L’eccesso di flessibilità del lavoro ha distrutto negli ultimi anni occupazione e produzione precarizzando non solo i lavoratori e la domanda, ma anche le imprese
Mi dice mio figlio che dovrei essere più flessibile con lui. Sostiene mia moglie, invece, che lo sono troppo. Certo, lei parla da genitore. Ma, mi domando: non sarebbe anche un ottimo ministro del lavoro?
E sì, perché se dovessi fare lo stesso ragionamento sullo sviluppo economico italiano dell’ultimo ventennio, e le trasformazioni del mercato del lavoro dovrei arrivare alla sua stessa conclusione: il troppo storpia, e l’eccesso di flessibilità del lavoro ha finito per distruggere l’occupazione medesima e la produzione; ha precarizzato non solo i lavoratori e la domanda, ma anche le imprese; ha annientato la capacità del Paese di investire, creare valore aggiunto, progresso tecnologico e reddito; ha prosciugato la base su cui poggiano le colonne dello stato sociale e del welfare.
Per essere concreto, dovrei riflettere sulla visione minimalista delle attuali politiche economiche, fiscali e monetarie, sulle discutibili privatizzazioni, sulla politica industriale (evocata e mai realizzata) e su quella del lavoro, ossia su ciò che denominiamo il “modello di sviluppo”. E la domanda - come si dice - sorge spontanea: ma in Italia negli ultimi due decenni abbiamo avuto un modello di sviluppo, o gli interventi sono stati solo estemporanei? E lo abbiamo oggi? La politica - quella con la p maiuscola - è stata capace di elaborare schemi interpretativi, che ponessero al centro della riflessione economica, e quindi come azioni di governo, il benessere della collettività, la crescita sostenibile e, dunque, il lavoro come manifestazione unica e particolare dell’uomo, e della sua dignità e realizzazione, anziché come scarno “input” produttivo? Amareggiato concludo, ovviamente, che non è così, e che la confusione regna sovrana.
Il dibattito politico di questi giorni non ci solleva, difatti, dallo sconforto. Come è possibile continuare a sostenere, nelle parole del Governo, che il Jobs Act risolverà in un sol colpo il problema dell’occupazione e della produttività, rilanciando la crescita?
La trovo una affermazione francamente curiosa perché i due fattori – produttività del lavoro e occupazione - sono legati tra loro, ma ahimè, in una relazione complessa che non sempre procede nella direzione auspicata. Per essere chiari, la produttività e l’occupazione determinano il Pil di un paese. E la produttività dipende dagli investimenti, dal progresso tecnologico, e anche dalla distribuzione del reddito. Perciò, le differenze nel Pil di diversi paesi – pensiamo a quelli dell’eurozona - dipendono dalle diverse composizioni di questi fattori. Per esempio, a parità di occupazione, due paesi potrebbero avere Pil diversi determinati dalla diversa produttività del lavoro.
Allora, guardo ai dati dell’economia italiana con attenzione – così come abbiamo fatto con V. Comito e N. Paci nel libro Un paese in bilico. L’Italia tra crisi del lavoro e vincoli dell’euro, (Ediesse, 2014) – ed emerge che in Italia la flessibilità del lavoro è aumentata dalla metà degli anni novanta per essere oramai da un decennio (secondo i dati Ocse sintetizzati nell’indice Epl, Employment protection legislation) la più alta tra i paesi europei continentali, e di gran lunga superiore a quella di Germania e Francia. Eppure, nel nostro paese la produttività del lavoro si è ridotta drammaticamente negli ultimi due decenni fino ad essere la più bassa tra i paesi economicamente avanzati; e l’occupazione, cresciuta negli anni Novanta, e fino alla fine del 2007, con i contratti atipici a seguito della deregolamentazione, è tornata prepotentemente a diminuire con la crisi, raggiungendo oramai livelli insostenibili, e accompagnandosi alla regressione continua della produttività.
Mi domando: cosa ha determinato questo declino strutturale? I dati raccontano una storia precisa. Tra il 1980 ed il 2013 in Italia il tasso di accumulazione del capitale si è ridotto, e con esso è diminuito il tasso di crescita dell’intensità di capitale (il rapporto tra capitale e lavoro) la cui media è passata dal 2.1% del periodo 1980-1993 all’0.92% del 1994-2013. I dati mostrano inoltre che a questa contrazione si è associata la rilevante flessione della produttività del lavoro la cui media è passata dal 1.65% del periodo 1980-1993 allo 0.31% del periodo 1995-2013. Anche l’indice del progresso tecnologico ha sofferto un drammatico calo e ha rallentato il suo ritmo di crescita, passando dallo 0.88 % del periodo 1980-1993 all’0.03% (praticamente il nulla!) del 1994-2013. Insomma, un netto declino, con un break strutturale tra il 1992 ed il 1993 (gli anni dell’avvio della moderazione salariale e del doppio livello di contrattazione) che travolge definitivamente il ritmo tendenziale di crescita della produttività del lavoro e delle sue componenti. Dunque, una storia in contrasto con le aspettative neoliberiste, con la flessibilità del lavoro e il contenimento salariale che non hanno risolto il problema della bassa produttività in Italia, ma l’hanno aggravato così che il ritmo di crescita continua a decelerare, segnando arretramenti sempre più marcati. E tutto in due decenni.
