Bruno Amoroso* - sinistrainrete -
I. INTRODUZIONELa produzione e riproduzione continua della povertà avviene oggi su scala globale dentro un sistema di potere che comprende l`economia, le istituzioni, i mass media e anche una parte importante dei centri di ricerca e formazione.
Questo sistema è stato chiamato Globalizzazione ed ha prodotto in cinquanta anni i recinti che delimitano gli ambiti delle nuove ricchezze e dei nuovi privilegi, a scapito degli impoveriti e degli esclusi. Un sistema di apartheid globale che ha trasformato la società dei 2/3 costruita con i sistemi di welfare (dove gli esclusi, i poveri, erano un terzo) nella società di 1/6, mediante la caduta verticale delle condizioni di vita di gran parte della popolazione mondiale (Petrella 1993, Amoroso 1999).
Il fenomeno più eclatante, via via accresciutosi nel corso degli ultimi trenta anni, è stato il crescere della povertà, anche nelle forme più manifeste, all`interno dei paesi industrializzati e dei sistemi di welfare europeo a fronte dell`ulteriore impoverimento e finanche della distruzione fisica delle aree remote e rurali e dei ghetti urbani. Il fallimento del Millennium Development Goal (MDG) che si proponeva di dimezzare la povertà nel mondo è riconosciuto dagli stessi organismi delle Nazioni Unite. Gli obiettivi e le soluzioni pratiche erano stati indicati, il quadro istituzionale istituito e i costi ritenuti sostenibili. Tuttavia l`obiettivo di porre fine alla povertà entro il 2015 appare ormai sempre più lontano e irrealizzabile.
La ricerca delle cause del fallimento è di certo utile, ma non deve offuscare il fatto che si tratta di un piano la cui irrealizzabilità non è dovuta ai numerosi singoli errori certamente presenti ma al ruolo di sussidiarietà che gli era stato assegnato rispetto alle scelte e agli indirizzi dell`economia globale. In tal modo ha finito per svolgere una funzione di oscuramento degli obiettivi e di ammortizzatore del dissenso. Questo è avvenuto alimentando l`illusione di una possibile
La linea di divisione tra i no-global e i new-global, istituitasi dopo le proteste di Seattle del 1999 contro il vertice dell`Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), si è estesa dai movimenti ai governi e paesi: tra quelli che hanno scelto una linea di sganciamento dalla Triade riprendendo la valorizzazione e la crescita delle loro economie locali e nazionali su linee di rottura dalle politiche economiche neo-liberiste (privatizzazioni e liberalizzazioni) e quanti invece si sono qualificati come i migliori allievi della Banca Mondiale e del Fondo Finanziario Internazionale. Una linea di divisione che si ripropone oggi articolata tra gli
I dati sulla povertà nel mondo indicano con chiarezza che mentre questa è aumentata nei paesi occidentali e aderenti alle politiche neoliberiste del “Consenso di Washington”, diminuzioni significative si verificano in quei paesi che da quelle politiche e da quei sistemi economici si vanno distanziando.
A queste tendenze sono riconducibili i governi, i movimenti e le istituzioni che fanno da contrasto agli effetti economici e sociali della Globalizzazione difendendo e affermando i diritti essenziali e i bisogni dei gruppi sociali e delle aree geografiche vulnerabili (Universalizzazione dei diritti). Questi attori lottano per difendere l`ambiente e i diritti delle comunità e delle persone, per creare e sostenere economie locali con forme di micro credito e credito popolare, con il commercio equo, ecc., con la trasformazione delle vecchie forme della cooperazione in nuovi paradigmi di convivenza comunitaria capaci di produrre alternative al mercato capitalistico mediante la solidarietà e la creazione di una economia sociale e cooperativa.
Le scelte di Stati sovrani nazionali di de-connettersi proteggendo la propria sovranità e autonomia dal sistema dell`apartheid globale della Globalizzazione non rappresentano il rifiuto dei processi d`internazionalizzazione e di cooperazione tra Stati, ma forme di apertura verso altri paesi e comunità di carattere non egemonico e predatorio come quelle della Globalizzazione. Per questa ragione definiamo questo processo policentrico come Mondializzazione. Il principio base della Globalizzazione è quello dell`assimilazione (inglobare), mediante l`integrazione delle diversità degli Stati e delle comunità nelle regole, norme e comportamenti standard della modernizzazione occidentale. La Mondializzazione, al contrario, ricerca l`apertura delle comunità e degli Stati verso il Bene comune dell`umanità. La sostenibilità di questi sistemi nel futuro dipende dalle loro capacità di mantenere il rifiuto delle politiche neo-liberiste anche difronte alle difficoltà economiche e distributive che la crisi economica mondiale provocata dalla Globalizzazione produce.
