Scritto da Marino Badiale. Fonte: megacip
Raccomandiamo la lettura del fondo di Angelo Panebianco su “I nemici della crescita” («Corriere della Sera» del 27 gennaio) a chiunque nutra dei dubbi sull'assurdità della crescita. Per sostenere la necessità della crescita e dei sacrifici in suo nome Panebianco è costretto a omissioni, ammissioni e a vere e proprie assurdità, che nel complesso mostrano come sia impossibile sostenere in modo razionale il mito della crescita, nella situazione attuale.
Cominciamo dalle assurdità: la crescita è necessaria, ci spiega Panebianco, perché “senza crescita, una società consuma più ricchezza di quanta ne produce e finisce su un piano inclinato al termine del quale ci può essere solo un impoverimento complessivo”.
Si tratta di affermazioni evidentemente false: è ovvio che una società si impoverisce se consuma più di quanto produce, ma questo non c'entra nulla con la crescita, c'entra appunto con la differenza fra la produzione e il consumo. Se un anno produco 100 e consumo 100, non mi impoverisco, che ci sia stata crescita oppure no rispetto all'anno precedente. Se un anno produco 100 e l'anno successivo produco 120 ma consumo 130, c'è stata crescita ma mi sono impoverito. E' perfettamente possibile pensare ad una società stazionaria, nella quale ogni anno si produce la stessa ricchezza dell'anno precedente e se ne consuma un po' meno: non c'è crescita, ma la società si arricchisce.
L'assurdità dell'affermazione di Panebianco appare in tutta la sua solare evidenza se la traduciamo sul piano individuale: “se il mio stipendio non aumenta ogni mese, mi impoverisco, perché spendo di più di quel che guadagno”. Tutti coloro che lavorano a stipendio fisso possono capire quanto razionali siano le argomentazioni di Panebianco.
Passiamo alle omissioni: parlando della vicenda Fiat e del conflitto con la Fiom, Panebianco spiega che “la ristrutturazione in atto sembra andare nella direzione giusta: attrezzando le imprese per la competizione globale essa spinge sul pedale della crescita”. Panebianco omette ogni riferimento alle molte critiche, ben argomentate, prodotte negli ultimi mesi nei confronti dell'azione di Marchionne proprio dal punto di vista dell'adeguatezza di tale azione per un serio rilancio degli stabilimenti Fiat in Italia, critiche che riguardano la mancanza di un piano industriale, il fatto che non sono previsti nuovi modelli, le perplessità sul rilancio produttivo di un settore ormai maturo. Un buon esempio di queste critiche è costituito dai molti articoli che Guido Viale sul «Manifesto» ha dedicato alla vicenda (ci permettiamo un suggerimento alla Fiom: perché non raccogliere questi articoli e farne un opuscolo?).
Allo stesso modo, Panebianco omette ogni informazione sui contenuti concreti dell'accordo di Mirafiori. In particolare, silenzio sul fatto che i rappresentanti sindacali non saranno più eletti dai lavoratori, ma nominati dai vertici sindacali e solo dai sindacati firmatari dell'accordo. Per chi si dichiara liberale, un’omissione non da poco.
Ma veniamo infine alle ammissioni di Panebianco, forse la cosa più interessante dell'articolo. Panebianco distingue fra le imprese che si danno da fare “per competere sui mercati globali” e gli altri attori sociali, che non sono esposti in prima linea, non si rendono conto delle necessità della competizione, ma devono tuttavia ad essa adeguare il loro comportamento. Se si vuole la crescita, ci dice Panebianco, occorre che ogni ambito sociale si faccia carico delle necessità della competizione, sia quindi funzionale al sistema della imprese globalizzate. Purtroppo in Italia non è (ancora) così. Ci sono ancora operai che difendono la propria dignità e la propria salute. Ci sono ancora insegnanti che pensano allo sviluppo umano e culturale dei propri allievi, e non al fatto che dovranno competere. C'è ancora qualche studioso che si occupa di un manoscritto antico o di un recente teorema per passione di ragione, e non per le necessità della competizione globale. C'è ancora qualche infermiera che ha cura dei malati per senso del dovere e solidarietà umana, e non per aumentare il Pil.
Tutto questo deve finire, se vogliamo la crescita, ci spiega Panebianco. Ma come spazzare via queste resistenze?
