di liquidità, e ne ha diretto una parte all’acquisto di titoli di Stato. I numeri in tal senso sono chiari: tra dicembre e febbraio nel portafoglio delle banche residenti in Italia i titoli di Stato sono passati da 209 a 267 miliardi di euro; questi 58 miliardi di maggiori acquisti hanno contribuito a raffreddare gli spread, ma, nel momento in cui si è profilata la crisi del debito spagnolo, sono immediatamente diventati un fardello eccessivo per le banche italiane, colpite da pesanti ondate di vendite azionarie. Se i titoli di Stato italiani subissero ulteriori perdite, il peso per le banche italiane diverrebbe insostenibile dopo che i primi cinque istituti hanno già perso nel 2011 28 miliardi di euro. Ma allora qual è la ratio di simili manovre? La Bce presta denaro e lo Stato italiano fornisce garanzie -entrambi con risorse pubbliche- per ridurre il costo del Debito -minori spread- e per non bloccare il credito alle imprese. Il risultato però è quello di rendere il debito più costoso -maggiori spread- e di restringere il credito: il paradosso è evidente.
Secondo paradosso. Il governo spagnolo, uscito vittorioso dalle elezioni politiche, annuncia di non essere in grado di centrare gli obiettivi europei di riduzione del deficit. Deve quindi porre in essere tre manovre finanziarie, ma le previsioni stimano una crescita del suo rapporto debito-Pil di oltre 20 punti percentuali. Inizia quindi una grave crisi del debito spagnolo; a risentirne maggiormente sono però i titoli di Stato a breve termine del nostro Paese. Perché? La risposta sta tutta nella speculazione: chi scommette sui mercati ha chiaro che la crisi spagnola sarà un motivo di tensione nei confronti dell’euro, e allora decide di sparare subito sulla preda più grande, il debito italiano. Se l’euro è sotto pressione per effetto delle debolezze spagnole, il modo più semplice per farne scendere ancora il valore è colpire i titoli del Paese più liquido e indebitato, cioè l’Italia, in maniera tale da avere subito un effetto amplificato. Ciò pone un interrogativo: la discussione sul mercato del lavoro come condizione per accrescere la stabilità e la credibilità finanziaria del Paese è davvero così cruciale, oppure le variabili che incidono sulla stabilità reale sono altre? Il paradosso è evidente, ed è reso ancora più marcato dal fatto che l’effetto prodotto dagli speculatori è ulteriormente accresciuto dalla possibilità -ripristinata- di compiere vendite allo scoperto sui titoli di Stato. Se è possibile speculare sui titoli di Stato, di fatto, senza neppure tirare fuori un euro, procedendo solo a successive ricoperture, è chiaro che il “sentimento” del mercato si indirizza laddove lo porta la maggioranza. One way bet, dicono gli anglosassoni, la scommessa a senso unico: si scommette, senza pagare la fish d’entrata, su un risultato determinato dalla mole delle scommesse stesse.
Terzo paradosso. La Banca centrale europea ha oggi un bilancio monstre di quasi 3.000 miliardi di euro, circa il 30% del Pil della zona euro, contro un bilancio della Federal Reserve statunitense che è pari al 20% del Pil a stelle e strisce. La Bce ha finanziato il suo bilancio senza creare carta moneta, a differenza degli Stati Uniti; ha remunerato i depositi allo 0,25 e ha prestato con tassi che vanno dall’1 al 2%. Dovrebbe aver guadagnato quindi. In realtà, ha peggiorato la qualità dei propri conti perché si è imbottita di titoli di Stato di qualità scadente dei Paesi a cui ha fatto i prestiti. In questo senso, mentre in Europa vige la condizione dell’impossibilità di salvare gli Stati, la Bce ha condotto un’enorme quantità di salvataggi, contabilizzando gli interessi che dovrebbero versarle i Paesi salvati; un vero e proprio paradosso, mentre la Fed, altro paradosso, che ha stampato carta moneta per comprare titoli di Stato Usa ha migliorato la qualità del proprio bilancio grazie al miglioramento della qualità dei titoli di Stato americani, comprati dalla carta moneta artificiale.
Quarto paradosso. La crisi del debito sovrano di molti Stati riduce rapidamente la qualità dei titoli di tali debiti, e quindi farà sparire circa 10mila miliardi di titoli “sicuri”, inevitabilmente declassati. Ma se spariscono titoli sicuri, come può reggere l’intero sistema di valutazione dei meriti del credito bancario, che misura la solidità di banche proprio sul possesso di titoli sicuri? Di nuovo il paradosso è evidente.