La Globalizzazione è per definizione monocentrica, con un approccio top-down, dal globale al locale, mediante l`adattamento del secondo al primo. La Mondializzazione, al contrario, è policentrica, con un approccio dal basso verso l`alto, dal locale al meso-regionale, dove la valorizzazione delle diversità costituisce la base per un dialogo vero e la cooperazione tra comunità e Stati. Le politiche della Mondializzazione aspirano a rinforzare il valore della diversità mediante il dialogo e la condivisione.
1.1 Globalizzazione e povertà 1970-2012
Dai dati disponibili emergono alcune considerazioni sul rapporto esistente tra Globalizzazione e povertà. Nelle fasi precedenti dello sviluppo capitalistico la povertà era considerata un residuo del passato, del mondo rurale e preindustriale, che la modernità e l’industria con il loro seguito di benessere avrebbero gradualmente eliminato. I fatti da un lato confermarono questa tendenza, dall’altro indicarono che se il mercato capitalistico era in grado di far evolvere forme di povertà verso un benessere relativo e la nascita del ceto medio produceva anche un degrado di parte di queste verso la
La Globalizzazione ha cambiato la direzione dello sviluppo capitalistico concentrato su un numero ristretto di aree geografiche (i paesi della Triade) e all’interno di questi produce fenomeni di “nuova povertà” a seguito della destabilizzazione dello Stato del benessere. Quindi con la Globalizzazione la povertà dei paesi fuori della Triade viene imposta con la loro marginalizzazione economica, e il precipitare verso la povertà e la miseria di strati crescenti della popolazione anche nei paesi industrializzati non è un effetto collaterale risanabile nel corso del tempo, ma l’obiettivo perseguito. È ampiamente documentata la valutazione che le condizioni di vita della parte più povera della popolazione mondiale sono peggiorate nel corso degli ultimi decenni e che gli obiettivi di sviluppo che ci si era posti per il millennio (MDGs) per la lotta alla povertà si rivelano irraggiungibili.
Le politiche della Globalizzazione (aggiustamenti strutturali, gestione del debito estero, liberalizzazione del commercio mondiale, crisi finanziarie, ecc.) portate avanti dalle proprie istituzioni (OMC, FMI e BM) non hanno dato spazio alla riduzione della povertà, con il risultato che la distanza tra ricchi e poveri è in aumento e si registra un continuo incremento del numero dei poveri nel mondo (Stiglitz 2002: xiv). Nel corso dell’ultimo decennio del XX secolo, a fronte di una crescita del reddito totale mondiale annuo del 2,5%, il totale delle persone che vivono in povertà è aumentato di 100 milioni (ivi: 5). Indagini recenti confermano la continuazione di questi trend con: «un mix velenoso di ineguaglianza e bassi salari» (Stiglitz, 2012; The Economist, January 20th, 2007: 11).
Gli studi dedicati all`individuazione dei vincitori e dei vinti nella “competizione” della Globalizzazione mostrano l’impoverimento dei ceti medi e il peggioramento degli strati più poveri della società in tutti i paesi (Amoroso – Gomez y Paloma: 2007). La reintroduzione su larga scala della povertà nei paesi industrializzati e di alto reddito ha prodotto che all’inizio del decennio in corso negli Stati Uniti 32 milioni di persone avevano un`aspettativa di vita alla nascita inferiore ai 60 anni; 40 milioni erano sprovvisti di ogni forma di assicurazione per malattia, 45 milioni viveva in condizioni sotto la “soglia della povertà” e infine 52 milioni erano analfabeti (ivi: 58-59). Nel 1999 il “modello sociale europeo”, così spesso decantato, faceva registrare 50 milioni di poveri e 18 milioni di disoccupati tra i cittadini dell’Unione Europea (Carniti 2001: 20).
