Una voce fuori dal coro del "sogno tedesco"
Piotr Zygulski intervista L.F. Palazzini Finetti
Ciao Filippo, raccontaci brevemente di te. Come mai ti trovi in Germania e precisamente a Berlino?Come neo-laureato alla triennale di Filosofia all’Alma Mater di Bologna scelsi, consapevole dell’importanza che la conoscenza del tedesco ha per lo studio della tradizione filosofica occidentale e non solo, di continuare il mio percorso di formazione professionale in una città della Germania, ove avrei potuto tanto imparare ex novo ed esercitare questo idioma, quanto eventualmente trovare un ambiente umanamente fertile ed accogliente in cui gettare le basi per la mia vita futura, viste e considerate le tragiche sorti in cui versa il mio paese e le scarse aspettative consentite in patria a noi giovani. Inizialmente influenzato da una certa mitologia tuttora molto forte in Italia che vede la Germania come quella nuova terra europea dove tutto è possibile, dove tutto funziona bene per tutti, e in particolare dalla storica fama di Berlino. Pianificai quindi di terminare i miei studi proprio in quella grande città di cui tutti parlavano sempre così bene e che da una mia precedente breve visita ricordavo positivamente.
Poiché l’hai effettivamente vissuta per alcuni mesi, puoi raccontarci come è la città di Berlino.
Sì, avvicinandomi all’ottavo mese di vita qui, penso di poter ora dare alcune indicazioni, di carattere personale, che descrivano in qualche modo la realtà sociale che mi circonda, secondo le impressioni e le idee che mi sono fatto sinora.
Premetto subito che la nota dominante sarà quella della disillusione. Berlino è oggi una metropoli tedesca molto particolare, ma al tempo stesso perfettamente assimilata dai meccanismi di riproduzione massificata della società ultra-capitalistica neoliberale (di stampo U.S.A.) contemporanea. È una città che ha fatto dell’accoglienza e della tolleranza i suoi cavalli di battaglia, per non dire elefanti da guerra. È una città economicamente in stato di rapido sviluppo con relativa esplosione dei consumi e dei prezzi, ricca e piena di opportunità se paragonata a qualsiasi città italiana, ma povera e del tutto eccentrica se paragonata agli altri centri abitativi importanti della Germania. Nondimeno è riconosciuta generalmente una progressiva assimilazione al modello urbano di sviluppo londinese con implicato abbattimento delle peculiarità tradizionali dei singoli Stadtviertel (quartieri cittadini, Kreutzberg, Prenzlauer Berg, Friedrichshain ecc, per intenderci), anche sotto il profilo più strettamente urbanistico-architettonico, oltre che una certa qual omogeneizzazione dei caratteri che informavano negli anni passati le diverse anime di Berlino. L’incontro con i nostalgici degli anni novanta è stato continuamente all’ordine del giorno. Le lamentele che ho sentito levarsi da ogni parte contro questa particolare forma di globalizzazione da parte di tutti coloro i quali sono qui da molti anni, i cosiddetti “vecchi dinosauri” di Berlino, vanno rimpiangendo i tempi della Love Parade, del marco, delle case occupate, e della Berlino degli artisti, dove chiunque poteva vivere bene, reinventarsi e realizzarsi con molta facilità. Oggi queste lamentele contro l’omologazione sono anch’esse omologate in un unica rassegnata litania che recita: “ormai quel mondo è finito, e non tornerà più”. Qui, più che in altri luoghi emerge, a mio parere con chiarezza, l’apocalittica monodimensionalità dell’uomo marcusiano, solo con qualche sopravvivenza – per dirla con Taylor – di sfumature tipiche del carattere nordico-tedesco che, sia detto per inciso, non mi fa impazzire di empatia. In sintesi vi trovo la convergenza del carattere alienante e spersonalizzante, tipico di tutte le megapoli contemporanee, e della proverbiale freddezza etico-climatica del tipo tedesco, che logicamente continua a dare la in-formazione primaria e fondamentale alle dinamiche cittadine restando immanente alla tanto sbandierata multietnicità dell’accoglienza.
E i berlinesi? Che impressioni hai avuto del loro carattere e di quella accoglienza cui ti riferivi?