Quinto paradosso. Secondo le ultime stime, alla fine del 2013 il Pil italiano potrebbe aver perso oltre 30 miliardi di euro in più rispetto alle stime che erano state effettuate dal governo Monti. Questo dato preoccupa i mercati e alimenta gli speculatori ribassisti, che ogni qual volta viene annunciata una misura restrittiva destinata a limitare la spesa sono indotti a chiedere un premio maggiore sui titoli di Stato dei Paesi che attuano la misura in questione. In estrema sintesi, gli spread tendono a diventare keynesiani, auspicando interventi che non blocchino la crescita. C'è però in questo quadro un ulteriore elemento di complicazione. Il problema numero uno continua ad essere lo stock di debito pubblico primario; per ridurlo l'Italia dovrebbe realizzare avanzi annui, al netto degli interesssi, intorno al 4%. Ma allora, se deve adottare una politica di rigore per ridurre il debito e i mercati la puniscono per un simile comportamento, che fare? Possiamo complicare ancora di più lo scenario, aggiungiamo un'altra variabile paradossale: i mercati esultano quando i dati macro sono negativi, come testimonia il caso Usa degli ultimi giorni, perché sanno che in casi del genere le banche centrali spareranno ancora fiumi di liquidità -che poi di fatto non arrivano mai ai sistemi produttivi-. Dunque, la politica monetaria a cosa serve? Sorge il dubbio che il linguaggio dell'economia sia ormai soltanto formalistico.
Cinque paradossi, dunque, figli della crisi, che pongono però un tema decisivo di cui la politica dovrebbe discutere in profondità; le categorie interpretative e gli strumenti dell’economia del Novecento manifestano dei limiti tangibili, tanto che l’applicazione delle ricette più consuete produce effetti palesemente dissonanti rispetto alle finalità di partenza. La crisi apre davvero una nuova fase, e affrontarla con la testa rivolta al passato serve davvero a poco.
* Alessandro Volpi, Università di Pisa
di Alessandro Volpi* - 16 aprile 2012 - altreconomia -
Primo paradosso. La Banca centrale europea, per evitare la paralisi del credito, ha iniettato nelle vene del sistema bancario -tra dicembre 2011 e febbraio 2012- 1.019 miliardi di euro, facendosi pagare un tasso dell’1%.
Il settore finanziario italiano, grazie anche alle garanzie fornite dal Tesoro -dunque con i soldi dei contribuenti- pari a 40 miliardi, ha potuto attingere a circa 260 miliardi di quella gigantesca montagna di liquidità, e ne ha diretto una parte all’acquisto di titoli di Stato. I numeri in tal senso sono chiari: tra dicembre e febbraio nel portafoglio delle banche residenti in Italia i titoli di Stato sono passati da 209 a 267 miliardi di euro; questi 58 miliardi di maggiori acquisti hanno contribuito a raffreddare gli spread, ma, nel momento in cui si è profilata la crisi del debito spagnolo, sono immediatamente diventati un fardello eccessivo per le banche italiane, colpite da pesanti ondate di vendite azionarie. Se i titoli di Stato italiani subissero ulteriori perdite, il peso per le banche italiane diverrebbe insostenibile dopo che i primi cinque istituti hanno già perso nel 2011 28 miliardi di euro. Ma allora qual è la ratio di simili manovre? La Bce presta denaro e lo Stato italiano fornisce garanzie -entrambi con risorse pubbliche- per ridurre il costo del Debito -minori spread- e per non bloccare il credito alle imprese. Il risultato però è quello di rendere il debito più costoso -maggiori spread- e di restringere il credito: il paradosso è evidente.
