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di Christian Marazzi
Qualcuno ricorderà lo slogan del movimento Occupy Wall Street di un paio di anni fa: “Voi l’1%, noi il 99”. Si trattò della prima, grande mobilitazione sociale contro il capitalismo finanziario che si è gradualmente imposto nel corso degli ultimi trent’anni, un capitalismo che, attraverso una successione di bolle finanziarie, ha portato le economie dei paesi sviluppati alla crisi del 2008 nella quale siamo a tutt’oggi impantanati.
Il tratto saliente della finanziarizzazione è l’aumento drammatico delle disuguaglianze all’interno dei paesi ricchi, dagli Stati Uniti ai paesi europei, Svizzera inclusa. Se la distanza tra economie occidentali e paesi emergenti come la Cina, l’India e il Brasile si è raccorciata, il divario tra ricchi e poveri nelle economie avanzate è per contro cresciuto. Ormai, perfino istituzioni conservatrici come il Fondo monetario internazionale mettono in guardia da questo aumento delle disuguaglianze.
La polarizzazione tra chi ha e chi non ha, con la conseguente riduzione del peso sociale e economico del ceto medio, ha diverse sfacettature. La si ritrova nella distribuzione del reddito, con il 10% più ricco della popolazione che conta per una quota crescente (fino al 30 e oltre percento) del reddito nazionale. Ancora più marcata è la disuguaglianza nella distribuzione del patrimonio, ossia del capitale, con lo stesso 10% dei ricchi che detiene fino al 60% del capitale nazionale. Sotto questo profilo, la Svizzera si trova in testa alle classifiche mondiali. Se poi si guarda a quel famoso un percento dei più ricchi rispetto al restante 99% della popolazione, i dati statistici indicano una concentrazione fenomenale della ricchezza nelle mani di pochi.
Queste disuguaglianze si manifestano ormai tra le generazioni, nel senso che oggi un quarantenne guadagna mediamente meno di quanto guadagnava suo padre alla sua stessa età. Oltre a quella intergenerazionale, la disuguaglianza la si ritrova all’interno delle medesime generazioni, perché a parità di età, c’è chi beneficia di redditi elevati e chi invece percepisce redditi prossimi alla soglia di povertà.
Come spiegare questa perversa distribuzione dei redditi e della ricchezza? Proprio recentemente un economista francese, Thomas Piketty, ha pubblicato uno studio monumentale (Le capitalisme au XXI siècle) dal quale risulta che all’origine delle disuguaglianze crescenti si trova la concentrazione dei patrimoni. Secondo lo studio di Piketty, le rendite delle azioni, dei crediti o degli immobili oscillano tra il 4,5% e il 5% all’anno, mentre nel lungo periodo la crescita del Prodotto interno lordo si aggira tra l’1 e l’1,5%. Questo significa che il reddito da lavoro non riesce a tenere il passo di quello prodotto da patrimoni già accumulati. Si parla di “capitalismo patrimoniale”, fondato su capitali ereditati piuttosto che accumulati con impresa e lavoro. In questo modo, le disuguaglianze si riproducono per generazioni attraverso l’eredità, alla faccia delle promesse liberali secondo cui il libero mercato, le pari opportunità e la meritocrazia, garantiscono benessere per tutti.
Le disuguaglianze sono nocive da più punti di vista: frenano la crescita, perché impediscono a chi non ha di consumare in modo crescente, e generano rancore, quel sentimento di rabbia e di impotenza cavalcato un po’ ovunque dai movimenti di estrema destra.
E’ possibile correggere questa deriva? Secondo alcuni economisti occorrerebbe aumentare l’imposta patrimoniale e quella di successione, in modo da ridurre le disparità di partenza. Secondo altri, occorrerebbe un reddito di cittadinanza, specie in una fase in cui la crescita economica è anemica e le nuove innovazioni tecnologiche tendono a ridurre ulteriormente l’occupazione. Delle due l’una, piaccia o non piaccia.
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