L’accoglienza è in effetti a mio avviso un punto fondamentale e uno dei tanti paradossi che alberga presso le logiche cittadine. A dispetto di un’effettiva enorme capacità di accoglienza sotto il profilo puramente legato alla funzionalità amministrativa, all’assorbimento nel mercato del lavoro (in verità in critica diminuzione), alle progettazioni politiche di agevolazione all’integrazione linguistica e culturale, si rivela oggi nel vissuto effettivo un sottosuolo di tristi e lugubri compartimenti stagni. Il quotidiano è, infatti, fondamentalmente all’insegna dell’atomizzazione totale dell’individuo (carattere tipico della morfologia capitalistica) e superficialmente all’insegna dei gruppi chiusi di stampo nordico, ove lo scenario che si apre è quello di cinesi con cinesi, giapponesi con giapponesi, turchi con turchi, polacchi con polacchi o, al massimo, con russi, italiani con italiani, e, massimamente e primariamente, tedeschi con tedeschi. In sette mesi, antistante la mia nota socievolezza di cui chiunque mi conosca può far testimonianza, non ho nemmeno un amico tedesco, né ho mai incontrato le possibilità reali perché si potesse dare effettivamente l’occasione di allacciare e stringere una tale amicizia. E tutti quelli con cui mi confronto mi dicono la stessa cosa: che è difficile relazionarcisi, che i tedeschi sono schivi, distaccati e poco empatici. Il tipo /stereo-tipo tedesco appare infatti nella sua tendenziale chiusura entro circolarità ristrette e consolidate negli anni. Fenomeni di questo tipo sono presenti in ogni dove lo sguardo si volga, addirittura individuano un assetto sociale pressocché uniforme che definirei all’insegna della sclerotizzazione. L’attributo caratteristico del tipo tedesco, che indicherei come primario se me lo si chiedesse a bruciapelo, è infatti la rigidità, intesa in tutti i sensi possibili (mentale, abitudinaria, normativa, amministrativa-burocratica) ed eminentemente nel significato contrario all’elasticità. Sono rigidi come rigidi sono i loro inverni, senza mezzi termini. Se c’è una cosa da fare, pianificata, la si fa, punto. Il piano dell’ordine e della disciplina sovrasta quello dell’incontro con l’altro. Hanno persino modalità di reazione pianificate, ma l’imprevisto puro li coglie impreparati. Non sono flessibili. Questo carattere si è eretto a fondamento esistenziale, ed emerge in filigrana anche a dispetto dell’eccentricità in cui, come già accennato, la Berlino città-stato tedesca odierna si colloca rispetto alle altre parti della Germania. La programmazione sistematica di ogni momento e spazio della vita, tutti con l’agenda piena di appuntamenti, le lontananze cittadine, la mancanza di una dimensione comunitaria, di piazza, agorà-centrica e la conseguente difficoltà nello stabilire relazioni filantropiche, sono solo alcune manifestazioni delle forme di alienazione quotidiana, a cui contribuiscono in egual misura i caratteri che abbiamo individuato e che principalmente raccogliamo sotto le due seguenti voci caratteriali :
1. Freddezza-rigidità
2. Individualismo (di massa) metropolitano spersonalizzante.
Potresti farci alcuni esempi di ciò?
Prendere la metro ogni mattina e vedere l’abbattimento e l’abbruttimento incarnatisi in questi corpi malnutriti (grassi, unti, brufolosi, trasandati, troppo spesso ipertroficamente cresciuti a base di Fast-Food e ogni tipo di golose schifezze) di questi sguardi vuoti e spenti, persone chiuse ognuna nel suo mondo il cui orizzonte si rinchiude in questi onnipresenti touch screen, il silenzio comunicativo, è aberrante. Gli incontri sono troppo frettolosi, la gente non ha mai tempo per dedicarsi serenamente all’altro, lo sballo onnipresente si consuma in fretta, appaga momentaneamente e innesca la dipendenza, come la maggior parte dei prodotti sul mercato, ovvero nel mondo stesso, dove le merci devono circolare in fretta, consumarsi o rendersi obsolete ancora più in fretta per lasciar spazio alle successive. Così anche le relazioni umane. È la morte pianificata del dialogare. E cuffiette nelle orecchie, per isolarsi meglio. Il mix delle voci 1 e 2 che abbiamo individuato è probabilmente in qualche modo sentito antropologicamente come doloroso, tant’è che gli individui tentano periodicamente fugaci e futili fughe dal loro cronico isolamento.
È forse ancora un residuo contorto di quello che Hegel chiamava coscienza infelice?
