Al momento Rivoluzione Civile è soprattutto una coalizione elettorale, fatta da forze politiche e sociali eterogenee, unite dall’obiettivo di tornare in Parlamento distinguendosi dal centro sinistra e dal grillismo, convergenti su alcuni importanti punti di programma, ma quanto al resto assai diverse per storia e per cultura politica. Tutto ciò, peraltro, non è poco: senza Rivoluzione Civile non esisterebbe nessuna credibile alternativa alle inaccettabile offerte elettorali che oggi sono sulla piazza. E senza quella coalizione Rifondazione Comunista sarebbe destinata ad una battaglia di minoranza, necessaria e lodevole, ma quasi certamente votata alla sconfitta.
Detto questo, però, va anche aggiunto che non siamo di fronte ad un puro e semplice colpo di fortuna: la nascita della lista Ingroia è anche il risultato della tenacia con cui Rifondazione Comunista ha “tenuto il punto” insistendo – anche quando tutto sembrava smentirla – sulla necessità e possibilità di mantenere una posizione autonoma dal centro sinistra e di tradurla in una lista elettorale alternativa. Considerata da questo punto di vista l’eterogeneità delle forze che compongono la coalizione non è indice della debolezza del nostro progetto ma della sua forza: dimostra che le esigenze da noi segnalate sono talmente oggettive e cogenti da essere colte da tendenze anche politiche abitualmente distanti tra loro e distanti da noi. Le inevitabili difficoltà presenti e future sono quindi il segno di una crescita potenziale, di un aumento della “capacità coalizionale” del partito, di un’uscita dalla posizione forzatamente minoritaria degli ultimi anni.
Peraltro, le difficoltà della coalizione possono essere gestite con lucidità ed efficacia solo se ci si rende conto che Rivoluzione Civile è, o può essere, anche qualcosa di più: può essere da una parte la stabilizzazione di un rapporto fruttuoso tra movimenti, associazioni e partiti, dall’altra l’inizio di una nuova stagione della lotta politica italiana.
Quanto al primo punto, l’esperienza (pur contraddittoria e diseguale) di Cambiare si può è il primo tentativo, dopo Genova 2001 e dopo i Social forum, di condensare le proposte dei movimenti e delle associazioni in una sede stabile e formale, e quindi di costruire un soggetto capace di interloquire autonomamente (in maniera, a seconda dei casi, più critica o più conciliante) coi partiti politici, arricchendo così la differenziazione del nostro fronte e quindi la sua capacità di dialogare con una società differenziata. Se il progetto di Csp continuerà, resistendo alle difficoltà derivanti dalla diversa – e a mio avviso poco lungimirante – scelta fatta dai compagni di ALBA, non si tratterà né della formazione di un nuovo partito (scelta legittima, ma contraddittoria rispetto all’obiettivo di differenziare e di arricchire le modalità di iniziativa politica), né di un assorbimento di associazioni e movimenti nei partiti esistenti, ma della costruzione di un soggetto politico intermedio tra società e partiti, capace di guardare ai partiti dal di fuori, di segnalarne gli eventuali limiti, di sostituire i partiti stessi quando questi si mostrano incapaci di iniziativa politica. Non si tratta qui di esaltare la società civile contro i partiti, ma solo di riconoscere che oggi, per fortuna, la politica si fa in molti modi, che non sempre i partiti hanno la capacità di intervenire positivamente (e giova ricordare che solo un movimento come Csp poteva, nella situazione data, innescare un processo di aggregazione che i partiti non erano in grado di produrre), che se il partito pretende un ruolo più “generale” e più “complessivo”, questo ruolo deve conquistarselo volta per volta.