1.2 Il dibattito sulla povertà
La crescita sia assoluta sia relativa della povertà nel mondo ha alimentato numerosi dibattiti. Un tema tanto più scottante se si pensa che l’introduzione delle nuove tecnologie nel corso degli ultimi trenta anni è stata legittimata con i vantaggi che queste avrebbero apportato anche al miglioramento delle condizioni di vita e all’abolizione della povertà (Zupi, 2003: xi and xxv; Acocella, 2005). Tuttora gli economisti della Banca Mondiale sostengono gli effetti positivi della Globalizzazione sulla povertà (Dollar – Kraay, www.worldbank.org).
La loro tesi è che dal 1975 l’ineguaglianza nel mondo è diminuita soprattutto grazie alla rapida crescita economica in India e in Cina, il che dimostrerebbe il vantaggio dei paesi che entrano nella globalizzazione (“globalizers”) rispetto a coloro che vi resistono (“nonglobalizers”) (Dollar – Kraay, 2002). Il paradosso creato da questo pasticcio concettuale, che confonde fenomeni tra loro diversi (Globalizzazione e Mondializzazione) e che include nel proprio sistema di calcolo politiche e stati spesso criticati dagli stessi autori neo-liberali per il loro rifiuto si sottomettersi ai dettami della Globalizzazione, è stato efficacemente segnalato da James K. Galbraith:
“È incredibile sostenere che l’India, la Cina e il Vietnam dovrebbero costituire tre dei cinque esempi maggiori di successo della Globalizzazione. Il successo relativo dell’India iniziò negli anni Ottanta, grazie sia a un rigido controllo sui capitali sia a misure statali di sostegno di lungo periodo allo sviluppo che hanno protetto il paese dalle crisi del debito che hanno invece colpito l’America Latina e altri paesi. La Cina è cresciuta agli inizi sulla spinta di riforme agricole e in seguito grazie a un programma di industrializzazione finanziato soprattutto dal risparmio interno; tuttora il paese non ha liberalizzato il movimento dei capitali. La Cina e il Vietnam sono tuttora sotto il controllo dei loro partiti comunisti, il che significa che questi paesi non aderiscono in nessun modo al “Consenso di Washington” (Galbraith, 2002).
Al contrario i paesi che sia in Asia sia in altre aree mondiali hanno seguito le raccomandazioni del Fondo Monetario e della Banca Mondiale (Argentina, Russia, ecc.) sono stati colpiti da crisi finanziarie e politiche che ne hanno minato le basi economiche (Galbraith, ibidem). La crescita delle ineguaglianze alla fine del secolo scorso ha trovato numerosi riscontri. La quota del reddito mondiale del 10% più ricco è aumentata dal 48% al 52% durante il periodo 1988-1993, mentre quella del 10% più povero è diminuita tra il 0,80% e il 0,64% (Wade, 2001). Nel periodo di affermazione della Globalizzazione (1993) il reddito medio annuo dei maggiori paesi industrializzati ammontava a 11.500 USD pro capite, mentre quello della maggioranza della popolazione mondiale era inferiore ai 1.500 USD. Le classi medie sono diminuite e rappresentano una quota minoritaria della popolazione mondiale. Alle base di questo fenomeno c’è l’ineguaglianza nei rapporti di scambio dei prodotti nel commercio mondiale, che si è accresciuta (Wade, 2001: 82).
II. LE NUOVE AREE DELLO SFRUTTAMENTO CAPITALISTICO
Le nuove aree dello sfruttamento capitalistico con l’uso delle nuove tecnologie sono state individuate: a) nel “capitalismo verde” per lo sfruttamento della terra; b) nell’esternalizzazione della “questione sociale”; c) nella flexicurity per lo sfruttamento del lavoro e, infine, d) nella rapina finanziaria dei risparmi delle famiglie e dei lavoratori accumulato nel corso d’intere generazioni; e) nel ritorno dei nazionalismi e delle guerre di religione.
2.1 La mistificazione della “crescita verde” e dello “sviluppo sostenibile”
Dopo e ancora di più del “Millennium Development Goal” ora è il turno della “Green economy”, con la sua promessa di una “nuova crescita mondiale” ovviamente “equa” e “sostenibile”.