Non so, ma di certo non si è in grado di uscire dal tunnel. E dove sono i filosofi che trascinino a forza questi cavernicoli a vedere la luce del sole? Esistiamo ancora? Le labirintiche logiche cittadine sembrano non lasciare scampo e va affermandosi e normalizzandosi una pseudo-soteriologia del divertissement euforico e dello sballo, dove l’alienazione è in realtà, di fatto, tenuta a battesimo invece che sconfessata. E dopo un’intera giornata di rigidità, in cui per strada non ci si parla, in metro non ci si parla, sui tram non ci si parla, nelle piazze non ci si….. Hei! Ma quali pazze? Sanno ancora cosa sia una piazza? Ebbene, dopo stringenti tempi di lavoro e d’impegni all’insegna dell’ inflessibilità onnilaterale, ecco aprirsi e fischiare come nelle pentole a pressione la valvola di sfogo dell’alienazione, i cui nomi sono tanti quanti gli individui, ma più o meno sempre fondati in un alterazione coatta: fiumi di alcool, droghe, club esclusivi e musica a tutto volume sono i viatici di massa emergenti per la relazionalizzazione artificiale e vana. Ah, adesso sì che costoro si sentono autorizzati ad attaccare bottone alla gente in giro, ad esporsi all’altro e a manifestare interesse, peccato che poi tutto questo svanisca al termine degli effetti delle varie sostanze assunte ad hoc. E vedi così gente che normalmente non si arrischia nemmeno a guardarti negli occhi, entrare in questi club, sprofondarsi in una versione mercificata del dionisiaco e fare e dire le cose più pazze e più fuori dagli schemi possibili, consumare e consumarsi senza limite, salvo poi uscire dalle porte di quei luoghi più svuotati che riempiti, minimizzati, dopo aver avuto delle pseudo-relazioni con delle altre pseudo-persone pseudo-disalienate. Persone spersonalizzate, le vedi riprendere il le loro soldatesche marce di rigidità, il viso riprendere l’inespressività e l’impassibilità e quello che è rimasto delle loro anime, rinchiudersi in se stesse, al riparo dal nordico freddo. Questa dialettica dolorosa tra rigidità e dissoluzione accade in maniera pressoché omogenea e trasversale rispetto alle diverse tipologie di persone, ed è manifesta anche in contesti meno trasgressivi. Il regno animale dello Spirito è ora rinchiuso agonizzante nella gabbia d’acciaio. Logicamente tutto questo non avviene solo a Berlino, essendo una delle ricadute antropologiche della globalizzazione e della società di massa, ma si rende particolarmente evidente in luoghi dove manchi il controllo comunitario, dove ognuno è uno su diversi milioni, è sconosciuto all’altro e pertanto può sfrenatamente abbattere ogni freno inibitorio nei suoi usi e costumi, senza che si levi una vera critica nei confronti dei suoi comportamenti, e per vera critica intendo quella che ti influenza e che ti cambia.
Quali sono, allora, i luoghi di socializzazione di Berlino che vengono tanto decantati? Questa città è un simbolo di tanti giovani, anche italiani.
Un sintomo di sclerotizzazione (effetto del punto 1) è la compartimentalizzazione financo degli spazi urbani-sociali, i quali devono essere rigidamente adoperati secondo la logica loro propria, per cui la piscina è il posto per nuotare, non per parlare o ridere, quindi in piscina si nuota e basta, in palestra ci si allena e basta, in strada si cammina, a scuola si studia e così via rigidamente. Scarsa o nulla la possibilità d’intercambiare il senso degli spazi e degli oggetti, e quando questo vien fatto ha degli obiettivi prettamente economici di guadagno. Il luogo preposto alla socializzazione è quello dove si socializza, non altri. E il luogo per eccellenza preposto alla socializzazione è, dato il freddo imperante, quasi sempre un luogo chiuso, il che potrebbe sembrare una cosa innocente, ma non lo è affatto. I luoghi chiusi sono infatti, e in particolar modo quelli dove in qualche misura si articola l’industria del divertimento (ossia quelli maggiormente indicati per la socializzazione di massa), non solo chiusi, ma privati. Privati e, quasi sempre, più o meno a pagamento, ossia luoghi in cui entri con l’obiettivo di socializzare, ma la cui privatezza, messa al servizio del capitale, ti impone nella maggior parte dei casi di pagare un servizio o di comprare qualcosa di superfluo ai fini del rapporto con l’altro. Questo meccanismo è subdolo, ma soprattutto triste, perché di fatto rende esigue o nulle le possibilità di relazionarsi senza in qualche misura spendere dei soldi, ossia tendenzialmente si mercifica la possibilità stessa di comunicare, di conoscere persone nuove e di intessere relazioni umane… Sembra proprio che l’apocalittica espressione marxiana della mercificazione totale, poi realizzatasi globalmente, abbia ironicamente preso l’antico detto “Chi trova un amico trova un tesoro” mutandolo in “Per avere un amico devi avere dell’oro”. Si individuano, così, delle precise possibilità di stringere rapporti con certe persone che frequentano e socializzano in certi posti, a partire dalle disponibilità economiche degli individui che attendono alla socializzazione stessa, creando automaticamente e sistematicamente concentriche cerchie timocratiche di frequentazioni e di differenziazioni dello stato sociale. Beh, nella misura in cui me ne rendo conto, devo dire che tutto questo mi disgusta, ed è uno dei fattori che hanno inciso sul mio gradimento della vita berlinese.