A questo punto, però, mi viene un dubbio. All’origine di questa eterogenesi dei fini – una riforma del mercato del lavoro che invece di favorire lo sviluppo ha penalizzato l’accumulazione e la produttività – c’è un “errore” tanto clamoroso quanto grave da risultare incomprensibile: la scelta di (contro)riformare il solo mercato del lavoro, anziché procedere nella parallela riorganizzazione dell’apparato produttivo, richiamando le imprese alla loro responsabilità economica e sociale, perché si fosse in grado di rispondere alla sfida della globalizzazione e dell’euro. Così, in questo vuoto politico, imprenditoriale e strategico, la moderazione salariale e la deregolamentazione del lavoro hanno avuto l’effetto di ridistribuire il reddito nazionale dal lavoro ai profitti, e di alimentare il circuito perverso che incentiva le imprese a spostarsi verso i settori ad alta intensità di lavoro ma a basso contenuto tecnologico e valore aggiunto, e verso le piccole dimensioni e i settori tradizionali, dove prevale l’uso dell’occupazione non qualificata, e dove, di conseguenza, è scarsa la produttività.
Insomma, la trappola della flessibilità, sostituendo il lavoro (poco qualificato) al capitale e alla tecnologia, ed erodendo, perciò, la produttività, mantiene oggi le imprese (in particolare quelle piccole e piccolissime, che sono pari al 95% del totale) in uno stato di precaria sopravvivenza, con il rischio concreto di veder disintegrare il sistema produttivo e occupazionale italiano in tempi brevissimi se non si fuoriesce da questa traiettoria declinante.
È alla luce di queste considerazioni che, con perplessità, rifletto sul Jobs Act. Vanno creati nuovi posti di lavoro, non c’è dubbio. Tuttavia, non è flessibilizzando ulteriormente il lavoro che si crea occupazione buona e stabile. C’è bisogno urgente di investimenti, ricerca, specializzazione e tecnologia. La trappola della flessibilità crea, difatti, occupazione solo transitoria; la consuma, e poi la espelle, seppellendo, insieme ai posti di lavoro, le stesse imprese sempre più incapaci di competere lungo la scala della produttività e dell’innovazione.
Ha proprio ragione mia moglie: è una questione di troppa di flessibilità.
E sì, perché se dovessi fare lo stesso ragionamento sullo sviluppo economico italiano dell’ultimo ventennio, e le trasformazioni del mercato del lavoro dovrei arrivare alla sua stessa conclusione: il troppo storpia, e l’eccesso di flessibilità del lavoro ha finito per distruggere l’occupazione medesima e la produzione; ha precarizzato non solo i lavoratori e la domanda, ma anche le imprese; ha annientato la capacità del Paese di investire, creare valore aggiunto, progresso tecnologico e reddito; ha prosciugato la base su cui poggiano le colonne dello stato sociale e del welfare.
Per essere concreto, dovrei riflettere sulla visione minimalista delle attuali politiche economiche, fiscali e monetarie, sulle discutibili privatizzazioni, sulla politica industriale (evocata e mai realizzata) e su quella del lavoro, ossia su ciò che denominiamo il “modello di sviluppo”. E la domanda - come si dice - sorge spontanea: ma in Italia negli ultimi due decenni abbiamo avuto un modello di sviluppo, o gli interventi sono stati solo estemporanei? E lo abbiamo oggi? La politica - quella con la p maiuscola - è stata capace di elaborare schemi interpretativi, che ponessero al centro della riflessione economica, e quindi come azioni di governo, il benessere della collettività, la crescita sostenibile e, dunque, il lavoro come manifestazione unica e particolare dell’uomo, e della sua dignità e realizzazione, anziché come scarno “input” produttivo? Amareggiato concludo, ovviamente, che non è così, e che la confusione regna sovrana.
Il dibattito politico di questi giorni non ci solleva, difatti, dallo sconforto. Come è possibile continuare a sostenere, nelle parole del Governo, che il Jobs Act risolverà in un sol colpo il problema dell’occupazione e della produttività, rilanciando la crescita?
La trovo una affermazione francamente curiosa perché i due fattori – produttività del lavoro e occupazione - sono legati tra loro, ma ahimè, in una relazione complessa che non sempre procede nella direzione auspicata. Per essere chiari, la produttività e l’occupazione determinano il Pil di un paese. E la produttività dipende dagli investimenti, dal progresso tecnologico, e anche dalla distribuzione del reddito. Perciò, le differenze nel Pil di diversi paesi – pensiamo a quelli dell’eurozona - dipendono dalle diverse composizioni di questi fattori. Per esempio, a parità di occupazione, due paesi potrebbero avere Pil diversi determinati dalla diversa produttività del lavoro.