Il tema di una ristrutturazione dell`economia mondiale è stato sollevato alla fine degli anni Sessanta dal Club di Roma nel rapporto su “I limiti della crescita” (1968) e poi ripreso dal Gruppo di Lisbona nella sua critica alla Globalizzazione su “I limiti della competitività” del 1995 (Petrella, 1995). Il secondo rapporto dà una risposta ai problemi posti dal primo mostrando come l`equilibrio ambientale e sociale non sia raggiungibile con un richiamo astratto ai principi della sostenibilità, perché non è compatibile con un sistema basato sulla concorrenza e orientato dal profitto capitalistico nelle sue nuove forme predatorie.
La riflessione del Gruppo di Lisbona ha rimesso al centro gli obiettivi del Bene Comune e del Vivere Insieme come idee guida per l`organizzazione delle comunità, degli Stati e della cooperazione internazionale. Le politiche ambientali, energetiche ed economiche devono essere coerenti con questo nuovo paradigma che richiede una rivoluzione profonda delle forme assunte dalla distribuzione dei redditi, della ricchezza e del potere.
Il nuovo indirizzo di un`economia attenta ai problemi dell`ambiente nasce su queste ispirazioni e si sviluppa in Danimarca con la costruzione dei primi mulini a vento, per un sistema energetico eolico in grado di trasformare i consumi locali, rendendoli autonomi e sostenibili. Un progetto avviato da comunità che stavano sperimentando forme diverse di convivenza con comportamenti coerenti sia nella produzione sia nei consumi. Altre forme di energia, solare e delle biomasse, furono sperimentate e introdotte su questa linea di organizzazione delle comunità e dei municipi con l`utilizzo di materiali e mano d`opera locale. L`energia verde fu così concepita come un modo per emanciparsi dalla dipendenza energetica fornita dalle grandi strutture pubbliche e private.
Poi arrivò il business. L`idea di una nuova economia rispettosa dell`ambiente e dell`uso responsabile delle risorse locali è stata trasformata nel logo commerciale della “Green Economy”. Scoperta l`importanza di queste innovazioni se ne sono impadronite le grandi società che, con la complicità della ricerca, hanno messo in cantiere i piani di produzione di massa delle energie “verdi” estendendole dall`eolico al solare, alle biomasse, al biocombustibile, ecc. I territori sono stati invasi e deturpati da queste macchine insieme ai materiali importati da tutto il mondo, e terreni utili all`agricoltura sono stati sacrificati a una produzione energetica stimolata dal business e aggiuntiva a quella degli idrocarburi e nucleare.
L`adesione dei sindacati a questo indirizzo tecnologico è stata giustificata come spesso nel passato con le prospettive occupazionali. Tuttavia l`entrata delle grandi società nel business ha dimostrato che neanche quest`ultimo obiettivo è stato soddisfatto. La compagnia danese Vesta per la produzione dei mulini a vento si è trasformata ben presto in una multinazionale inglese e olandese, e una volta spremuto il mercato locale si è trasferita in Polonia e altrove per la colonizzazione di nuovi mercati. La “qualità dello sviluppo” si ripropone così come un tema che riguarda il sistema economico e il modo di produzione, non le sue tecnologie.
Alle spalle di questo processo resta l`attività predatoria delle materie prime necessarie a questi strumenti (solare e non solo) verso i paesi extraeuropei destinati anche al deposito dei rifiuti tecnologici, la distruzione delle forme di produzione locale di energia in un quadro che ha visto aumentare e non diminuire i consumi pro-capite, lo scempio di un paesaggio divenuto luogo di produzione di massa (monocultura) per l`esportazione di energia. Il crimine dell`uso di terreni agricoli necessari alla sicurezza alimentare delle comunità e dei paesi per la produzione di biocarburanti per i consumi delle città della Triade parla da solo.
2.2 La mistificazione della crescita “sociale”
L`obiettivo dell`abolizione delle disuguaglianze sociali, causate dall`iniqua distribuzione dei redditi e della ricchezza, è patrimonio comune del pensiero socialista, liberale di matrice keynesiana e del pensiero sociale della Chiesa. Dentro questi paradigmi, la crescita economica e intesa come uno degli strumenti per riequilibrare gli squilibri esistenti e ristabilire, mediante il lavoro concepito come la partecipazione dei cittadini alla produzione dei beni utili e necessari, una solidale ripartizione degli utili da questi prodotti.