Ma è tutto l’anno così?
Ora che è estate, il panorama è leggermente cambiato, ma non nei suoi connotati fondamentali: è vero infatti che fa caldo, si sta meglio, la gente può uscire e teoricamente socializzare in spazi aperti, ma di fatto il freddo è ormai incarnatosi nel tipo tedesco che fondamenta e struttura la socievolezza berlinese dominante, ed infatti basta andare in un parco per vedere che anche lì si ritrovano, salvo pochissime eccezioni, solo gruppi chiusi e non comunicanti. La differenza con la mia amata Bologna, dove la balotta (termine gergale di difficile traduzione, afferente ad un vasto campo semantico in cui rientrano tra l’altro: amicizie, frequentazioni, compagnia, festa, divertimento, tempo trascorso spensieratamente in buona compagnia) e l’aggregazione umana è immediata e spontanea, dove nel giro di qualche mese ci si conosce, ci si chiama, si vive assieme e si condivide tanto al punto da sentirsi subito a casa propria, è cogente ed eclatante.
Però tanti che sono stati a Berlino parlano di una grande vivacità culturale e soprattutto di una tolleranza esemplare, da assumere come esempio.
Ecco, sì, questo indubbiamente sì, all’interno però di una società in cui puoi essere oggi in un modo e domani in un altro, crearti infinite identità e prendere l’altro come più ti piace, consumarlo, perché tanto volendo non lo rivedrai mai più. Sì, la tolleranza, tutti vanno bene per come sono, basta che siano soli, che non siano nello stare insieme una capacità radicalmente trasformativa, nessuna violenza, nessuna discriminazione, il paradiso del libertino omosessuale trans che può andare in giro conciato come più pazzamente gli viene in mente e nessuno dice nulla, ma è questa la libertà? Esiste l’individuo astratto dal suo contesto relazionale e comunitario di formazione? Gente isolata e però liberissima di scegliere tra mille tipi diversi di dentifrici o di creme per il corpo, tra mille fast food diversi, tra mille locali serali tutti uguali, mille salse per insaporire sempre la solita pietanza macilenta, mille vie per spendere e consumare, tutte diverse, per precorrere in realtà sempre solo lo stesso cammino individualistico. Ecco avvenire l’implosione di massa (psicologica, ma non solo) e si finisce per ricercare di alterarsi in un alternativismo esasperato e modaiolo, per girare con le mutande in testa o con i capelli fucsia ghepardati, tanto più sei individualmente eccentrico e più sei “in” e più sei accettato sotto l’egida della tolleranza ostentata che finisce per ribaltarsi dialetticamente in un esclusivismo al contrario, dove le persone più semplici (almeno esteticamente) spesso non sono abbastanza alternative per il Club o il bar di turno. Tutto questo è molto contraddittorio, lo ammetto, ed è per questo che ne resto esterrefatto. Si inneggia alla diversità e all’accettazione di ogni più perversa forma di espressionismo umano e si ricade in una omologazione totalizzante sui punti più fondamentali del vivere comune e, soprattutto, del pensare. Forse non avrò conosciuto le persone giuste, forse avrò avuto sfortuna, ma il quadro impressionistico che mi sono fatto non è troppo di mio gusto.
Però tanti dicono che Berlino sia una città fantastica, in quanto offrirebbe moltissime opportunità.
Berlino è oggi la città ideale per chi abbia interesse nel denaro, nei profitti derivanti da un’agevolata attività imprenditoriale, per chi ami soprattutto un certo genere di società dal costume liberalizzato al massimo, in cui puoi fare quello che vuoi senza che nessuno ti dica niente. Riconosco che tutto questo ha diversi aspetti positivi e punti di forza, ma che socievole insocievolezza è mai questa in cui il vicino di casa è un perfetto nessuno e non si interessa minimamente di te? Dove puoi schiattare e il tuo cadavere sarà ritrovato solo perché prima o poi qualcuno sente la puzza della decomposizione?
