di Augusto Illuminati. Fonte: sinistrainrete
Cos’è questo rumore sordo di sottofondo, che impercettibilmente cresce soffocando le strida viola di giubilo su via del Plebiscito e davanti al Quirinale? Perché le fattezze oneste e non mascarate di Monti si sbozzano sul disco bluastro di un pianeta in avvicinamento? L’impatto ormai imminente è non con la crisi, ma peggio: con la cura della crisi. La cura presunta, s’intende, quella che ci vorrebbero propinare i responsabili della crisi secondo il discusso metodo omeopatico di Hahnemann, secondo il quale (wiki-citazione) il rimedio appropriato per una determinata malattia sarebbe dato da quella sostanza che, in una persona sana, induce sintomi simili a quelli osservati nella persona malata. Con l’unica differenza che il rimedio è somministrato in dose non diluita bensì concentrata. I precari rischiano di non avere pensioni? Tagliamo quelle dei nonni e dei padri che al momento li mantengono. I giovani sono disoccupati? Rendiamo più facili i licenziamenti degli occupati. Gli speculatori ci strozzano con il debito? Inseriamo in Costituzione l’obbligo di restituire i debiti. Il territorio si sfascia? Rendiamo costituzionalmente lecito fare di tutto e costruire per ogni dove. La crisi è pilotata dalla Goldmann Sachs? Piazziamo ai vertici europei e italiani i suoi esponenti.
I bocconiani che non hanno minimamente previsto la crisi dovrebbero fungere da medici. Come se non ci avessimo già provato con la finanza creativa di Tremonti. Più liberismo guarirà i mali del liberismo. In questo folle vortice –qui sta la differenza– ci precipitiamo con il consenso bipartisan di destra e sinistra (compreso chi, come Vendola, non deve manco votare Monti in Parlamento). O meglio: la sinistra ci si butta con entusiasmo, seguendo i consigli presidenziali e timorosa di vincere in elezioni anticipate, la destra fa il doppio gioco, strillando al tradimento, allo stato di necessità (per evitare il crollo delle azioni Mediaset e Mediolanum), riservandosi di scatenare una campagna contro i tagli, contro l’euro, contro i cattivi di Europa, Bce e Fmi, confidando magari in una rimonta elettorale a giugno 2012.
C’è dell’altro (e ovviamente anche qui la destra bavosa e sconfitta ci intinge il pane). L’esproprio di democrazia e di quel tanto che restava di (non rimpianta) sovranità nazionale è più che evidente e d’altronde il caso greco l’aveva anticipato. Il ricambio di un ceto politico corrotto e fallimentare ci è stato imposto dall’esterno –in apparenza da Merkel e Sarkozy, in realtà da Obama (come molti vecchi contrasti, da Putin a Gheddafi, lasciavano capire non da ieri)– e un pronunciamento democratico è stato esorcizzato con lo spauracchio dello schizzare verso l’alto degli spread. Si trattasse delle elezioni in Italia o del referendum in Grecia. Un trattamento molto più umiliante di quello imposto a Portogallo e Spagna, dove almeno si è votato o si sta per votare. Mai come ora balza agli occhi l’opposizione fra tecnocrazia finanziaria e democrazia. Non nel senso che quella rappresentativa o referendaria sia un’alternativa ai poteri forti, ma perché in forma pallida e derivata alludono alla possibilità che un giorno, in altre forme, la moltitudine possa dire la sua e farla valere. Detto brutalmente: paura delle masse. Nell’elastica governance odierna come nella sovranità di un tempo, in una logica della rappresentanza pacificatrice che è arrivata ad aver paura perfino dei tradizionali meccanismi di delega.
La risposta a tutto ciò non può essere né moderata né nazionale. Anche se le elezioni subito sarebbero preferibili alla dittatura tecnocratica e ai suoi effetti di intorpidimento, questo non vuol dire riabilitare la rappresentanza e fomentare illusioni elettoralistiche. L’unica strada è quella delle lotte moltitudinarie, del rilancio del conflitto irrappresentabile, dell’ambizione costituente, di una Terza Repubblica del comune. Un progetto che non resta dentro una cornice sovrana, ma dilaga su scala europea e guarda ai Brics più che agli Usa di Obama, ma in primo luogo agli #Occupy. Non vogliamo certo infognarci nella coppia simmetrica di una governamentalità affidata ai tecnici e di una rabbia sociale da mettere in forma, bensì far scaturire istituzioni dai tumulti, gestire le contraddizioni in modalità politica diretta, considerando esaurito il ruolo dei partiti e del loro ceto parlamentare ed extra-parlamentare. Il Pd ha paura delle elezioni perché non vuole le primarie e non riesce a definire uno schema di alleanze, Di Pietro le chiede per mantenere la sua forza contrattuale mettendo i piedi in due staffe (minaccia il voto per accrescere i consensi, promette sostegno a Monti per non rompere con il Pd), Vendola accetta in sostanza il governo tecnico illudendosi di avere le elezioni (e pure le primarie, wow!) fra qualche mese. Tutti interlocutori contingentemente poco affidabili oltre che storicamente falliti. Con l’unica prospettiva di un generale spostamento verso il centro e una nuova egemonia di stampo democristiano, in cui perfino Bersani e Veltroni saranno periferici.