Si trattava e si tratta di ricongiungere gli obiettivi economici dell`impresa e della società con quelli sociali che l`economia di mercato capitalistica ha disgiunto. Su questa linea si sono mosse nel tempo le proposte di una nuova economia fondata sulla co-decisione, sulla democrazia economica e industriale, sull`impresa sociale e cooperativa, e di un`organizzazione della società nella quale il reddito e il lavoro diventino diritti dei cittadini.
Questi indirizzi, che le forme di welfare europeo stavano sperimentando per uscire dalle proprie contraddizioni e limiti mettendo al centro il Bene Comune e la gestione comunitaria dei Beni comuni, sono stati travolti dalla Globalizzazione. Si cerca di far passare una soluzione che lascia immutate le forme e il potere del quadro istituzionale della società e dell`impresa oggi esistente. Il nodo gordiano della concentrazione del potere economico e politico nelle mani delle transnazionali finanziarie e industriali non è affrontato.
I problemi sociali sono esternalizzati, affidati cioè come fenomeni secondari alla cura delle organizzazioni della società civile (Fondazioni, ONG, Associazioni, ecc.), con forme di controllo a posteriori degli effetti prodotti mediante presunte “certificazioni” come il “bilancio sociale dell`impresa”, “il bilancio partecipato”, ecc. . Certificazione che così come avviene per le società di rating dei mercati finanziati sono tutte rigorosamente collocate e controllate nei centri della Triade.
La sintesi di tutto ciò è l`”economia sociale di mercato” che mediante la monetizzazione dei costi sociali della produzione e del consumo prodotti dall`economia offre ai sindacati e ai partiti un “dividendo” dello sfruttamento e della rapina attuata ai danni dei cittadini e della natura. Lascia pertanto immutata la concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani delle transnazionali e di un pugno di straricchi e, concedendo piccoli spazi di distribuzione e partecipazione, ottiene la complicità alla governance dell`economia mondiale, cioè alla rapina e alle guerre per le risorse del pianeta. Una tendenza questa che tende a compromettere gli attori sociali con concessioni di sopravvivenza in cambio della solidarietà verso un modello di organizzazione socioeconomica iniquo e criminale. Questo è espresso dalle recenti proposte di tassazione delle operazioni di borsa utilizzata per dare un po’ di sopravvivenza finanziaria alle ong, oppure nel caso della proposta indecente di tassare le armi per finanziare la cooperazione internazionale.
2. 3 La mistificazione della crescita “occupazionale”
Crescita economica come sinonimo di occupazione è il mantra con il quale si cerca di ottenere il consenso dei lavoratori e dei sindacati a forme di sviluppo destinate invece a precarizzare il lavoro esistente e a ostacolare o distruggere posti di lavoro che potrebbero essere creati con una diversa economia. Le politiche adottate negli ultimi due decenni in Europa “riformano” le politiche sociali e del lavoro unificandole mediante una crescita occupazionale particolare: senza lavoro, senza diritti, senza salario. La risposta data all`occupazione precaria e alla disoccupazione è quelle della non-occupazione attiva.
Queste sono le linee guida delle politiche per il lavoro dell`Unione Europea, recepite dai singoli Stati, e che sono state diffuse sotto lo slogan della “Flexicurity” che ha segnato la trasformazione dal welfare al workfare in Europa. Non ce ne occuperemmo in questo documento se questa non fosse la causa maggiore della produzione di nuove povertà in Europa.
La sicurezza e la flessibilità sono state obiettivi centrali nella costruzione dei sistemi di welfare europeo. La sicurezza sul lavoro, del lavoro e del reddito ha costituito la base dei diritti dei lavoratori sancita nelle leggi e nei contratti collettivi. La flessibilità, cioè la possibilità di cambiare lavoro, è stata anch`essa una conquista dei lavoratori nelle società scandinave in particolare, che offriva la possibilità di rifiutare lavori ripetitivi o dannosi inserendosi nella produzione laddove questa forniva anche le migliori possibilità di sviluppo personale e di armonia con la propria vita famigliare e di comunità. Questa libertà del lavoratore di scegliere il posto di lavoro costituiva un forte incitamento per gli imprenditori nell`offrire condizioni e ambienti di lavoro attrattivi per i lavoratori e stimolando l`innovazione.
