Ho scritto al segretario Matteo Renzi. Per comunicargli che
mi dimetto da presidente dell'assemblea nazionale del PD. Ecco il testo della
lettera:
Caro Segretario, dal primo
minuto successivo alle primarie ho detto due cose: che quel risultato, così
netto nelle sue dimensioni e nel messaggio, andava colto e rispettato, e che da
parte mia vi sarebbe stato un atteggiamento leale e collaborativo senza venir
meno alla chiarezza di posizioni e principi che, assieme a tante e tanti,
abbiamo messo a base della nostra proposta congressuale. Ho accettato la
presidenza dell’Assemblea nazionale con questo spirito e ho cercato di
comportarmi in modo conseguente. Prendendo parola e posizione quando mi è
sembrato necessario, ma sempre nel rispetto degli altri a cominciare da chi si
è assunto l’onere e la responsabilità di guidare questa nuova fase. Nella
direzione di ieri sono intervenuto sul merito delle riforme e sul metodo che
abbiamo seguito. Ho espresso apprezzamento per l’accelerazione che hai impresso
al confronto e condiviso il traguardo di una riforma decisiva per la tenuta del
nostro assetto democratico e istituzionale. Non c’era alcun pregiudizio verso
il lavoro che hai svolto nei giorni e nelle settimane passate. Lavoro utile e
prezioso, non per una parte ma per il Paese tutto. Ho anche manifestato alcuni
dubbi – insisto, di merito – sulla proposta di nuova legge elettorale. In
particolare gli effetti di una soglia troppo bassa – il 35 per cento – per lo
scatto di un premio di maggioranza. Di una soglia troppo alta – l’8 per cento –
per le forze non coalizzate e di un limite serio nel non consentire ancora una
volta ai cittadini la scelta diretta del loro rappresentante. Dubbi che, per
altro, ritrovo autorevolmente illustrati stamane sulle pagine dei principali
quotidiani da personalità e studiosi ben più autorevoli di me. Infine ho
espresso una valutazione politica sul metodo seguito nella costruzione della
proposta e ho chiuso con un richiamo a non considerare la discussione tra noi
come una parentesi irrilevante ai fini di un miglioramento delle soluzioni.
Nella tua replica ho ascoltato la conferma che le riforme in discussione
rappresentano un pacchetto chiuso e dunque – traduco io – non emendabile o
migliorabile pena l’arresto del processo, almeno nelle modalità che ha assunto.
Sino ad un riferimento diretto a me e al fatto che avrei sollevato
strumentalmente il tema delle preferenze con tutta la scarsa credibilità di uno
che quell’argomento si è ben guardato dal porre all’atto del suo (cioè mio)
ingresso alla Camera in un listino bloccato. E’ vero. Per il poco che possano
valere dei cenni personali, sono entrato per la prima volta in Parlamento nel
giugno del 2006 subentrando al collega Budin che si era dimesso. Vi sono
rientrato da “nominato” nel 2008 e nuovamente nel listino da te rammentato a
febbraio di un anno fa. La mia intera esperienza parlamentare è coincisa con la
peggiore legge elettorale mai concepita nella storia repubblicana. Sarebbe per
altro noioso per te che io ti raccontassi quali siano stati la mia esperienza e
il mio impegno politico prima di questa parentesi istituzionale. Però la
conosco io, e tanto può bastare. Quanto al consenso non so dire se in una
competizione con preferenze ne avrei raccolte molte o poche. So che alcuni mesi
fa, usando qualche violenza al mio carattere, mi sono candidato alla guida del
nostro partito. Ho perso quella sfida raccogliendo però attorno a quella nostra
proposta un volume di consensi che io considero non banali. Comunque non è
questo il punto. Il punto è che ancora ieri, e non per la prima volta, tu hai
risposto a delle obiezioni politiche e di merito con un attacco di tipo
personale. Il punto è che ritengo non possano funzionare un organismo dirigente
e una comunità politica – e un partito è in primo luogo una comunità politica –
dove le riunioni si convocano, si svolgono, ma dove lo spazio e l’espressione
delle differenze finiscono in una irritazione della maggioranza e, con qualche
frequenza, in una conseguente delegittimazione dell’interlocutore. Non credo
sia un metodo giusto, saggio, adeguato alle ambizioni di un partito come il Pd
e alle speranze che questa nuova stagione, e il tuo personale successo, hanno
attivato. Tra i moltissimi difetti che mi riconosco non credo di avere mai
sofferto dell’ansia di una collocazione. Ieri sera, a fine dei nostri lavori,
esponenti della tua maggioranza hanno chiesto le mie dimissioni da presidente
per il “livore” che avrei manifestato nel corso del mio intervento. Leggo da un
dizionario on line che la definizione del termine corrisponde più o meno a
“sentimento di invidia e rancore”. Ecco, caro Segretario, non è così. Non nutro
alcun sentimento di invidia e tanto meno di rancore. Non ne avrei ragione dal
momento che la politica, quando vissuta con passione, ti insegna a misurarti
con la forza dei processi. E io questo realismo lo considero un segno della
maturità. Non mi dimetto, quindi, per “livore”. E neppure per l’assenza di un
cenno di solidarietà di fronte alla richiesta di dimissioni avanzata con
motivazioni alquanto discutibili. Non mi dimetto neppure per una battuta
scivolata via o il gusto gratuito di un’offesa. Anche se alle spalle abbiamo
anni durante i quali il linguaggio della politica si è spinto fin dove mai
avrebbe dovuto spingersi, e tutto era sempre e solo rubricato come “una
battuta”. Mi dimetto perché sono colpito e allarmato da una concezione del
partito e del confronto al suo interno che non può piegare verso
l’omologazione, di linguaggio e pensiero. Mi dimetto perché voglio bene al Pd e
voglio impegnarmi a rafforzare al suo interno idee e valori di quella sinistra
ripensata senza la quale questo partito semplicemente cesserebbe di essere. Mi
dimetto perché voglio avere la libertà di dire sempre quello che penso. Voglio
poter applaudire, criticare, dissentire, senza che ciò appaia a nessuno come un
abuso della carica che per qualche settimana ho cercato di ricoprire al meglio
delle mie capacità. Auguro buon lavoro a te e a tutti noi. Gianni
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