Facciamo infine attenzione a destra. Non tanto a un’improbabile resurrezione del lagnoso videomessaggero Berlusconi (a Lazzaro, come si dice a Oxford, non gli si rizza più), ma alle venature naziste che affiorano fra gli schiamazzanti ultras berlusconiani e cui Giuliano Ferrara conferisce una patina nobilitante e mobilitante. Mitologia della pugnalata alla schiena, avversione alla globalizzazione e all’Europa plutocratica e dei banchieri (solo il sionismo fanatico del «Foglio» trattiene la nefasta aggiunta “giudeo”, che altri cominciano a pronunciare), fantasie sull’uscita dall’euro, rivendicazioni sovraniste. Qualcosa di più di una tattica demagogica per le elezioni anticipate e la rivincita facendo leva sullo scontento per le misure dettate dalla Bce, dal “nano sarcastico” francese e dalla “culona inchiavabile” tedesca. Con l’approfondirsi della crisi, il fallimento delle ricette liberiste e la subalternità delle sinistre potrebbero delinearsi rischi al momento imprevedibili. Vogliamo ricordare quanto l’ortodossia monetaria del socialdemocratico Hilferding, sotto le pressioni internazionali (il ricatto del piano Young) e in contrasto con il keynesismo nazionalista di Schacht scatenò la rabbia dei disoccupati tedeschi che andarono dopo la crisi del 1929 a ingrossare le file hitleriane? Non ci fa fischiare un pochino le orecchie? Almeno quanto il rombo crescente del pianeta Melancholia?
Cos’è questo rumore sordo di sottofondo, che impercettibilmente cresce soffocando le strida viola di giubilo su via del Plebiscito e davanti al Quirinale? Perché le fattezze oneste e non mascarate di Monti si sbozzano sul disco bluastro di un pianeta in avvicinamento? L’impatto ormai imminente è non con la crisi, ma peggio: con la cura della crisi. La cura presunta, s’intende, quella che ci vorrebbero propinare i responsabili della crisi secondo il discusso metodo omeopatico di Hahnemann, secondo il quale (wiki-citazione) il rimedio appropriato per una determinata malattia sarebbe dato da quella sostanza che, in una persona sana, induce sintomi simili a quelli osservati nella persona malata. Con l’unica differenza che il rimedio è somministrato in dose non diluita bensì concentrata. I precari rischiano di non avere pensioni? Tagliamo quelle dei nonni e dei padri che al momento li mantengono. I giovani sono disoccupati? Rendiamo più facili i licenziamenti degli occupati. Gli speculatori ci strozzano con il debito? Inseriamo in Costituzione l’obbligo di restituire i debiti. Il territorio si sfascia? Rendiamo costituzionalmente lecito fare di tutto e costruire per ogni dove. La crisi è pilotata dalla Goldmann Sachs? Piazziamo ai vertici europei e italiani i suoi esponenti.
I bocconiani che non hanno minimamente previsto la crisi dovrebbero fungere da medici. Come se non ci avessimo già provato con la finanza creativa di Tremonti. Più liberismo guarirà i mali del liberismo. In questo folle vortice –qui sta la differenza– ci precipitiamo con il consenso bipartisan di destra e sinistra (compreso chi, come Vendola, non deve manco votare Monti in Parlamento). O meglio: la sinistra ci si butta con entusiasmo, seguendo i consigli presidenziali e timorosa di vincere in elezioni anticipate, la destra fa il doppio gioco, strillando al tradimento, allo stato di necessità (per evitare il crollo delle azioni Mediaset e Mediolanum), riservandosi di scatenare una campagna contro i tagli, contro l’euro, contro i cattivi di Europa, Bce e Fmi, confidando magari in una rimonta elettorale a giugno 2012.