Ma la vera novità del momento non sta tanto nel (possibile) rapporto positivo tra società e partiti: se riusciremo a costruirlo si tratterà più che altro dell’auspicato recupero di un ritardo, della realizzazione di un qualcosa che avrebbe dovuto compiersi subito dopo Genova 2001, per capitalizzare al meglio tutti gli spostamenti sociali e culturali di quella fase. La vera novità del momento riguarda piuttosto la convergenza, a mio avviso non puramente occasionale, trai movimenti “tradizionali” e la stessa Rifondazione Comunista da un lato, e forze precedentemente inesistenti, oppure significativamente distanti dalle abituali componenti della sinistra di alternativa, dall’altro. Molti di noi sono giustamente preoccupati per le oscillazioni e le esitazioni mostrate dai Di Pietro, dai De Magistris e dallo stesso Ingroia nei confronti del centro sinistra. Ma bisogna sforzarsi di ricordare che soltanto un anno fa, soltanto sei mesi fa queste forze sarebbero state sicuramente interne al centro sinistra, perché vi avrebbero trovato, o creduto di trovare, lo spazio per le proprie strategie politiche o professionali: la lotta per una democrazia comunale partecipata, la lotta alla corruzione e quella contro la mafia. Ma oggi un simile rapporto col centro sinistra non è più possibile, sia perché la sostanziale adesione del PD e di Sel alla linea Monti priva le realtà locali delle risorse necessarie ad attuare alcunché, sia e soprattutto perché il PD non può perdonare a Di Pietro e ad Ingroia il delitto di lesa maestà, ossia l’aver messo in discussione, e sul delicatissimo punto del rapporto tra Stato e mafia, la figura cardine del sistema istituzionale italiano, il garante principale delle (subalterne) alleanze continentali ed atlantiche del Paese, ossia il Presidente della Repubblica.
Qualcuno vedrà nel carattere parzialmente forzoso e subìto di questa rottura col centro sinistra un sintomo della debolezza della nostra attuale coalizione, la premessa di futuri cedimenti. Può certamente essere così, e la nostra iniziativa politica deve essere, su questo punto, particolarmente attenta. Ma ci conviene comunque ricordare che tutti i più significativi spostamenti nei rapporti di forza non avvengono semplicemente perché qualcuno si convince delle buone ragioni altrui (in questo caso, delle nostre), ma avvengono perché forze eterogenee e prima interne a diversi blocchi politico-sociali sono costrette dagli eventi a spostarsi e ad ascoltare (solo allora) le ragioni e le proposte che da altri blocchi provengono. Questi eventi, oggi, non sono occasionali, e la coalizione elettorale può essere trasformata in un’alleanza stabile se sappiamo leggere e spiegare il rapporto tra gli avvenimenti attuali e le tendenze profonde della nostra crisi nazionale. Il fatto è che i poteri decisionali dello Stato italiano (inteso ormai come organo dello Stato capitalistico europeo) si stanno rafforzando sempre di più e si stanno rendendo sempre più impermeabili alle istanze democratiche ed al controllo di legalità. Il dominio del governo sul parlamento (assicurato dal ricatto economico che sta alla base della “solidarietà” europea) e l’indiscutibile direzione politica di Giorgio Napolitano non tollerano ostacoli di sorta, perché non tollera ostacoli di sorta il progetto di definitiva rimozione del ruolo autonomo del lavoro dalla politica e dall’economia europea. Inoltre, per effetto della combinazione della riforma del Titolo V della Costituzione (federalismo e sussidiarietà), delle politiche di privatizzazione e della vigenza del diritto comunitario, si è allargato a dismisura lo spazio della corruzione (perché sono aumentati i centri incontrollati di spesa e i canali di relazione monetaria tra pubblico e privato), si sono indeboliti contemporaneamente i diritti del lavoro e la funzione costituzionale della magistratura e si è infine reso assai più difficile, nel mondo della libera ed indiscussa circolazione del capitale, il contrasto alla mafia. In questo quadro è assolutamente logico che una parte delle classi che gestiscono l’apparato di Stato, e soprattutto quella parte che si vede sottrarre funzioni, autonomia e dignità, si allontani dal blocco dominante e si avvicini con crescente convinzione al (costituendo) blocco di coloro che si oppongono alle politiche monetariste e neoliberiste.