Panebianco cita con favore l'economista Mancur Olson, che a suo tempo spiegò i grandi risultati economici di Germania, Italia e Giappone negli anni Cinquanta in questo modo: “in quei tre paesi la guerra non si era limitata a distruggere le infrastrutture materiali. Ne aveva anche distrutto le infrastrutture sociali”. Non si poteva dire meglio. Grazie a Dio ogni tanto c'è la guerra che massacra la società e rende possibile la crescita.
Ecco cosa ci suggerisce Panebianco: se vogliamo la crescita è necessaria una distruzione sociale, una devastazione dei rapporti umani, un abbrutimento generalizzato paragonabile a quello di una guerra come la Seconda Guerra Mondiale. Non si poteva dire meglio, e non c'è che da ringraziare Panebianco per la sua chiarezza. Adesso ci è più chiaro perché siamo nemici della crescita, e chi sono i nemici del genere umano.
L'assurdità dell'affermazione di Panebianco appare in tutta la sua solare evidenza se la traduciamo sul piano individuale: “se il mio stipendio non aumenta ogni mese, mi impoverisco, perché spendo di più di quel che guadagno”. Tutti coloro che lavorano a stipendio fisso possono capire quanto razionali siano le argomentazioni di Panebianco.
Passiamo alle omissioni: parlando della vicenda Fiat e del conflitto con la Fiom, Panebianco spiega che “la ristrutturazione in atto sembra andare nella direzione giusta: attrezzando le imprese per la competizione globale essa spinge sul pedale della crescita”. Panebianco omette ogni riferimento alle molte critiche, ben argomentate, prodotte negli ultimi mesi nei confronti dell'azione di Marchionne proprio dal punto di vista dell'adeguatezza di tale azione per un serio rilancio degli stabilimenti Fiat in Italia, critiche che riguardano la mancanza di un piano industriale, il fatto che non sono previsti nuovi modelli, le perplessità sul rilancio produttivo di un settore ormai maturo. Un buon esempio di queste critiche è costituito dai molti articoli che Guido Viale sul «Manifesto» ha dedicato alla vicenda (ci permettiamo un suggerimento alla Fiom: perché non raccogliere questi articoli e farne un opuscolo?).
Allo stesso modo, Panebianco omette ogni informazione sui contenuti concreti dell'accordo di Mirafiori. In particolare, silenzio sul fatto che i rappresentanti sindacali non saranno più eletti dai lavoratori, ma nominati dai vertici sindacali e solo dai sindacati firmatari dell'accordo. Per chi si dichiara liberale, un’omissione non da poco.
Ma veniamo infine alle ammissioni di Panebianco, forse la cosa più interessante dell'articolo. Panebianco distingue fra le imprese che si danno da fare “per competere sui mercati globali” e gli altri attori sociali, che non sono esposti in prima linea, non si rendono conto delle necessità della competizione, ma devono tuttavia ad essa adeguare il loro comportamento. Se si vuole la crescita, ci dice Panebianco, occorre che ogni ambito sociale si faccia carico delle necessità della competizione, sia quindi funzionale al sistema della imprese globalizzate. Purtroppo in Italia non è (ancora) così. Ci sono ancora operai che difendono la propria dignità e la propria salute. Ci sono ancora insegnanti che pensano allo sviluppo umano e culturale dei propri allievi, e non al fatto che dovranno competere. C'è ancora qualche studioso che si occupa di un manoscritto antico o di un recente teorema per passione di ragione, e non per le necessità della competizione globale. C'è ancora qualche infermiera che ha cura dei malati per senso del dovere e solidarietà umana, e non per aumentare il Pil.
Tutto questo deve finire, se vogliamo la crescita, ci spiega Panebianco. Ma come spazzare via queste resistenze?
Panebianco cita con favore l'economista Mancur Olson, che a suo tempo spiegò i grandi risultati economici di Germania, Italia e Giappone negli anni Cinquanta in questo modo: “in quei tre paesi la guerra non si era limitata a distruggere le infrastrutture materiali. Ne aveva anche distrutto le infrastrutture sociali”. Non si poteva dire meglio. Grazie a Dio ogni tanto c'è la guerra che massacra la società e rende possibile la crescita.
Ecco cosa ci suggerisce Panebianco: se vogliamo la crescita è necessaria una distruzione sociale, una devastazione dei rapporti umani, un abbrutimento generalizzato paragonabile a quello di una guerra come la Seconda Guerra Mondiale. Non si poteva dire meglio, e non c'è che da ringraziare Panebianco per la sua chiarezza. Adesso ci è più chiaro perché siamo nemici della crescita, e chi sono i nemici del genere umano.
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