C’è dell’altro (e ovviamente anche qui la destra bavosa e sconfitta ci intinge il pane). L’esproprio di democrazia e di quel tanto che restava di (non rimpianta) sovranità nazionale è più che evidente e d’altronde il caso greco l’aveva anticipato. Il ricambio di un ceto politico corrotto e fallimentare ci è stato imposto dall’esterno –in apparenza da Merkel e Sarkozy, in realtà da Obama (come molti vecchi contrasti, da Putin a Gheddafi, lasciavano capire non da ieri)– e un pronunciamento democratico è stato esorcizzato con lo spauracchio dello schizzare verso l’alto degli spread. Si trattasse delle elezioni in Italia o del referendum in Grecia. Un trattamento molto più umiliante di quello imposto a Portogallo e Spagna, dove almeno si è votato o si sta per votare. Mai come ora balza agli occhi l’opposizione fra tecnocrazia finanziaria e democrazia. Non nel senso che quella rappresentativa o referendaria sia un’alternativa ai poteri forti, ma perché in forma pallida e derivata alludono alla possibilità che un giorno, in altre forme, la moltitudine possa dire la sua e farla valere. Detto brutalmente: paura delle masse. Nell’elastica governance odierna come nella sovranità di un tempo, in una logica della rappresentanza pacificatrice che è arrivata ad aver paura perfino dei tradizionali meccanismi di delega.
La risposta a tutto ciò non può essere né moderata né nazionale. Anche se le elezioni subito sarebbero preferibili alla dittatura tecnocratica e ai suoi effetti di intorpidimento, questo non vuol dire riabilitare la rappresentanza e fomentare illusioni elettoralistiche. L’unica strada è quella delle lotte moltitudinarie, del rilancio del conflitto irrappresentabile, dell’ambizione costituente, di una Terza Repubblica del comune. Un progetto che non resta dentro una cornice sovrana, ma dilaga su scala europea e guarda ai Brics più che agli Usa di Obama, ma in primo luogo agli #Occupy. Non vogliamo certo infognarci nella coppia simmetrica di una governamentalità affidata ai tecnici e di una rabbia sociale da mettere in forma, bensì far scaturire istituzioni dai tumulti, gestire le contraddizioni in modalità politica diretta, considerando esaurito il ruolo dei partiti e del loro ceto parlamentare ed extra-parlamentare. Il Pd ha paura delle elezioni perché non vuole le primarie e non riesce a definire uno schema di alleanze, Di Pietro le chiede per mantenere la sua forza contrattuale mettendo i piedi in due staffe (minaccia il voto per accrescere i consensi, promette sostegno a Monti per non rompere con il Pd), Vendola accetta in sostanza il governo tecnico illudendosi di avere le elezioni (e pure le primarie, wow!) fra qualche mese. Tutti interlocutori contingentemente poco affidabili oltre che storicamente falliti. Con l’unica prospettiva di un generale spostamento verso il centro e una nuova egemonia di stampo democristiano, in cui perfino Bersani e Veltroni saranno periferici.
Facciamo infine attenzione a destra. Non tanto a un’improbabile resurrezione del lagnoso videomessaggero Berlusconi (a Lazzaro, come si dice a Oxford, non gli si rizza più), ma alle venature naziste che affiorano fra gli schiamazzanti ultras berlusconiani e cui Giuliano Ferrara conferisce una patina nobilitante e mobilitante. Mitologia della pugnalata alla schiena, avversione alla globalizzazione e all’Europa plutocratica e dei banchieri (solo il sionismo fanatico del «Foglio» trattiene la nefasta aggiunta “giudeo”, che altri cominciano a pronunciare), fantasie sull’uscita dall’euro, rivendicazioni sovraniste. Qualcosa di più di una tattica demagogica per le elezioni anticipate e la rivincita facendo leva sullo scontento per le misure dettate dalla Bce, dal “nano sarcastico” francese e dalla “culona inchiavabile” tedesca. Con l’approfondirsi della crisi, il fallimento delle ricette liberiste e la subalternità delle sinistre potrebbero delinearsi rischi al momento imprevedibili. Vogliamo ricordare quanto l’ortodossia monetaria del socialdemocratico Hilferding, sotto le pressioni internazionali (il ricatto del piano Young) e in contrasto con il keynesismo nazionalista di Schacht scatenò la rabbia dei disoccupati tedeschi che andarono dopo la crisi del 1929 a ingrossare le file hitleriane? Non ci fa fischiare un pochino le orecchie? Almeno quanto il rombo crescente del pianeta Melancholia?
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