Giuliano Cappellini - sinistrainrete -
Miglioristi e antimiglioristi
Dopo quasi un quarto di secolo non ci pare che né i “miglioristi”, né i loro epigoni avanzino alcun bilancio del “migliorismo”, il movimento ideale e politico che allora ebbe successo nella sinistra italiana. Ciò non stupisce, perché oltre che liquidare il PCI, nessuna altra parte del programma “migliorista” è stato realizzato. Infatti, dal punto di vista “sociale e democratico” il capitalismo è stato “migliorato” solo in peggio e il “migliorismo” sembra svanito nel nulla.
Eppure il successo fu innegabile: con la rinuncia all’obiettivo del socialismo esso sanciva la resa della sinistra italiana al dominio senza vincoli del capitale su ogni aspetto della società, la soggezione ai modelli socio-economici ed alla propaganda dell’imperialismo nordamericano. Ma anche se si capiva che questa resa sarebbe stata pagata amaramente dalle masse lavoratrici del nostro paese, qualcuno si convinse che questo era il prezzo per non distruggere, in una drammatica contingenza della storia, il movimento operaio e la democrazia in Italia.
I “miglioristi”, però, non cercarono giustificazioni.
Essi semplicemente sfruttarono le circostanze per sdoganarsi come forza di governo e si arruolarono nelle schiere della Controriforma che il capitale guidò a livello internazionale sfruttando la caduta dell’Unione Sovietica. Si gettarono nell’azzardo della trasformazione strutturale dell’economia italiana senza alcuna precauzione1. Iniziarono lo smantellamento della Costituzione (un processo non ancora terminato), modificarono le leggi elettorali per assicurare l’alternanza al governo a due sole forze politiche relativamente omogenee, il centro-destra ed il centro-sinistra, in modo da sterilizzare prima ed eliminare poi, la rappresentanza nelle istituzioni nazionali di un’opposizione radicale al sistema, delle istanze sociali e dei comunisti. Oltre che garantire in Italia gli interessi presenti e futuri del grande capitale nazionale ed internazionale e lo sviluppo di legami condizionanti con l’Europa dei poteri forti e con gli Stati Uniti, si lavorò per definire un quadro istituzionale che negasse anche l’ipotesi di una trasformazione sociale del Paese per via democratica. Il connubio migliorismo-imperialismo fu rapido e totale. Si concluse che la “normalità” per il nostro paese non poteva che essere quella della partecipazione senza remore alle guerre di rapina decise dalla Nato anche fuori dai suoi confini e indipendentemente dal fatto che alcuni dei paesi colpiti fossero in ottime relazioni col nostro paese – era la volta dell’Yugoslavia –, mentre con altri le relazioni non fossero affatto ostili.
Miglioristi ed epigoni, dopo aver tollerato e favorito l’aggressione ai diritti dei lavoratori, dopo aver svenduto parti essenziali della sovranità nazionale a chi controlla l’Europa, dopo aver compromesso il Paese in guerre senza fine in tante parti del mondo, al termine di un’ingloriosa parabola, tramano oggi con la destra per riscrivere la Costituzione e ridurre la repubblica parlamentare a repubblica presidenziale. Né li ferma la crescente disaffezione popolare verso “la politica” (in realtà, “i loro pasticci”), che, se pure colpisce più la destra che il centro-sinistra, ha portato ai minimi storici l’elettorato del PD. Infatti, il punto fermo delle loro elaborazioni istituzionali sono leggi elettorali con soglie di sbarramento sempre più alte e, naturalmente, premi di maggioranza.