Questo è, a mio avviso, il significato profondo delle tendenze che hanno condotto alla coalizione elettorale. Sono questi i motivi che hanno indotto anche chi abbisognava ed abbisogna, per opporsi efficacemente alla mafia, di solidi appoggi istituzionali, a rompere le vecchie e rassicuranti alleanze per cercarne, con qualche comprensibile incertezza, di nuove. Questi sono i processi che iniziano a trasformare lo scenario della lotta politica in Italia e ad arricchire il campo della sinistra d’alternativa. Sarebbe sbagliato sia sottovalutare queste tendenze, sia sopravvalutarle pensando che esse possano da sole produrre effetti positivi. Se vogliamo che questa nuova situazione preluda alla costruzione di inedite convergenze tra le lotte popolari e le forze che via via si allontaneranno dal blocco dominante, dobbiamo produrre, subito dopo le elezioni, un grande sforzo di analisi che sappia leggere la crisi dello Stato italiano e la ridislocazione di alcune classi sociali come effetto della natura subalterna delle nostre classi dominanti e delle loro scelte geopolitiche (Europa inclusa), e sappia legare la lotta per la democrazia costituzionale alla lotta per nuove forme di proprietà e per una nuova collocazione internazionale del Paese. In una parola dobbiamo riprendere la strada della rifondazione comunista e della definizione di un socialismo possibile per l’Italia.
Peraltro, le difficoltà della coalizione possono essere gestite con lucidità ed efficacia solo se ci si rende conto che Rivoluzione Civile è, o può essere, anche qualcosa di più: può essere da una parte la stabilizzazione di un rapporto fruttuoso tra movimenti, associazioni e partiti, dall’altra l’inizio di una nuova stagione della lotta politica italiana.
Quanto al primo punto, l’esperienza (pur contraddittoria e diseguale) di Cambiare si può è il primo tentativo, dopo Genova 2001 e dopo i Social forum, di condensare le proposte dei movimenti e delle associazioni in una sede stabile e formale, e quindi di costruire un soggetto capace di interloquire autonomamente (in maniera, a seconda dei casi, più critica o più conciliante) coi partiti politici, arricchendo così la differenziazione del nostro fronte e quindi la sua capacità di dialogare con una società differenziata. Se il progetto di Csp continuerà, resistendo alle difficoltà derivanti dalla diversa – e a mio avviso poco lungimirante – scelta fatta dai compagni di ALBA, non si tratterà né della formazione di un nuovo partito (scelta legittima, ma contraddittoria rispetto all’obiettivo di differenziare e di arricchire le modalità di iniziativa politica), né di un assorbimento di associazioni e movimenti nei partiti esistenti, ma della costruzione di un soggetto politico intermedio tra società e partiti, capace di guardare ai partiti dal di fuori, di segnalarne gli eventuali limiti, di sostituire i partiti stessi quando questi si mostrano incapaci di iniziativa politica. Non si tratta qui di esaltare la società civile contro i partiti, ma solo di riconoscere che oggi, per fortuna, la politica si fa in molti modi, che non sempre i partiti hanno la capacità di intervenire positivamente (e giova ricordare che solo un movimento come Csp poteva, nella situazione data, innescare un processo di aggregazione che i partiti non erano in grado di produrre), che se il partito pretende un ruolo più “generale” e più “complessivo”, questo ruolo deve conquistarselo volta per volta.
Ma la vera novità del momento non sta tanto nel (possibile) rapporto positivo tra società e partiti: se riusciremo a costruirlo si tratterà più che altro dell’auspicato recupero di un ritardo, della realizzazione di un qualcosa che avrebbe dovuto compiersi subito dopo Genova 2001, per capitalizzare al meglio tutti gli spostamenti sociali e culturali di quella fase. La vera novità del momento riguarda piuttosto la convergenza, a mio avviso non puramente occasionale, trai movimenti “tradizionali” e la stessa Rifondazione Comunista da un lato, e forze precedentemente inesistenti, oppure significativamente distanti dalle abituali componenti della sinistra di alternativa, dall’altro. Molti di noi sono giustamente preoccupati per le oscillazioni e le esitazioni mostrate dai Di Pietro, dai De Magistris e dallo stesso Ingroia nei confronti del centro sinistra. Ma bisogna sforzarsi di ricordare che soltanto un anno fa, soltanto sei mesi fa queste forze sarebbero state sicuramente interne al centro sinistra, perché vi avrebbero trovato, o creduto di trovare, lo spazio per le proprie strategie politiche o professionali: la lotta per una democrazia comunale partecipata, la lotta alla corruzione e quella contro la mafia. Ma oggi un simile rapporto col centro sinistra non è più possibile, sia perché la sostanziale adesione del PD e di Sel alla linea Monti priva le realtà locali delle risorse necessarie ad attuare alcunché, sia e soprattutto perché il PD non può perdonare a Di Pietro e ad Ingroia il delitto di lesa maestà, ossia l’aver messo in discussione, e sul delicatissimo punto del rapporto tra Stato e mafia, la figura cardine del sistema istituzionale italiano, il garante principale delle (subalterne) alleanze continentali ed atlantiche del Paese, ossia il Presidente della Repubblica.