Allora, guardo ai dati dell’economia italiana con attenzione – così come abbiamo fatto con V. Comito e N. Paci nel libro Un paese in bilico. L’Italia tra crisi del lavoro e vincoli dell’euro, (Ediesse, 2014) – ed emerge che in Italia la flessibilità del lavoro è aumentata dalla metà degli anni novanta per essere oramai da un decennio (secondo i dati Ocse sintetizzati nell’indice Epl, Employment protection legislation) la più alta tra i paesi europei continentali, e di gran lunga superiore a quella di Germania e Francia. Eppure, nel nostro paese la produttività del lavoro si è ridotta drammaticamente negli ultimi due decenni fino ad essere la più bassa tra i paesi economicamente avanzati; e l’occupazione, cresciuta negli anni Novanta, e fino alla fine del 2007, con i contratti atipici a seguito della deregolamentazione, è tornata prepotentemente a diminuire con la crisi, raggiungendo oramai livelli insostenibili, e accompagnandosi alla regressione continua della produttività.
Mi domando: cosa ha determinato questo declino strutturale? I dati raccontano una storia precisa. Tra il 1980 ed il 2013 in Italia il tasso di accumulazione del capitale si è ridotto, e con esso è diminuito il tasso di crescita dell’intensità di capitale (il rapporto tra capitale e lavoro) la cui media è passata dal 2.1% del periodo 1980-1993 all’0.92% del 1994-2013. I dati mostrano inoltre che a questa contrazione si è associata la rilevante flessione della produttività del lavoro la cui media è passata dal 1.65% del periodo 1980-1993 allo 0.31% del periodo 1995-2013. Anche l’indice del progresso tecnologico ha sofferto un drammatico calo e ha rallentato il suo ritmo di crescita, passando dallo 0.88 % del periodo 1980-1993 all’0.03% (praticamente il nulla!) del 1994-2013. Insomma, un netto declino, con un break strutturale tra il 1992 ed il 1993 (gli anni dell’avvio della moderazione salariale e del doppio livello di contrattazione) che travolge definitivamente il ritmo tendenziale di crescita della produttività del lavoro e delle sue componenti. Dunque, una storia in contrasto con le aspettative neoliberiste, con la flessibilità del lavoro e il contenimento salariale che non hanno risolto il problema della bassa produttività in Italia, ma l’hanno aggravato così che il ritmo di crescita continua a decelerare, segnando arretramenti sempre più marcati. E tutto in due decenni.
A questo punto, però, mi viene un dubbio. All’origine di questa eterogenesi dei fini – una riforma del mercato del lavoro che invece di favorire lo sviluppo ha penalizzato l’accumulazione e la produttività – c’è un “errore” tanto clamoroso quanto grave da risultare incomprensibile: la scelta di (contro)riformare il solo mercato del lavoro, anziché procedere nella parallela riorganizzazione dell’apparato produttivo, richiamando le imprese alla loro responsabilità economica e sociale, perché si fosse in grado di rispondere alla sfida della globalizzazione e dell’euro. Così, in questo vuoto politico, imprenditoriale e strategico, la moderazione salariale e la deregolamentazione del lavoro hanno avuto l’effetto di ridistribuire il reddito nazionale dal lavoro ai profitti, e di alimentare il circuito perverso che incentiva le imprese a spostarsi verso i settori ad alta intensità di lavoro ma a basso contenuto tecnologico e valore aggiunto, e verso le piccole dimensioni e i settori tradizionali, dove prevale l’uso dell’occupazione non qualificata, e dove, di conseguenza, è scarsa la produttività.
Insomma, la trappola della flessibilità, sostituendo il lavoro (poco qualificato) al capitale e alla tecnologia, ed erodendo, perciò, la produttività, mantiene oggi le imprese (in particolare quelle piccole e piccolissime, che sono pari al 95% del totale) in uno stato di precaria sopravvivenza, con il rischio concreto di veder disintegrare il sistema produttivo e occupazionale italiano in tempi brevissimi se non si fuoriesce da questa traiettoria declinante.
È alla luce di queste considerazioni che, con perplessità, rifletto sul Jobs Act. Vanno creati nuovi posti di lavoro, non c’è dubbio. Tuttavia, non è flessibilizzando ulteriormente il lavoro che si crea occupazione buona e stabile. C’è bisogno urgente di investimenti, ricerca, specializzazione e tecnologia. La trappola della flessibilità crea, difatti, occupazione solo transitoria; la consuma, e poi la espelle, seppellendo, insieme ai posti di lavoro, le stesse imprese sempre più incapaci di competere lungo la scala della produttività e dell’innovazione.
Ha proprio ragione mia moglie: è una questione di troppa di flessibilità.
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