Negli ultimi anni in Italia si è parlato tantissimo di "modello tedesco" e della necessità di conformarsi a questo virtuoso sistema di relazioni industriali e sociali per uscire dalla crisi e riprendere a "crescere". Ma, a voler andare al di là dei proclami populisti dei leader dei maggiori partiti e di quell'attitudine rinunciataria a scegliere solo in quale paradiso dell'occupazione e degli alti salari dovremmo emigrare, ci sono cifre che parlano chiaro.
Non ci riferiamo ai dati sulla disoccupazione in aumento in tutta l'Eurozona o al calo della produzione industriale che ci sembrano restituire una realtà molto meno rosea di quella che ci presentano i media.
Ci riferiamo soprattutto al fatto che in Germania, negli ultimi anni, è aumentato a dismisura il numero di "mini-jobber", cioè di persone impiegate in lavori che di norma prevedono una retribuzione non superiore ai 450 euro mensili. Si tratterebbe di circa 5 milioni di persone, soprattutto donne (circa il 63% del totale), come sempre costrette a fronteggiare più difficoltà degli omologhi maschi nel trovare lavoro e peggiori condizioni una volta che l'impiego lo si è trovato.
Ma il numero cresce ancora - fino a 7 milioni - se si includono i tantissimi lavoratori che sono costretti a integrare il salario percepito per prestazioni di lavoro "normali" con un salario da mini-job. A dimostrazione del fatto che la locomotiva tedesca è alimentata dal peggioramento delle condizioni di lavoro, precarizzazione, taglio dei salari. Tutte cose che in effetti sono perfettamente in linea con le riforme del lavoro Hartz, messe in campo già dieci anni fa dal governo del "socialdemocratico" Schroeder. Proprio quelle riforme che Bersani e il centrosinistra ci presentano come la strada da seguire...
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