Secondo paradosso. Il governo spagnolo, uscito vittorioso dalle elezioni politiche, annuncia di non essere in grado di centrare gli obiettivi europei di riduzione del deficit. Deve quindi porre in essere tre manovre finanziarie, ma le previsioni stimano una crescita del suo rapporto debito-Pil di oltre 20 punti percentuali. Inizia quindi una grave crisi del debito spagnolo; a risentirne maggiormente sono però i titoli di Stato a breve termine del nostro Paese. Perché? La risposta sta tutta nella speculazione: chi scommette sui mercati ha chiaro che la crisi spagnola sarà un motivo di tensione nei confronti dell’euro, e allora decide di sparare subito sulla preda più grande, il debito italiano. Se l’euro è sotto pressione per effetto delle debolezze spagnole, il modo più semplice per farne scendere ancora il valore è colpire i titoli del Paese più liquido e indebitato, cioè l’Italia, in maniera tale da avere subito un effetto amplificato. Ciò pone un interrogativo: la discussione sul mercato del lavoro come condizione per accrescere la stabilità e la credibilità finanziaria del Paese è davvero così cruciale, oppure le variabili che incidono sulla stabilità reale sono altre? Il paradosso è evidente, ed è reso ancora più marcato dal fatto che l’effetto prodotto dagli speculatori è ulteriormente accresciuto dalla possibilità -ripristinata- di compiere vendite allo scoperto sui titoli di Stato. Se è possibile speculare sui titoli di Stato, di fatto, senza neppure tirare fuori un euro, procedendo solo a successive ricoperture, è chiaro che il “sentimento” del mercato si indirizza laddove lo porta la maggioranza. One way bet, dicono gli anglosassoni, la scommessa a senso unico: si scommette, senza pagare la fish d’entrata, su un risultato determinato dalla mole delle scommesse stesse.
Terzo paradosso. La Banca centrale europea ha oggi un bilancio monstre di quasi 3.000 miliardi di euro, circa il 30% del Pil della zona euro, contro un bilancio della Federal Reserve statunitense che è pari al 20% del Pil a stelle e strisce. La Bce ha finanziato il suo bilancio senza creare carta moneta, a differenza degli Stati Uniti; ha remunerato i depositi allo 0,25 e ha prestato con tassi che vanno dall’1 al 2%. Dovrebbe aver guadagnato quindi. In realtà, ha peggiorato la qualità dei propri conti perché si è imbottita di titoli di Stato di qualità scadente dei Paesi a cui ha fatto i prestiti. In questo senso, mentre in Europa vige la condizione dell’impossibilità di salvare gli Stati, la Bce ha condotto un’enorme quantità di salvataggi, contabilizzando gli interessi che dovrebbero versarle i Paesi salvati; un vero e proprio paradosso, mentre la Fed, altro paradosso, che ha stampato carta moneta per comprare titoli di Stato Usa ha migliorato la qualità del proprio bilancio grazie al miglioramento della qualità dei titoli di Stato americani, comprati dalla carta moneta artificiale.
Quarto paradosso. La crisi del debito sovrano di molti Stati riduce rapidamente la qualità dei titoli di tali debiti, e quindi farà sparire circa 10mila miliardi di titoli “sicuri”, inevitabilmente declassati. Ma se spariscono titoli sicuri, come può reggere l’intero sistema di valutazione dei meriti del credito bancario, che misura la solidità di banche proprio sul possesso di titoli sicuri? Di nuovo il paradosso è evidente.
Quinto paradosso. Secondo le ultime stime, alla fine del 2013 il Pil italiano potrebbe aver perso oltre 30 miliardi di euro in più rispetto alle stime che erano state effettuate dal governo Monti. Questo dato preoccupa i mercati e alimenta gli speculatori ribassisti, che ogni qual volta viene annunciata una misura restrittiva destinata a limitare la spesa sono indotti a chiedere un premio maggiore sui titoli di Stato dei Paesi che attuano la misura in questione. In estrema sintesi, gli spread tendono a diventare keynesiani, auspicando interventi che non blocchino la crescita. C'è però in questo quadro un ulteriore elemento di complicazione. Il problema numero uno continua ad essere lo stock di debito pubblico primario; per ridurlo l'Italia dovrebbe realizzare avanzi annui, al netto degli interesssi, intorno al 4%. Ma allora, se deve adottare una politica di rigore per ridurre il debito e i mercati la puniscono per un simile comportamento, che fare? Possiamo complicare ancora di più lo scenario, aggiungiamo un'altra variabile paradossale: i mercati esultano quando i dati macro sono negativi, come testimonia il caso Usa degli ultimi giorni, perché sanno che in casi del genere le banche centrali spareranno ancora fiumi di liquidità -che poi di fatto non arrivano mai ai sistemi produttivi-. Dunque, la politica monetaria a cosa serve? Sorge il dubbio che il linguaggio dell'economia sia ormai soltanto formalistico.
Cinque paradossi, dunque, figli della crisi, che pongono però un tema decisivo di cui la politica dovrebbe discutere in profondità; le categorie interpretative e gli strumenti dell’economia del Novecento manifestano dei limiti tangibili, tanto che l’applicazione delle ricette più consuete produce effetti palesemente dissonanti rispetto alle finalità di partenza. La crisi apre davvero una nuova fase, e affrontarla con la testa rivolta al passato serve davvero a poco.
* Alessandro Volpi, Università di Pisa
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