La flexicurity capovolge tutto questo. La sicurezza è condizionata dall`accettazione della flessibilità decisa non dal lavoratore ma dall`impresa, e incondizionata rispetto alle esigenze professionali, personali o famigliari del lavoratore. Anche i sistemi di sicurezza sociale sono stati ridefiniti a questo obiettivo. Le coperture sociali in caso di disoccupazione sono state ridotte e limitate da un tempo illimitato a un periodo di 3 anni, e dopo il primo anno il lavoratore non può più rifiutare qualunque offerta di lavoro anche al di fuori delle proprie qualifiche e competenze se non vuole perdere il sussidio di disoccupazione.
Il risultato è l`aumento dell`espulsione dal lavoro di gruppi di cittadini e da qui il nascere delle nuove povertà. Si torna quindi dalla flessibilità alla precarietà, dai diritti ai favori, all`individualizzazione dei contratti a scapito dei contratti collettivi, dalla cooperazione alla competizione. Il percorso virtuoso dei sistemi di welfare che aveva prodotto la quasi abolizione delle povertà in Europa – dall`elemosina alla solidarietà – è ripercorso in senso contrario. La società del benessere (welfare society), con il suo sistema di garanzie dei diritti al lavoro e al reddito, si trasforma nella società del lavoro (workfare), dove il lavoro diventa l`unica possibilità di accesso a una situazione di precarietà nel reddito e nel lavoro.
2.4 La rapina finanziaria dei risparmi
I due strumenti di dominio della Globalizzazione sono il controllo delle tecnologie e la finanziarizzazione del mercato capitalistico. Il primo, difeso sia con enormi investimenti nel campo dell`industria di guerra sostenuti con il riciclo dei prodotti nei consumi privati, sia con gli strumenti giuridici del copy right consente la colonizzazione del lavoro umano a livello planetario con un forte processo di decentramento produttivo e un accresciuta centralizzazione del potere nella Triade.
Questo ha reso possibile lo smantellamento dei sistemi industriali radicati in Occidente sui quali si fondava la forza del movimento operaio e la creazione di una figura fortemente innovativa, quella del produttore non consumatore già nota ai tempi della prima industrializzazione capitalistica. Riportato il lavoratore alla condizione di assoluta dipendenza della fase pre-fordista della produzione (produzione di massa senza consumo di massa) è possibile spremere tutto il plusvalore possibile dalla produzione.
A questo punto la richiesta di una continua ascesa del profitto non è più realizzabile con il solo sfruttamento del lavoro vivo, e per questo l`attenzione si è concentrata su l`accumulo di ricchezza realizzato dai lavoratori e dalle famiglie nel corso di decenni, in Europa e altrove, mediante loro risparmi, le pensioni e la casa. Un patrimonio gestito dentro i meccanismi garantiti e restrittivi dei sistemi bancari, o direttamente come patrimonio famigliare, in moneta o beni.
Mobilizzare questi patrimoni, farli entrare nel circuito del mercato è la prima condizione per poter poi istituire i meccanismi legali dell`esproprio o mediante la leva fiscale dello Stato oppure con la rapina di mercato (la speculazione finanziaria). Da qui la riforma dei sistemai bancari e finanziari degli ultimi quattro decenni, la riforma dei sistemi fiscali in senso non proporzionale, la legittimazione del ruolo autonomo e di garanzia delle istituzioni monetare (Banche centrali) e finanziarie (Borse, società di rating, governance internazionale della finanza) rese sempre più autonome dal potere politico e dal controllo dei cittadini. La sovranità nazionale dei governi si è trasformata in sovranità dei centri della finanza e delle sue istituzioni.
Dagli anni Settanta sono le istituzioni finanziare, nazionali e internazionali, che hanno introdotto e amministrato le politiche d`impoverimento (Banche d`Investimento, Banche Centrali, Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale, ecc.) pilotati da poche forti lobby finanziarie (Goldman Sachs, Club Bilderberg, Trilaterale, ecc.). Gli effetti di queste misure sapientemente coordinate e delle quali vediamo oggi il pieno successo con l`affermarsi accanto al “pensiero unico” del “potere unico” sono il progressivo impoverimento dei ceti medi e il precipitare nella miseria di gruppi crescenti di lavoratori, studenti e pensionati. “Dopo l`Era della manifattura l`economia mondiale è entrata nell`Era della finanza; gli gnomi di Zurigo sono cresciuti in giganti pantagruelici nel mondo. L`esplosione del commercio finanziario internazionale è il centro di questa grande trasfigurazione.” (Petrella, The Finacial Disarmmament, draft 1997).
