di Nicola Tranfaglia
Fonte: Il Manifesto
È facile di questi tempi trovare chi pensa che le scelte della Fiat a Pomigliano, a Termoli e negli altri stabilimenti della penisola siano espressione di una politica capitalistica moderna e adeguata alla crisi economica europea. Oppure che la scelta, solo in apparenza estemporanea, di portare la produzione della nuova monovolume in Serbia piuttosto che a Torino Mirafiori, rappresenti soltanto una variazione sul tema e non il perseguimento coerente del progetto di Marchionne di smantellare dopo la chiusura già decisa di Termini Imerese nel 2012, tutte le produzioni italiane.
Fonte: Il Manifesto
È facile di questi tempi trovare chi pensa che le scelte della Fiat a Pomigliano, a Termoli e negli altri stabilimenti della penisola siano espressione di una politica capitalistica moderna e adeguata alla crisi economica europea. Oppure che la scelta, solo in apparenza estemporanea, di portare la produzione della nuova monovolume in Serbia piuttosto che a Torino Mirafiori, rappresenti soltanto una variazione sul tema e non il perseguimento coerente del progetto di Marchionne di smantellare dopo la chiusura già decisa di Termini Imerese nel 2012, tutte le produzioni italiane.
Per fortuna in nuovo attacco della Fiat non ha colto di sorpresa né la Cgil né il comune di Torino.Ma questo fraintendimento politico è possibile soltanto perché il nostro è un paese senza memoria: le classi dirigenti delle generazioni più anziane non sono riuscite a comunicare alle nuove la vicenda centrale dell'industrializzazione italiana, delle lotte operaie e contadine, delle conquiste che hanno cambiato il nostro paese negli anni sessanta ed hanno proposto un modello di capitalismo, almeno in parte, rispettoso dei principi costituzionali e dei diritti dei lavoratori.
E' quel capitalismo che ha recepito lo Statuto dei lavoratori e ha ottenuto che le imprese, come afferma la costituzione, tenessero conto delle esigenze poste dagli interessi generali della comunità sociale nella nostra economia.
Non è un caso che oggi l'attacco della destra berlusconiana cerca di intervenire contro lo Statuto dei Lavoratori e gli articoli della costituzione 40-43 che si occupano dei limiti alle imprese economiche.
In altri termini la Fiat vuole approfittare della crisi europea e italiana per ritornare a un capitalismo che mette da parte ogni limite e ha un dominio assoluto sui lavoratori come sulla gestione delle imprese. Lo scorporo, appena avvenuto, del settore auto dalle altre aziende contribuisce a un simile obbiettivo.
E' necessario poter licenziare gli operai che non accettano il ritorno a quel modello di capitalismo e l'esempio, appena dato, di cinque operai licenziati nell'ultima settimana, va nella stessa direzione.
Ma questo serve in primo luogo per accrescere il profitto dell'impresa, per ritornare all'utile dopo alcuni anni, come dicono oggi i portavoce della Fiat o è piuttosto un aspetto cruciale, centrale del modello di capitalismo che si vuole restaurare?
Credo proprio che si tratti della seconda ipotesi: senza operai che accettano l'accantonamento della Costituzione e delle leggi repubblicane approvate nei decenni dalle lotte sociali è impossibile ritornare a quel modello di capitalismo degli anni cinquanta che ora riemerge con forza dalla politica Fiat.
Quel capitalismo prevede appunto i licenziamenti operai e la fine dell'ordinamento costituzionale del 1948. E questo, come direbbero Quagliariello o Gasparri, rientra appieno nel programma elettorale della coalizione formata da Berlusconi nel 2008 come in quella del 1994 e del 2001.
Un modello che ha come precedente decisivo il Piano di Rinascita Democratica della P2 di Licio Gelli, e che riemerge tutte le volte che l'imprenditore di Arcore raggiunge il potere. Fino a quando le opposizioni non comprendono il legame di fondo che tiene unite la questione sociale e quella politico-costituzionale, sarà sempre Berlusconi a tenere il bandolo della matassa e a mantenere la sua egemonia culturale nel nostro paese.
E intanto la distanza economica tra Nord e Sud aumenta anche se l'impoverimento degli italiani riguarda tutto il paese che avrà sempre di più, i pochi soliti noti sempre più ricchi, e la drammatica discesa nella povertà di tutti gli altri.
Il partito democratico, che oggi continua ad essere la forza maggiore del centro-sinistra, non ha ancora fatto una scelta chiara a questo proposito, o almeno non la ha esplicitata.
Ma bisogna invece farla con chiarezza.
Soltanto se ci si batte, nello stesso tempo, per la difesa della Costituzione repubblicana, per i principi della democrazia moderna e per una soluzione della questione sociale, soltanto se si portano in primo piano i diritti delle masse lavoratrici e la difesa dello Statuto dei lavoratori come dei principi costituzionali potremo pensare di sconfiggere il modello piduista e convincere gli italiani a scegliere il centro-sinistra come alternativa effettiva al populismo autoritario impersonato da Berlusconi e dalle forze che lo sostengono.
Non esistono possibilità di accordi stabili con chi, come Casini, cerca disperatamente di essere al centro di uno schieramento politico scompaginato dal populismo e sostenuto dalla Confindustria di Emma Marcegaglia senza esitazioni. Ma gli elettori della destra oggi sono divisi e possono essere convinti - tanti anche se non tutti - a ripudiare finalmente un modello come quello berlusconiano, profondamente antidemocratico.
Un modello che si pone esplicitamente contro le tradizioni democratiche e repubblicane che hanno percorso, in tanti momenti importanti, la nostra storia e ne hanno fatto il paese che, malgrado tutto, amiamo.
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