Ma allora, chi si oppose al “migliorismo” non riuscì a contrastare la scelta che i liquidatori imposero a tutto il movimento operaio. I “miglioristi” controllavano le nervature delle organizzazioni di massa ereditate dal PCI e gli “oppositori del migliorismo” che non avevano altra esperienza politica che quella, si sentirono presto come pesci fuori dall’acqua. Si cercò, allora, di sostenere, l’ascesa politica dei dirigenti sindacali che si collocavano alla sinistra dei “miglioristi” ma, sopiti i movimenti rivendicativi della classe operaia delle grandi industrie del nord, spenti i movimenti ribellistici 68ini, ci si accorse presto che il movimento sindacale non esprimeva più quadri di lotta carismatici ma “tattici” delle lotte interna alla CGIL, spesso logorati. Anche per questo l’“anti-migliorismo” fu incapace di intendere la dimensione globale dello scontro di classe e trattò con sufficienza ogni rapporto coi processi e le tensioni internazionali. Così, seguendo la deriva dei gruppi dirigenti dell’ultimo PCI, anche la maggioranza di chi si oppose al migliorismo perse progressivamente ogni capacità di analisi della situazione internazionale in rapporto alle vicende interne del paese2. Quadri e dirigenti miglioristi ed anti-miglioristi esprimevano un inedito provincialismo, senza capire che chi li aveva preceduti alla guida del movimento operaio e progressista italiano si era guadagnato la fiducia del popolo nella vittoriosa epopea della lotta antifascista, la grande esperienza internazionale indispensabile al riscatto nazionale.
Non deve meravigliare, allora, che subito dopo la liquidazione del PCI, tra gli “anti-miglioristi”si palesassero profonde fratture. Infatti, mentre a favore dei “miglioristi” giocava, con forte impatto emotivo, il crollo del sistema socialista in Europa, gli altri si divisero non sull’analisi della situazione italiana (che erano incapaci di abbracciare) ma per la volontà di alcuni di fare i conti con le responsabilità del “socialismo reale”. Costoro, rivangando ragioni con le quali la storia aveva già fatto i conti, intendevano criticare tutta l’esperienza storica del socialismo e risolvere questa critica nell’unico programma politico conseguente: l’anticomunismo paludato dai valori astratti3 della democrazia occidentale. Un programma che non poteva nascondere, dietro incredibili premesse sociologiche, il vuoto dell’analisi politica, l’incapacità di comprendere la società italiana e i suoi cambiamenti.
Vero è che un tale deserto di analisi e di programmi era compatibile con l’accesso al governo anche agli anti-miglioristi, seppure come reggicoda dell’Ulivo/PDS/DS/PD (le forme in cui i miglioristi mutavano alla ricerca di nuovi equilibri interni). Ma si trattava di una finzione, che finché resse portò acqua ad un dilagante revisionismo storico, banco di prova della primordiale saldatura tra gli interessi controriformisti delle classi dirigenti ed i “miglioristi”, comunque mutati. In ogni caso il nodo centrale per sdoganare la sinistra anti-migliorista era ed è quello della sua collocazione internazionale. Ciò non può stupire se si considera il coinvolgimento crescente del nostro paese in tutte le avventure militari dell’imperialismo e nella preparazione di altre. Anche oggi, ad esempio, SEL ottiene la patente di partito di governo in una coalizione di centro-sinistra dopo aver affermato la sua disponibilità (per ragioni … umanitarie) ad un intervento internazionale (leggi Nato) in Siria.
Democrazia e “tutela” degli Stati Uniti
Democrazia e “tutela” degli Stati Uniti
Possiamo capire che questo sommario excursus – dove non si sono neppure registrati i generosi (se pur insufficienti) momenti dell’impegno della sinistra anti-migliorista contro le guerre americane –, possa apparire non convincente. Cerchiamo, allora, di attenerci ai fatti.
Si riconoscerà facilmente che la Repubblica Italiana è cresciuta sotto la condizionante tutela degli Stati Uniti d’America che, col moltiplicarsi delle sue basi militari di valore strategico in Italia, non è mai venuta meno. Solo la presenza in Italia di un grande Partito Comunista impedì il successo delle avventure golpiste promosse dai servizi segreti americani, come nella Grecia dei colonnelli. Il PCI di Togliatti e di Longo, infatti, non dimenticò mai il valore dell’indipendenza del Paese, minacciata del coinvolgimento nella logica folle della guerra fredda imposta al mondo dagli USA. Naturalmente c’era l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti temettero contraccolpi negativi alla loro egemonia a forzare troppo la mano sulle questioni interne italiane. Ma la strategia del PCI nella lotta in difesa dell’indipendenza nazionale, fu quella di far avanzare la democrazia, il potere popolare in forme dirette ed indirette, le riforme di struttura dell’economia, le lotte rivendicative per le riforme sociali di carattere universale. Una strategia di lotta e di governo che cementò vaste alleanze sociali e politiche. Queste, assieme al forte sentimento antifascista del popolo italiano, fecero da argine contro le avventure autoritarie e golpiste.