Gli effetti delle nuove forme del capitalismo globale sul potere (Galbraith, The Predator State, 2008) e sulla povertà (Stiglitz, The Price of Inequality, 2012) sono state documentate. Queste sono all`origine dei grandi movimenti di protesta in tutto il mondo che rappresentano il 99% contro l`1% dei privilegi e del profitto, e il crescere di una nuova politica, contro l`antipolitica dei partiti e delle istituzioni.
2.5 Il ritorno dei nazionalismi e delle guerre di religione
Fin dagli anni Settanta furono chiaramente individuate le due linee di intervento che la Globalizzazione avrebbe messo in atto per affermare il proprio potere: la marginalizzazione economica, di gruppi sociali e Stati, della quale abbiamo sin qui parlato, per poter imporre le proprie scelte e interessi economici; la destabilizzazione politica dei sistemi sociali, politici e istituzionali esistenti per poter fiaccare ogni forma di resistenza ai propri piani e alla sua governance.
La destabilizzazione politica è lo strumento con il quale si sono destabilizzati Stati e forme di cooperazione internazionale mediante l`appoggio cinico ad ogni forma di nazionalismo potenziale e reale esistente, a ogni interesse etnico per poi soffocarli nella culla impedendo il formarsi di istituzioni alternative a quelle della Globalizzazione. L`aver provocato con le sue politiche cataclismi economi, ambientali e umani non più gestibili (guerre, carestie, disoccupazione con il seguito di conflitti sociali e armati e di grandi fenomeni migratori) provoca alimenta ovviamente confitti nazionali e interetnici e nella stessa Europa fa rinascere chiusure settarie negli e tra gli Stati nazionali, fenomeni di divisione e di eversione rispetto agli Stati nazionali e alla cooperazione esistente.
Quanto è avvenuto negli ultimi decenni in Europa e nel mondo, con il seguito di focolai di guerra e guerriglia senza fine, non è il segno del fallimento della Globalizzazione ma del suo pieno successo. L`affermarsi della sua governance militare e economica su ampie zone del mondo non da amministrare ma da controllare con l`uso della destabilizzazione sistematica e della forza. Questo è quanto è avvenuto ai confini orientali dell`Europa, nell`Europa del Sud, e oggi nei paesi della sponda sud del Mediterraneo.
Durante i dieci anni di realizzazione del Processo di Barcellona (1995-2005) che doveva istituire tra Europa e Mediterraneo un`area di “welfare condiviso”, la collaborazione della società civile europea e di molti cittadini era stata sostenuta dalla speranza che questo avrebbe trasformato quello che si annunciava come un conflitto drammatico tra Islam e Cristianesimo, tra Oriente e Occidente, in un dialogo vero tra culture e religioni, per ripensare insieme un futuro comune nella diversità dei propri credo e delle proprie forme di vita.
Ebbene tutto questo è oggi vanificato dal fatto che l`Occidente sostiene e finanzia un scontro di religione interno all`Islam (fra Sunniti e Shiiti), che annulla totalmente le ragioni e i confini del dialogo. Quello che era un grande progetto di cooperazione e di vivere insieme tra Mediterraneo e Europa e diventato un grande piano di destabilizzazione dell`intera area con mezzi violenti, che consente all`Occidente l`accesso incontrollato alle risorse di quest`area in una situazione di guerra civile permanente e con l`apertura di nuovi mercati per la vendita e la sperimentazione di nuovi strumenti di guerra con le vite degli altri.
In questo quadro i movimenti per la pace, che in anni passati avevano dimostrato la loro forza politica e culturale promuovendo la teoria e la pratica non violenta, sono oggi azzittiti. Nulla è stato fatto e detto per protestare contro la decisione del governo italiano di “grande coalizione” di trasformare la ex base militare di Sigonella in una base NATO per i droni, cioè per arei teleguidati per l`uso di omicidi mirati contro leader di altri paesi e dell`opposizione. È veramente credibile l`ipotesi che la violenza e la guerra civile siano strumenti legittimi e da sostenere per la ribellioni degli oppressi in altri paesi, ma indicibili e illegittimi nel caso dell`inasprirsi dei conflitti sociali e politici in Europa?