Qualcuno vedrà nel carattere parzialmente forzoso e subìto di questa rottura col centro sinistra un sintomo della debolezza della nostra attuale coalizione, la premessa di futuri cedimenti. Può certamente essere così, e la nostra iniziativa politica deve essere, su questo punto, particolarmente attenta. Ma ci conviene comunque ricordare che tutti i più significativi spostamenti nei rapporti di forza non avvengono semplicemente perché qualcuno si convince delle buone ragioni altrui (in questo caso, delle nostre), ma avvengono perché forze eterogenee e prima interne a diversi blocchi politico-sociali sono costrette dagli eventi a spostarsi e ad ascoltare (solo allora) le ragioni e le proposte che da altri blocchi provengono. Questi eventi, oggi, non sono occasionali, e la coalizione elettorale può essere trasformata in un’alleanza stabile se sappiamo leggere e spiegare il rapporto tra gli avvenimenti attuali e le tendenze profonde della nostra crisi nazionale. Il fatto è che i poteri decisionali dello Stato italiano (inteso ormai come organo dello Stato capitalistico europeo) si stanno rafforzando sempre di più e si stanno rendendo sempre più impermeabili alle istanze democratiche ed al controllo di legalità. Il dominio del governo sul parlamento (assicurato dal ricatto economico che sta alla base della “solidarietà” europea) e l’indiscutibile direzione politica di Giorgio Napolitano non tollerano ostacoli di sorta, perché non tollera ostacoli di sorta il progetto di definitiva rimozione del ruolo autonomo del lavoro dalla politica e dall’economia europea. Inoltre, per effetto della combinazione della riforma del Titolo V della Costituzione (federalismo e sussidiarietà), delle politiche di privatizzazione e della vigenza del diritto comunitario, si è allargato a dismisura lo spazio della corruzione (perché sono aumentati i centri incontrollati di spesa e i canali di relazione monetaria tra pubblico e privato), si sono indeboliti contemporaneamente i diritti del lavoro e la funzione costituzionale della magistratura e si è infine reso assai più difficile, nel mondo della libera ed indiscussa circolazione del capitale, il contrasto alla mafia. In questo quadro è assolutamente logico che una parte delle classi che gestiscono l’apparato di Stato, e soprattutto quella parte che si vede sottrarre funzioni, autonomia e dignità, si allontani dal blocco dominante e si avvicini con crescente convinzione al (costituendo) blocco di coloro che si oppongono alle politiche monetariste e neoliberiste.
Questo è, a mio avviso, il significato profondo delle tendenze che hanno condotto alla coalizione elettorale. Sono questi i motivi che hanno indotto anche chi abbisognava ed abbisogna, per opporsi efficacemente alla mafia, di solidi appoggi istituzionali, a rompere le vecchie e rassicuranti alleanze per cercarne, con qualche comprensibile incertezza, di nuove. Questi sono i processi che iniziano a trasformare lo scenario della lotta politica in Italia e ad arricchire il campo della sinistra d’alternativa. Sarebbe sbagliato sia sottovalutare queste tendenze, sia sopravvalutarle pensando che esse possano da sole produrre effetti positivi. Se vogliamo che questa nuova situazione preluda alla costruzione di inedite convergenze tra le lotte popolari e le forze che via via si allontaneranno dal blocco dominante, dobbiamo produrre, subito dopo le elezioni, un grande sforzo di analisi che sappia leggere la crisi dello Stato italiano e la ridislocazione di alcune classi sociali come effetto della natura subalterna delle nostre classi dominanti e delle loro scelte geopolitiche (Europa inclusa), e sappia legare la lotta per la democrazia costituzionale alla lotta per nuove forme di proprietà e per una nuova collocazione internazionale del Paese. In una parola dobbiamo riprendere la strada della rifondazione comunista e della definizione di un socialismo possibile per l’Italia.
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