Le cose cambiarono con Berlinguer, che visse quella difficilissima stagione della rottura del blocco socialista (la contrapposizione URSS-Cina) che impedì di sfruttare appieno la limpida vittoria del Vietnam sugli Stati Uniti d’America. Nell’isolamento in cui, per lunghi anni, il PCI si trovò in Italia ed in Europa, Berlinguer ripiegò su se stesso e si dichiarò pago dell’ombrello della Nato. Il PCI si concentrò sempre più sui problemi interni (che senza sintesi internazionale, non sono neanche nazionali) e così si formarono quei dirigenti che al momento della rottura si divisero in miglioristi ed anti-miglioristi, mantenendo la stessa miopia ed il provincialismo originali.
La dimensione internazionale dei problemi
La dimensione internazionale dei problemi
Ma torniamo ai giorni nostri.
Nei frangenti di estese crisi economiche, lo scontro di classe palesa chiaramente la sua dimensione internazionale. I problemi e gli ostacoli che tormentano le masse popolari delle nazioni colpite dalla crisi sono gli stessi. Infatti, negli ultimi trent’anni, le politiche economiche della grande borghesia internazionale, delle multinazionali e del capitale finanziario hanno ridotto ovunque i mezzi per prevenire le crisi4. Ora si inizia a capire che fu un tremendo errore seguire il canto delle sirene iper-liberali, ma ormai i buoi sono usciti dalla stalla: la politica è impotente rispetto alla crisi economica. La crisi si riverbera, allora, sui partiti che puntano sulla repubblica presidenziale dove il potere è in mano ad un solo uomo che i partiti di governo, in una comoda ed essenziale funzione, devono difendere. Ma dietro all’impotenza della politica c’è il rifiuto delle classi dominanti di negoziare sui propri privilegi, e di accettare lo sviluppo economico di molti paesi “emergenti”5. Tuttavia, queste classi che non riescono a controllare nell’ambito nazionale le crescenti tensioni sociali e le contraddizioni del ciclo economico, saldano i loro destini a livello sovranazionale. Ma la crisi aumenta le differenze tra nazione e nazione, ed evidenzia l’impossibilità di rapporti solidali tra paesi capitalisti. Per questo le istituzioni europee, gli USA e la Nato coprono funzioni di vigilanza e di repressione antipopolare di ultima istanza, interferendo nelle vicende politiche anche dei paesi membri.
Porsi seriamente l’obiettivo di venir a capo della crisi economica che sta riportando il Paese indietro di decine d’anni, significa fare i conti con questa realtà. In un certo senso la difficoltà dell’obiettivo (irrinunciabile) è tutta qui, che l’Occidente, ossia l’orizzonte ideologico e concreto di classi dirigenti sovrannazionali ben collaudate, si rappresenta nell’unico modo in cui ha coscienza di sé: la forza di una superiorità militare che assicura la ricchezza alle nazioni che partecipano al secolare sfruttamento dei lavoratori, dei popoli e delle risorse di tutto il mondo. Ma si muove ormai sulla difensiva. Pericoloso come una belva ferita, può aprire e prolungare conflitti, ma non vincerli. L’Occidente, poi, non detiene più alcun monopolio strategico e deve confrontarsi giorno per giorno col resto del mondo praticamente su tutto. Lo stesso mantenimento del sistema imperialistico comincia a pesare sulle casse e sui debiti di chi lo deve sostenere. Si moltiplicano le pressioni perché si apra una stagione nuova di reali riforme antiliberiste. Sull’uso della Nato si palesano importanti divergenze: Germania, Austria ed altri paesi del nord Europa non si fanno coinvolgere nei conflitti in Africa e nel Medio Oriente sui quali, oltre agli USA, soffiano le ex potenze coloniali (Francia e Inghilterra). In Italia dopo la bravata contro la Libia sembra prevalere una linea di maggiore prudenza.