Quindi tu, personalmente, non ti sei trovato bene a Berlino. Per quali motivi?
Penso che questi che ho cercato di accennarti siano alcuni di motivi strutturali che mi hanno impedito un’apprezzabile integrazione relazionale, e siccome ho maturato un sentire politico in qualche misura comunitaristico, e sono ora convinto che la felicità si raggiunga nel perseguire il bene, non isolatamente ma all’interno dei rapporti e delle relazioni con gli altri, sto iniziando a sentirmi fuori posto in un ambiente del genere, e non penso che sopravvivrei ad un altro inverno senza gravi ricadute psicologiche di depressione, senza espormi al rischio reale di un annichilimento umanitaristico. In particolar modo mi mancano da morire persone intelligenti e colte con cui portare avanti un dialogo, il che ovviamente deriva dal fatto che non sono integrato in un circuito universitario o nei circoli tedeschi colti rigidamente chiusi, anche se apparentemente molto aperti allo straniero, a sua volta ciò è in parte dovuto al fatto che, mancandomi il lessico, non parlo ancora tedesco a un livello tale da poter affrontare discorsi profondi e appaganti, sempre che trovassi qualcuno con cui farli. In aggiunta ci sono motivi di ordine contingenziale – biografico, che ora esporrò in ordine casuale, che contribuiscono alla mia insoddisfazione attuale. Dopo quasi 5 anni in Italia di tipica “vita da fuorisede“, in cui avevo sempre preso alloggio e vissuto con altre persone, trovando purtroppo, ogni anno delle grosse rogne nel difficile rapporto con i vari coinquilini che si erano succeduti, ora finalmente mi ero risoluto ad abitar da solo, ed affittai un monolocale, in cui risiedo tuttora. La convivenza domestica solo con me stesso e nessun altro, devo dire, mi è molto piaciuta, ho amato l’autonomia totale e la tranquillità che essa comporta, ma, in un contesto in cui è davvero molto molto difficile intessere relazioni e fare nuove amicizie, non ha di certo giovato a tale pro. Un altro punto importante è che non ho trovato l’amore, amor ch’a nullo amato amar perdona, proprio quello… l’amor che move il sole e l’altre stelle…. Che se mi avesse stretto nel suo morbido e caldo abbraccio, di sicuro sarebbe stato un altro buon motivo per restare…. Insomma concludendo mi mancano i miei amici, i miei affetti, i miei libri, un ambiente caldo o almeno temperato di persone amichevoli e aperte.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Cosa ti ha lasciato questa esperienza a Berlino? Tornerai in Italia?
Il progetto che avevo di iscrivermi alla Humboldt Universität, è andato recentemente in fumo, in quanto ho realizzato che per iniziare ad ottobre l’anno accademico ci vuole un certificato di C1 (e io sono ora circa all’inizio di un B2) e soprattutto, cosa inaspettata, che non è assolutamente possibile iscriversi ora e recuperarlo in un secondo tempo, cosa che in Italia in genere è ammessa (si riveda qui il punto 1 sulla rigidità tedesca). Se si tratta di restare un altro anno nell’attesa di iscrivermi all’Università con ogni probabilità rifiuterei, se si trattasse invece di entrare al secondo semestre allora ci penserei su ancora un po’, perché in generale devo dire che Berlino non mi ha conquistato o affascinato particolarmente. Con questo non voglio dire che non sia stata anche un’esperienza positiva e che non ci siano comunque in questa società tanti aspetti positivi … Una qualche diversità c’è, almeno in prima battuta, di lingue, di modi di porsi, di origine di tutti gli Auslander (ovvero di coloro che si sono trasferiti qui negli anni), ma è una diversità epidermica sotto la quale batte ovunque il ritmo di uno stesso cuore pulsante: il disincanto del mondo, la secolarizzazione, il nichilismo, la massificazione, l’assimilizzazione alle logiche capitalistiche, l’intrascendibilità ideologica di questo sistema. Da Nietzsche a Simmel. L’idea di iniziare qui con un nuovo inverno, con tutti giorni grigio, neve o pioggia, senza mai vedere il sole, con un freddo da battere i denti, senza i portici che ti proteggono, tutti chiusi nelle proprie case lontane l’una dall’altra, mi atterrisce.
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