III. LE SOLUZIONI CENTRATE SUL REDDITO
Il tema della povertà che è l`oggetto della nostra attenzione è l`indicatore più efficace e diretto di quello che è il problema strutturale da risolvere nelle economie europee e del modo: il problema dell`ineguaglianza. Questo richiama immediatamente le forme economiche e extraeconomiche dell`organizzazione sociale che provvedono al Bene Comune e al centro delle quali c`è il tema della definizione e dell`accesso ai Beni Comuni e della distribuzione dei redditi e della ricchezza.
Il Bene Comune, nell`accezione storicamente determinata di oggi, successiva quindi a quella elaborata per gli Stati del Benessere degli anni Cinquanta e Sessanta, è individuabile nella limitazione delle condizioni di incertezza che caratterizzano la vita personale, famigliare e della società e nell`istituzione di forme di organizzazione sociale e economica che all`interno dei singoli Stati e nel mondo rendano possibile il vivere insieme di culture, sistemi socioeconomici e religioni diverse.
Le basi materiali di questa nuova convivenza sono l`accesso ai Beni Comuni (acqua, istruzione, sanità, casa, trasporto, spazi rurali e urbani vivibili e condivisibili, alimentazione, ecc.) e una ripartizione solidale dei redditi e della ricchezza. Il problema non è astratto, in termini di eguaglianza e giustizia sociale, ma terribilmente concreto ella situazione attuale che vede l`1% della popolazione mondiale detenere il potere e la ricchezza a danno del 99% dei cittadini del mondo. Pertanto è partendo da questo dato che va costruito un sistema che riequilibri i rapporti economici e di potere tra le persone eliminando ogni chance e spazio di povertà.
Il tema dei redditi e della ricchezza, va pertanto messo al centro della campagna per l`abolizione della povertà ri-istituendo le basi legali che consentano una loro giusta distribuzione dentro un nuovo sistema di convivenza sociale basato su Beni Comuni non monetizzabili, e quindi con accesso universale e gratuito secondo regole di comportamento che ogni singola comunità deve definire, e sulla giusta distribuzione dei redditi e della ricchezza.
Quali sono i Nodi Gordiani da tagliare? Per quanto riguarda i Beni Comuni, la loro introduzione significa sottrarre al mercato e alla monetizzazione, cioè ai “mercati finanziari”, la loro proprietà e uso riducendo così pesantemente i territori aperti alle scorribande della finanza e dei gruppi d`interesse, economici e lobbistici.
Questi indirizzi sono stati ripresi di recente anche a causa della crisi profonda dei sistemi di mercato e delle possibilità di reddito che un lavoro che non c`è non è più in grado di fornire. Sono così nate proposte e iniziative come quelle del Basic Income (reddito base) Reddito sociale minimo, Reddito di Esistenza, ecc. che si muovono in questa direzione anche se da motivazioni parziali e diverse tra loro. Sono spesso proposte alimentate dal bisogno di intervenire su carenze istituzionali dei sistemi sciali esistenti ma che non si misurano col problema del rapporto lavoro-reddito. Un rapporto che va ricostituito nel senso che un reddito di cittadinanza può diventare sostitutivo del salario fornito dal mercato capitalistico, ma oltre a modificare la radice dell`origine del reddito (il lavoro) deve modificare anche la percezione del lavoro che non s`identifica necessariamente con le forme attualmente note, ma può venire ricreato in ambiti della vita famigliare, di comunità e ecc. in forme diverse (lavoro volontario, cooperativo, ecc.).
Si realizzerebbe così la ricongiunzione del lavoro nelle sue varie forme con la vita famigliare e sociale, un’articolazione delle forme di lavoro da quello oggi noto come lavoro dipendente e autonomo di mercato a forme sociali e cooperative, una nuova organizzazione sociale insomma che renderebbe possibile la scomparsa della povertà e della marginalizzazione sociale nelle forme drammatiche oggi a noi note.
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