È possibile l’unità delle sinistre antimiglioriste?
È possibile l’unità delle sinistre antimiglioriste?
Ciclicamente a sinistra, dopo ogni sconfitta elettorale e l’amara constatazione della propria ininfluenza politica, si avanzano proposte per unire le frantumate forze “anti-miglioriste”. Ed è importante che ci sia chi si spende per cercare un collante serio, anche se non ideologico, per incrociare la volontà della sinistra “anti-migliorista” di entrare nello scontro sociale, con idee, proposte, orientamenti e capacità organizzative, e la necessità di parti qualificanti del sindacato di classe di costruirsi un indispensabile referente politico. Forse oggi le condizioni sono più favorevoli di ieri. Il migliorismo è in uno stato di crisi profonda che neppure le maggiori disgrazie elettorali della destra riescono a nascondere. Nessuno dei due partiti di centro (di destra e di sinistra), separatamente o assieme, è in grado di esprimere governi autorevoli e stabili. Tale situazione si determina per l’incapacità dello Stato di venir a capo della crisi economica. Ma se non si ritorna a dare allo Stato le chiavi dell’economia, l’impotenza dei partiti di governo sarà sempre più evidente. Anzi, a nostro avviso, è già stato superato il limite della loro possibilità di recupero. Un blocco di sinistra, che si batta con forza contro l’anarchia del capitale, può avere, oggi, maggior possibilità di recuperare credibilità sul versante di quel mondo del lavoro che la “politica della sinistra migliorista” non solo ha trascurato, ma anche tradito.
Tuttavia non possiamo scordare che l’unità più o meno organica a sinistra è sempre saltata sulle questioni internazionali, e che tali questioni per la loro crescente importanza sono un nodo che non si può aggirare. La società italiana è di fronte a problemi che non è in grado di risolvere da sola. Il ripensamento di un modello economico comporterà scelte di politica estera, significative se non radicali, forse l’incontro con i problemi di immense masse umane sulla via dell’emancipazione economica dall’occidente. Problemi che le nostre classi dirigenti sentono come ostacoli: una sorta di o noi o loro, mentre la soluzione è noi con loro.
Ma per comprendere una realtà internazionale in movimento sempre più rapido, non basta uscire dagli schemi di giudizio miopi dell’occidente imperialista, bisogna lavorare seriamente per la pace – che è la condizione dei processi positivi globali – e per un nuovo sistema di relazioni internazionali come conseguenza di un mondo multipolare. Bisogna, quindi, far crescere la rivendicazione di un inedito spazio di autonomia del Paese.
Forse ci siamo persi qualcosa, forse a causa delle sconfitte elettorale qualche sostenitore di tutti i disimpegni possibili è scomparso (non tutto il male …), forse le enormi difficoltà in cui si dibattono le classi popolari di tutta Europa per superare almeno in parte, le conseguenze della fine dell’URSS hanno aperto gli occhi a qualcuno; come l’evidenza delle tragedie sociali dei paesi democratizzati a suon di bombe Nato; forse il ruolo per la pace della Cina, modello di una grande potenza senza basi militari all’estero che attira la simpatia dei popoli e delle nazioni del sud del mondo e che mantiene l’economia mondiale fuori dal baratro; forse tutto ciò ed altro, raffreddano lo sterile eurocentrismo di tanta sinistra. Certo, forse, ma chi ha contribuito a distruggere il grande patrimonio antimperialista di massa del PCI ed ha tradito il grande movimento per la pace che in Italia segnò il momento di massima espansione della sinistra, dovrebbe quantomeno farsi da parte.
Naturalmente il giudizio è nelle mani di chi opera per costruire l’unità e non di chi se ne sta alla finestra con la matita rossa e blu. Ci si perdonerà, però, l’eccesso di prudenza, scottati come siamo stati dai fallimenti di tante iniziative partite con le migliori intenzioni. Invero il nostro modestissimo auspicio è che questa volta non si nasconda la testa sotto la sabbia, ma che si apra, finalmente, un confronto a sinistra sulle questioni internazionali e che anche su questo si misuri il carattere dell’unità possibile.
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